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sabato 28 dicembre 2024

La pillola dell'eterna giovinezza e la grande bestia nera

La scorsa estate, in preda a un imbarazzante sfogo a puntini e a una manifestazione incredibile di dermografismo, mi presento dalla mia ginecologa con l'aria di una che ha perso le speranze. Mi hanno visitato tre medici e nessuno mi ha saputo risolvere il problema, poi arriva lei con la sua voce calda e le sue spiegazioni pacate e mi considera nell'insieme. Ho un problemino di stress non indifferente e una micosi diffusa. Mi risolve la parte da gestire coi farmaci. I puntini spariscono pian piano, il dermografismo si ripresenta in due occasioni: quando, a settembre, per una settimana intera nessuno mi dice che classi mi daranno, e quando, a dicembre, al corso di sviluppo personale coll'Imperatore dei Paraculi parliamo del rapporto con mia madre. Nel primo caso dura una settimana circa e sparisce IN UNA NOTTE dopo che mi hanno dato l'orario dell'anno. Nel secondo caso dura poche ore, comunque prendo nota che sta diventando un potente indicatore di situazioni nelle quali mi sento orribilmente impotente. Nella stessa occasione in cui mi risolve il problema dermatologico, la ginecologa prende finalmente sul serio anche le mie lamentazioni sulla situazione di perimenopausa in cui mi aggiro disagiata da un paio d'anni e, invece delle erbe poco significative che mi aveva dato la prima volta, mi prescrive un fantastico ormone sostitutivo per tre mesi, "poi se non ti sei regolarizzata torni e te lo faccio continuare". Io prendo religiosamente il mio ormoncino, che in capo a tre settimane viene ribattezzato la pillola dell'eterna giovinezza, perchè: - sono piena di energie - mi vedo bellissima - mi sono scomparsi gonfiori e fastidi vari - il ciclo è regolare - il cervello mi funziona a mille - sono persino di buon umore. Unico neo, essendo ringiovanita, ho perso l'unico vantaggio della perimenopausa, che era dormire come un ghiro per più ore possibili, senza mai svegliarmi, il che, per una che dorme poco e male da quando era una bambina piccola, è una cosa così insperata che ormai credevo sarei morta senza sperimentarla. A conti fatti, alla prossima reincarnazione, un po' di quiete di notte sarebbe stata la prima cosa che avrei chiesto, ero disposta a darne via parecchie altre. Invece, devastata dal ciclo irregolare, dormivo con un abbandono da neonati. La pillola della giovinezza questo me lo porta via, ricomincio a svegliarmi alle 4 di mattina e a circolare per casa come il fantasma di Canterville alle ore più disparate. Ma poco importa, perchè di giorno sto bene. Poi finiscono i tre mesi di cura. Il ciclo sembra stabilizzato, quindi non torno dalla dottoressa. Ricomincio a dormire bene. Prendo altro peso. Mi riempio di dolori articolari. Mi addormento di giorno, continuamente, anche al volante. Diventa obbligatorio, durante gli spostamenti, fermarsi nelle piazzole e negli autogrill per un pisolino, che una volta durava 10 minuti, adesso ne dura 25 o anche di più. Mi sento pesante, gonfia, stufa di tutto, perdo la pazienza, mi annoio. Va bene, mi dico. Sono stati due anni pienissimi, mi sono stancata, gli ormoni, i casini sul lavoro, etc. Ma in fondo, mi dico anche, siamo qui insieme, nella casa più bella del mondo, abbiamo un sacco di progetti, la figlia a sua volta con il maritino nuovo di zecca sta facendo ragionamenti di case lavoro figli e altre robe a lungo termine, la situazione lavorativa si è ristabilita all'85% (su questo bisognerà dire, è una riflessione lunga, che può diventare anche ampia, sui modelli di lavoro in team che non funzionano, o non funzionano più, ai nostri giorni). La famiglia, con la grave eccezione della Suocera Bio, tiene botta. Il resto va o, per dirla coi Liguri giustamente pessimisti, lo facciamo andare. Eppure. Sento un basso suono gutturale che mi accompagna, avverto un odore di umido, sporco, vecchio. Me ne accorgo perchè da un paio di mesi non ho voglia di rispondere ai vocali, non ho voglia di organizzare uscite (se non con Red e El), mi sembra tutto difficile a parte tornare a casa e mettermi in pigiama, perdermi davanti a mille puntate di Homeland e addormentarmi ogni volta che c'è un dialogo di più di quattro battute. Non riesco a leggere un libro, non mi trucco quasi, ho un problema abbastanza serio ad un piede per cui non posso mettere scarpe particolarmente femminili e mi abbasso fino ad andare a scuola con le scarpe da ginnastica, cosa che mi uccide il personaggio costruito con tanta fatica che era ormai la mia seconda natura, e mi deprime moltissimo. Sottovaluto il problema: quante volte sono già venuta fuori da momenti ben più di merda? So bene cosa ci vuole, la disciplina, la routine sana, gli amici, il riposo, dei progetti da seguire, qualche paletto piantato bene. Ma una parte di me l'ha vista, la bestia, la grande bestia nera. Alle botte d'ansia siamo abituati, all'attacco di panico improvviso con fame d'aria e tremori siamo già in grado di mettere una pezza, ma quando diventano sempre più frequenti è pesante, e poi c'è lei. Acquattata sotto il letto, buia, pesante, con quell'odore rancido. Mi pesa addosso mentre guardo tramonti incantevoli, appena mi siedo in sala professori un attimo da sola, mentre aspetto che bolla l'acqua della pasta. Sapere che passerà non serve a niente, la bestia mangia la speranza, mangia il futuro e se ne frega del passato, mi blocca in questo eterno presente infelice. Inghiotte lentamente, come una pozza di sabbie mobili, le stelle che brillano qua e là nel buio, come i momenti con la Princi o qualche risata di cuore fatta con l'Uomo, con gli amici, coi colleghi. La parte peggiore è che questo animale è stato alle mie calcagna in altri momenti della vita, ma la mia quotidianità non era questa, allora: non avevo figli e non dovevo occuparmi di molto se non di andare a lavorare (cosa che mi riesce comunque ancora bene) e di sopravvivere un po'; certo, questo se non consideriamo il danno che facevo alle relazioni con gli altri che convivevano con il fantasma della me a cui volevano bene. Grande Pagliaccio, in qualità di amico trentennale, sta cercando di dirmi che mi devo fermare, come io ho detto a lui, con un tono reso quasi isterico dalla preoccupazione, un giorno d'estate di un anno e mezzo fa, quando la fidanzata Erszebet Bathory lo stava sbattendo su e giù come uno straccio della polvere, il lavoro gli andava storto e io avevo paura che morisse d'infarto. Ma la mia vita al momento ha una velocità che non saprei come ridurre. Negli ultimi 5 anni ho lavorato in tre ambiti diversi, da 4 anni insegno in un contesto sociale estremo, negli ultimi 3 ho aggiunto un'altra città alle mie peregrinazioni settimanali, da 2 anni e mezzo abbiamo cambiato casa e, non bastasse, nell'ultimo anno siamo stati anche senza una base in Liguria, dove però abbiamo continuato ad andare per gestire la famiglia. In più, a me è venuta una forma di orrore all'idea di rallentare, di dire di no all'amica che ha bisogno di sfogarsi, di rimandare gli impegni, forse perchè la persona che sono diventata non è germogliata da sola ma è stata frutto di un lavoro duro e impegnativo negli ultimi anni e non esiste, dopo tutta questa fatica, tornare al punto di partenza. Quindi siamo qui, nella Casa dei Sogni baciata dal sole invernale: io, l'Uomo, le gatte, e la grande bestia nera. Oddio: forse dovremmo conteggiare anche la monumentale angoscia che accompagna l'Uomo, ma quella, tutto sommato, ormai fa parte dell'arredamento, anche perchè a mille profferte e proposte per trovare soluzioni lui si è sempre sottratto, e poi ultimamente ruggiva meno forte, forse è per questo che io ho percepito il respiro pesante della mia bestia, perchè la sua occupava almeno apparentemente meno spazio. Non so. Cioè, so. So che non devo mollare, so anche che, se è destino che molli, mi verrà qualcosa che mi bloccherà al palo costringendomi a mollare, almeno in parte, almeno per un po'. So che come è arrivata se ne andrà, solo che la durata in passato era di minimo due anni e io, adesso, non so se ce li ho, due anni da buttare in un pozzo. Diciamo che a gennaio vado di nuovo dalla ginecologa e glielo racconto. Diciamo che una cosa che mi ha fatto felice è stata trovare una piscina bella lunga utilizzabile anche d'inverno, per cui appena mi passa l'influenza ci tornerò. Diciamo che posso ricominciare a insegnare yoga e anche iniziare un altro corso da allieva. Diciamo che so come si fa. Diciamo che non ho voglia di perdere tempo a far finta di non saperlo. Per cui al mattino scavalco la bestia e vado, anche se lei fa quel suono basso e dolente. Un bel giorno, semplicemente, scenderò in cucina, farò colazione, mi preparerò per la scuola, e ad un certo punto delle cose che sto facendo mi renderò conto che la bestia non mi ha seguito.

domenica 25 agosto 2024

Fantasmi e disagi

Ieri, mentre mi trascinavo con un attacco di sciatica aspettando che tornasse l'Uomo per farmi massaggiare la chiappa con la pomata antinfiammatoria, mi è saltato all'occhio un parallelismo. Rewind al 2020, settembre. In mezzo alla pandemia, mi è arrivato il trasferimento da Scuolina Rosa a Scuola Vintage. Arrivo il primo giorno, e il Vicepreside Faina mi fa personalmente fare il giro della scuola, un veloce (troppo veloce) briefing sul registro elettronico, complicatissimo rispetto a quello che usavo prima, e, pronti via, mi lascia in sala prof, dicendomi di scegliermi un cassetto. Alzo gli occhi: la cassettiera di metallo l'ha disegnata lo scenografo di Avatar, per arrivare all'ultima fila in alto devi essere un supereroe della Marvel. Esclamo: "Ma giocate tutti a basket, qui a Scuola Vintage?" e vengo oltrepassata da un sorridentissimo Orsone, che con un gesto privo di sforzo deposita, chilometri sopra la mia testa, i moduli del suo libro di scienze nel cassetto col suo nome: "Infatti io mi sono scelto un posto bello in su, senza dover chiedere". Mi accomodo qualche piano sotto di lui, perché la sua presenza mi rassicura, e la visione del suo braccio che mi scavalca mentre sto frugando nel disordine del mio cassetto diventa, da quel momento, parte del mio quotidiano. Vado in bagno, attraversando intere nazioni: i corridoi sono lunghi come piste nel Kalahari e il bagno dei professori è uno solo, nel senso di uno, per uomini e donne, senza antibagno, senza finestre, senza ventola, buio, grigio e polveroso. Attraversando i corridoi trovo i bidelli intenti svogliatamente a spostare di qua e di là le frange, spingendo quelle che palesemente sono carte di merendina dell'ultimo intervallo svoltosi lì, NEL FEBBRAIO PRECEDENTE. Due giorni dopo, cercando materiale nell'armadio dei libri di testo, trovo inequivocabili cacche di roditori. Menomale che la scuola è piena zeppa di dispenser con amuchina in gel, mentre vado a chiamare i collaboratori ne bevo uno e me ne verso addosso tre. Il ratto verrà avvelenato con esche e rinvenuto cadavere sotto una scrivania, dal bidello Gargantua, a metà della settimana. Nel frattempo ho più volte stracciato mentalmente la presa di servizio e mi sono chiesta se, facendo 12 km in ginocchio sull'asfalto della statale nella Valle delle Meraviglie e flagellandomi nel frattempo la schiena con punte di metallo, avrei potuto farmi riammettere nella mia scuolina scintillante, luminosa, in mezzo al verde, coi pavimenti così puliti da poterci mangiare e le poltrone in sala prof. I primi mesi a Scuola Vintage sono un incubo cognitivo. Tutti hanno la mascherina, molti parlano con la r moscia, la r blesa, la r francese, la evve, molti parlano veloce con accenti smozzicati di posti vari d'Italia, per non parlare degli alunni e dei genitori che provengono da quattro continenti, hanno nomi dalla pronuncia incredibile traslitterati con fantasia da impiegati dell'anagrafe, e in alcuni casi parlano l'italiano così poco che non sai se hanno capito quando fanno cenno di sì con la testa. Solo molto tempo dopo mi renderò conto che in quei primi mesi ero preda, tra le altre cose, del rallentamento cognitivo dovuto ai postumi del Covid, e la memoria a breve termine era indebolita di brutto. Insomma, il disagio. In mezzo al quale disagio, peraltro, ho passato mesi di meravigliosa realizzazione professionale e qua e là vero e proprio successo, e mi sono legata in modo malato alla luce che taglia in due i corridoi coi finestroni settecenteschi, al suono assordante delle campane della cattedrale che interrompe le lezioni, e a tutto il resto. Questo, prima che andasse tutto veramente molto male e l'Inquisizione mi scoprisse. Ma questa è un'altra storia. Il parallelo arriva da un altro settore della mia vita. Nel febbraio del 2021, per puro caso, inciampiamo nel cartello "vendesi" affisso sul cancello della Casa dei Sogni. Se c'è una cosa che il Covid ha insegnato a tutti, è che rinunciare a qualcosa in attesa del momento migliore per averla è una vaccata: e poi È il momento migliore, io ho appena portato la famiglia in salvo da una causa, iniziata 11 anni prima, per sbloccare la casa di villeggiatura del bisnonno, e l'ho venduta da un mese, i soldi sono ancora lì. Conto fino a tre: le tre volte in cui l'Uomo pronuncia la frase "hai sentito l'immobiliare?". Alla terza, è fatta. Nel luglio del 2022 ci trasferiamo nella casa a Paesino da Cartolina. La signora che ce la vende, oltre a fare un caffè strepitoso, ci ha consegnato un gioiello con il prato perfetto, i rampicanti profumati, la cantina asciutta, non proprio per un sacchetto di monetine ma neppure per un rene. Gli uccellini cantano in giardino. Il sole tramonta dietro le montagne con effetti di luce ogni sera diversi, che farebbero impazzire Monet. Fast forward a qualche mese dopo: il geometra, che mi sta facendo il progetto per trasformare la rimessa nella cucina della mia vita, viene a trovarmi una mattina con espressione molto preoccupata. Proprietari, immobiliare e notaio potrebbero essere portati di peso in tribunale, l'atto stracciato, io risarcita profumatamente. C'è da sanare di tutto e di più. "È sicura che non vuole procedere? Guardi che non sono pochi soldi". Io non ho bisogno di girarmi a guardare il pettirosso che zampetta sul prato, nè di consultare la famiglia: "Non voglio cause, grane e mal di pancia su questa casa." "Ma guardi che la causa è già vinta, sono in torto marcio." "Lo so. Sono io che non voglio andare in causa." Paghiamo la sanatoria, perdiamo mesi tra urbanistica e paesaggistica per i permessi, partono i lavori. 2024: non abbiamo finito di ammobiliare, non abbiamo finito di isolare il muro del salotto, la cantina si è allagata più volte, la facciata è da rifare, il giardino è in malora, il cancello pedonale va cambiato, si sono rotte due persiane, va rifatta la copertura del garage, una delle gatte è stata investita da un'auto, ogni singolo giorno è una lotta contro artropodi, invertebrati, creature mai viste, ancora qualche giorno fa un vermino apparentemente innocuo che strisciava su un muro esterno mi ha lasciato un segno su un braccio come quello di una medusa. Aggiungiamoci che: il marito deve montare il secondo comodino da due anni; ci sono scatole ovunque; ho sviluppato un attaccamento morboso per la cucina nuova e mi sorprendo a mormorare giaculatorie senza senso mentre pulisco il piano fornelli per la terza volta in un giorno. I vicini hanno iniziato a criticare non troppo velatamente il disordine del giardino e mi sono trovata un avviso del servizio postale che ci sgrida perché la pioggia e il sole hanno cancellato i nomi sulla cassetta delle lettere. Non ho la scusa del brain fog da Covid: è che non abbiamo mai avuto da gestire una casa così. Semplicemente, non siamo capaci. Mi sento come quando, sul lavoro, alla terza volta che qualcuno mi dava un'indicazione condita di nomi strani da dentro una mascherina, fingevo di aver capito e poi mi comportavo come se fossi finita in mezzo agli Inuit e, non capendo un cazzo della loro lingua,cercavo di agire per imitazione. Sono passati alcuni mesi sia dal trasloco dei mobili che dal matrimonio di nostra figlia, non ho scuse: devo montare in sella e domare questo cavallo. Qui l'Inquisizione, quantomeno, non dovrebbe trovarmi. Speriamo di trovare un modus vivendi, prima che la casa decida di caderci addosso. Anche da qui, comunque, è chiaro che non ce ne andremo. Finalmente, da qualche anno, si è palesato a cosa fosse destinato a servire il carattere di merda che mi contraddistingueva già all'asilo.

sabato 17 agosto 2024

Cose del nostro lavoro che richiedono flessibilità

Questo che inizia per me è il ventitreesimo anno del mio mestiere. Negli scorsi mesi, a campione: Cavallino ha cambiato lavoro e luogo geografico di lavoro due volte, Red si è licenziata ed è partita per Santiago, la Princi ha ripreso a lavorare cambiando settore, il Giovane Marito (già Fidanzato BP) è diventato responsabile della sua agenzia, l'Uomo ha valutato il distacco parziale delle ore su compiti dirigenziali. Per dire che, senza dubbio, nella vita la situazione lavorativa può cambiare. In vari modi e varie volte. Diciamo però anche una cosa, proprio specifica del mio mestiere, di cui forse in passato mi accorgevo meno, perché ero più giovane, perché ero io "quella nuova", oppure perché non lavoravo in un contesto così estremo. Io adesso a settembre torno al lavoro dopo quelle che sono state - le ferie più sudate della mia vita - le ferie più sfruttate della mia vita - le prime ferie di cui non ho passato nemneno un minuto a programmare il lavoro futuro - le uniche ferie da quando lavoro che assolutamente non mi sono bastate. (Sì lo so, lo so, lo so. Risparmiatemi la tirata sulla statale di merda, dopo questo anno i famosi tre mesi di ferie, che comunque non sono tre, per la prima volta li ho blindati in modo che non potessero essere disturbati da nessuno e ne avrei voluto ancora, e non me ne devo vergognare, si chiama esaurimento nervoso, non fancazzismo). Torno al lavoro e: non so quali classi avrò. Non so quali sezioni avrò. Non so quali alunni (e nazionalità, con annessi problemi linguistico-culturali) mi troverò davanti. Non conosco, probabilmente, almeno il 60 per cento delle famiglie con cui dovrò relazionarmi. Non so che incarichi mi daranno oltre alle ore di lezione. Non so con quali colleghi di ruolo lavorerò. Non so quali colleghi supplenti potranno tornare e se lavoreremo insieme. Non so a chi dovrò rispondere come coordinatore di dipartimento e di classe. Non so chi arriverà sulle cattedre scoperte. Non so quali casi particolari avrò in classe e quali insegnanti di sostegno saranno assegnati ad essi. Non so il mio orario. Non so il pomeriggio occupato dalle lezioni (ma quello me lo immagino, sarà il venerdì ovviamente, se resto sul tempo prolungato). Non so dove dovrò spostare le mie cose. Non so se sarò nel corridoio a 50 gradi di temperatura o in quello a 18. O in entrambi. Cose che so: ho due cassetti, uno abusivo. Credo che mangerò allo stesso baretto e che farò lo stesso abbonamento annuale al parcheggio in zona Ovest. Ho alcuni colleghi coi quali potrei lavorare anche in un campo base ai piedi del Karakorum, dopo un terremoto e sotto i bombardamenti, e riusciremmo a ridere e a litigare per chi paga il caffè. Ne ho altri da cui guardarmi le spalle anche se devo fare solo tre fotocopie. Ho la sindrome di Stoccolma, altrimenti avrei chiesto il trasferimento. Inizierò a svegliarmi alle 4 per l'ansia il 31 agosto. Arriverò a casa troppo stanca per parlare, cucinare o fare una telefonata a partire dal 12 o 13 di settembre. Inizierò con la tachipirina a colazione intorno ai primi di ottobre. Parlerò tre lingue. Dirò a qualche alunno nuovo e spaventato che sto studiando l'arabo. Studierò ogni mattina un outfit che mi faccia sentire bene. Sorriderò molto. Anche, e soprattutto, a chi mi ha mandato in burn out e mi vedrà risalire in sella con lo stesso movimento naturale di sempre. Sarò felice apposta.

mercoledì 14 agosto 2024

Della serie

Questa, con una delle poche persone che ancora leggono, ormai quasi la sola che commenta, e una tra quelle che vale sempre la pena leggere e a cui vale sempre la pena rispondere, non è una querelle. In effetti, anche se mi perdo un po' tra gli esempi e vengo colta da un'impressione di erbe raccolte a fascio tra diversi generi di (più che giustificato e anzi doveroso) rancore, credo che io e Pellegrina stiamo entrambe riconoscendo la stessa cosa. Che ci vuole un enorme sforzo CULTURALE e non solo economico, politico, logistico, urbanistico, legislativo, per evitare che tra patriarchi, capitalisti, poveracci, gente di ogni mondo e in ogni condizione, si instaurino e si perpetuino le parti meno sane, più ferali e più retrograde, delle diverse tradizioni. E prevalga altro, quello che comunque esiste, io forse lo vedo grazie al mestiere che faccio. La scuola ci può salvare? Ah, non si sa, ma io ho il gigantesco privilegio di essere in un ambiente in cui ci si prova duro, ci si prova ogni giorno, tutti. C'è un particolare però che mi ha dato un fastidio atroce. I saperi di serie A e di serie B. Potrei scrivere ore per rispondere. Non spreco neanche una frase, chi legge può cercar di frugare nei propri ricordi o parlare con gente varia, coetanei,figli, figli di amici, nipotini, e chiedere cosa è rimasto di quel che hanno imparato alle medie dal professore più impattante. E poi tacere e ruminare sulla risposta per qualche mesetto. Ma quale serie, Pellegrina. Ma quale serie.

martedì 21 maggio 2024

Risposta dovuta da tempo

Sono rimasta lontana dal blog per un po', per evitare la risposta al lungo commento di Pellegrina al mio ultimo post. Risposta che sentivo di voler dare, ma che volevo dare con cognizione, calma e tempo. Non capisco perché scrivendo dal telefono non padroneggio la spaziatura tra paragrafi e gli a capo, ma tanto fa. Oggi sono tornata sul blog per dire dei grandi cambiamenti in arrivo, e spero di non dare con ciò adito ad altri commenti di difficile gestione, cioè, per carità, se Pellegrina o chiunque altro vuol commentare che mi LAMENTO di aver paura di stare per trasferirmi in un posto incantevole, essendo una ragazzetta viziata con le paturnie, faccia pure, non credo di restarci particolarmente scossa. Io stessa mi sono chiesta se avesse senso sentirmi come mi sento, e se non dovessi semplicemente scrollare via le esitazioni. Ma credo di aver espresso il fatto di stare per entrare nella seconda parte della mia vita, più che di essermi lamentata, e di aver riconosciuto un lavoro di smontaggio progressivo dei pensieri negativi che faccio da anni su me stessa, più che la metratura di un'abitazione. Credo anche di aver scritto per alcune amiche che non sanno ancora, alla mia età, dirsi che si meritano davvero le cose che hanno raggiunto dopo anni a impegnarsi e a rinunciare, e che impegno, rinuncia, merito non siano legati al saldo complessivo di un conto bancario, ma a come ognuno affronta la vita là dove si trova. Quindi. Partiamo dalla decenza che "dovremmo" insegnare "anche a scuola". E dalla violenza e dal patriarcato che regnano nelle famiglie di origine straniera, che "potrebbe servire ammettere". Mmm. Come te lo spiego, Pell, che ci lavoriamo tutti i giorni del calendario scolastico, sulla decenza, e la decenza è anche non masticare il chewing gum a bocca aperta e sbadigliare sonoramente davanti al docente e non presentarsi ogni giorno senza libro e con un mucchio di fogli a caso invece che coi quaderni, e in queste cose, almeno dove lavoro io, non ci sono fattori di genere, etnia, credo religioso o strato sociale che tengano, perché la maleducazione è onnipervasiva? Io vent'anni fa a una seconda media mi ricordo di aver spiegato chi fosse e cosa avesse scritto la monaca Roswitha, e ricordo la vocina che dentro la mia testa diceva: beh ma non starai esagerando? mica devono sapere cose che tu hai studiato all'università... Oggi un terzo della lezione, in prima, seconda e terza, ha come contenuto "stai su con la testa" e "finché non avete tutti davanti almeno un libro in due, non posso iniziare la lezione". Oltre a "no, non puoi autorizzarti da solo a non partecipare al progetto, sei minorenne" (giuro che uno recentemente mi ha risposto "eh sì, e allora cosa vuol dire" scuotendo la testa come a intendere: ma tu guarda 'sta poveretta). Nel frattempo, la poveretta pensa che il fatto che alcuni di questi zoticoni siano seduti lì significa, indipendentemente di nuovo da genere etnia e credo, che 1) sono vivi e a scuola ed è già tanto (ovviamente l'unico suicidio di dodicenne, accertato, di cui io sia a conoscenza diretta, era di pelle bianca, di famiglia presente e in scuola dei quartieri belli, ma ho visto altre morti e saputo di altri rischi), 2) non stanno spacciando, finché sono qui (e se controlliamo bene i bagni), 3) più ce li lavoriamo più siamo sicuri che il giorno che hanno un problema serio lo sapremo e potremo intervenire, con psicologi polizia e servizi sociali e (dettaglio) se lo facciamo e se ci danno retta li metteranno al sicuro e (come per mia figlia) questo significherà essere portati via dal mattino alla sera da famiglia, amici, prof, scuola e città e noi prof in molti casi non riusciremo mai più a sapere come è andata a finire, 4) ah, già, sì, devo andare avanti con il programma. Sul pezzo successivo, che riporto qua sotto per eventuale ulteriore dibattito: "Perché va bene tutto, la funzione dell’insegnante, la solidarietà, il paracattolicesimo, il buddismo e quel che ognuno s’inventa per parare la miseria quotidiana e la propria infelicità. Ma la cecità con cui abbiamo, socialmente, santificato « il migrante » con annessi e connessi più o meno « culturali » semplicemente perché ci serviva per opporsi a « ilrazzista » con urla scandalizzate, in una bega tra bianchi-europei-italici-integrati che non teneva conto della realtà di vita concreta né della mentalità di chi veniva a vivere qui, ha impedito e impedisce tuttora di prendere in considerazione sul serio e di riconoscere problematiche e stile di relazioni che rischiano di alimentare ancora di più ostilità, ghettizzazione, povertà e fratture sociali lungo le barriere etniche peggiorando la vita di tutti coloro che non hanno abbastanza soldi da rinchiudersi in enclave protette. Cioè della maggioranza della popolazione. Se non abbiamo la forza morale di riconoscerlo e di assumerne le conseguenze in modo attivo, continueremo a usare queste persone per sentirci santi e per definire chi si oppone alla loro presenza come i diavoli, senza realmente affrontare i nodi vieppiù urgenti della convivenza. Ma tanto è un discorso inutile, quando i santi sono sempre troppo certi di essere tali." ...capisco l'intento di critica politica e sociale, condivido il punto che non è tanto la differenza etnica ma la sempre crescente povertà economica di strati sempre più larghi della popolazione che rende la situazione insostenibile, sommata inoltre alla povertà culturale e a quella educativa e politica che sono trasversali, ma ti chiedo, Pellegrina, e giuro che ho aspettato tanto per poterti parlare come con un'amica, in un confronto su posizioni diverse: ma ti senti come parli? Santificare il migrante? Sentirsi santi? Usare le persone per definire santi e diavoli? Partendo tu stessa, tra l'altro, dal fatto di essere infastiditi dal gesto ribelle, maleducato e illegale di fumare sui mezzi pubblici dei ragazzi stranieri, come una piccoloborghese qualunque col golfino beige? Sai cara, anni fa avrei risposto di getto e molto diversamente. Invece, poiché sono una volpe col pelo già un po' grigio, e poiché da 4 anni lavoro in mezzo al crogiolo di un centro storico pieno di microcriminalità, ho pensato tanto, e ho elaborato diverse riflessioni sul santificare i migranti e sul sentirsi la buona dama bianca che civilizza i piccoli selvaggi. E mi serve rifletterci, senza dubbio, tutti i giorni. A te servirebbe leggerti un po' di cose che scrivono i ragazzi, sentirli parlare, vedere le facce dei miei colleghi alle cinque di pomeriggio (ma certe settimane anche il martedì alle 8 è abbastanza) dopo essere stati a prendere decisioni tremende, che poco hanno a che fare con i quattro di matematica o la monaca Roswitha. E aver avuto le ultime disposizioni dall'alto, che legano ulteriormente mani e piedi al tempo da dedicare al fare cultura, al generare sapere, bellezza,conoscenza, consapevolezza dentro a vite già segnate dalla nascita. E allora vedresti, presumo con una certa chiarezza, che, altro che paracattolicesimo, altro che buddhismo, altro che missione civilizzatrice, l'unica cosa ormai santificabile, e in questo mondo sbagliato, è 'sto gran cazzo. Ma sul serio. Aspetto tue. Se ci metterai un po', capirò.

Per davvero

Non c'è un modo di dirlo che non mi faccia impressione. È arrivato il momento. Abbiamo la lavatrice, il frigorifero grande, la cucina, anzi, due cucine, che verranno entrambe allacciate a gas e corrente entro la fine della settimana. Il weekend scorso abbiamo parlato di trasferire su le gatte appena finito questo allacciamento, perché dovrebbero smettere di girarci per casa uomini che lavorano o consegnano pezzi a tutte le ore. E se trasferiamo su le gatte, quella a Paesino da Cartolina diventa casa. Mi aspettavo di avere un gran magone, dato che la casa che lasciamo è quella in cui ho trascorso più anni di fila in tutta la mia vita. Ci sono entrata da sposina e ne vengo via ora che nostra figlia è sposata. Ci abbiamo passato tanti momenti importanti. E infatti ce l'ho, il magone. Molto forte. Ma soprattutto ho paura, e questo non me lo aspettavo. Ho paura di non essere all'altezza della vita che voglio fare. Ho paura della routine (che poi, vorrei sapere quale, routine. Sono 23 anni che viviamo come dei disadattati nomadi senza pace, e ci abbiamo pure cresciuto una figlia, cinque gatti, un cane, sbattendo a destra e a manca, macinando chilometri, dormendo in giro, vedendoci di corsa in città diverse, gestendo, negli ultimi anni, sei lavori in due, insomma: "noi, cose semplici, mai" è il motto sullo stemma di famiglia). Ho paura che, alla fine del trasloco di mobili e cose che arrivano da tre appartamenti ed un ufficio, non ci sia più spazio per vivere. Che gli scatoloni da svuotare non finiscano mai, che tra 10 anni ci siano ancora dei quadri da appendere (e questa non è tanto una paura, quanto una dolorosa consapevolezza). Ho paura di aver trovato il Posto, ho paura che sia davvero il posto giusto per lui oltre che per me, ho un'assurda, gigantesca, stupida paura che questo colpo di testa fatto tre anni fa sia la mia Città di Smeraldo, la torre dell'Infanta Imperatrice, la mia Camelot, che il viaggio arrivi a una destinazione adulta e definitiva. Ho paura che, dopo questo, niente sarà più grande come questo. Stupido, vero? Ma è così. Come le prime volte che ho visitato e fotografato la casa dei miei sogni, col cielo azzurro smaltato e una gloria di montagne bianche e blu laggiù in fondo, c'è una piccola, ignorante, danneggiata parte di me che pensa di non meritarselo. E adesso, dopo due anni che ci viviamo, sa esattamente cosa vuol dire svegliarsi lì con la nebbia come un tappeto ai piedi, sentire infinite voci di uccelli che punteggiano le notti estive, convivere con la prepotenza delle piante e degli animali che da fuori entrano dentro e danno vita, colore, sangue e profumo alla casa. E ancora non capisce che è giusto così. Ma soprattutto, ancora adesso, quella parte di me che è eternamente in punizione e in difetto e in dubbio non se lo sa dire a voce alta, anche se lo sanno tutti, che comprare la casa dei sogni non ha fatto felice solo una persona. Che dentro al sogno ci è venuto ad abitare anche lui. E che quindi, come tutti i posti dove c'è lui, quella sarà casa, e tutto il resto saranno solo luoghi.

domenica 3 marzo 2024

La critica della ragion pratica

"Il ministro ha detto che vuol fare le classi separate per gli stranieri."

Sono scoppiati a ridere.

E io, di nuovo, ho pensato: a posto così. 


[Non volevo dirlo in classe, ma la collega ha postato la citazione di Valditara sulla chat docenti nell'attimo in cui abbassavo gli occhi sul telefono per andare al registro elettronico e fare l'appello. La mia lingua è andata da sola.

Dopo, ho spiegato che normalmente noi non facciamo politica in classe, che, certo, spieghiamo la storia,  le interpretazioni letterarie e culturali dei fatti, parliamo di legalità e di diritti e di Costituzione. Ma che non è nostro compito dire a dei quattordicenni come devono pensarla, bensì dare loro gli strumenti per sapere come la pensano (e saperlo dire). Mi guardavano, presissimi. Qualcuno sorrideva.

Mi spiace per quelli che parlano di scuola senza entrare mai in un'aula. Davanti a occhi come quelli, a quel silenzio, a quell'attenzione, in quei momenti in cui si sente il rumore del  germoglio del pensiero che fa capolino dalla terra, il senso della decenza, se non ce l'hai, ti viene.]



lunedì 26 febbraio 2024

Pisa resiste

Oggi ho usato gli ultimi minuti della lezione in terza per chiedere se qualcuno aveva sentito cosa fosse accaduto a Pisa. Una mano sola, una ragazzina. 

Ho spiegato, in modo asciutto: le manganellate ai ragazzi, il raduno spontaneo della gente alla sera, il diritto a manifestare, il dovere di essere identificabili (dei cittadini, quindi, sarebbe opportuno, anche dei poliziotti). Le parole del presidente e il suo ruolo di guida morale, più che politica. 

Concludendo con: "...poi si è liberi di pensarla come si vuole,  su Israele e Palestina, sulla polizia, sulle manifestazioni, sul presidente. Io ve l'ho detto solo perché tra qualche anno potreste esserci voi a manifestare, si spera per allora certe cose siano cambiate."

Campanella di fine mattinata. Apro la porta. Immediatamente dietro l'anta, c'è un exalunno, un ragazzo di quindici anni, a braccia aperte e con un sorriso così. 

"Prof!!!"

"Oh ciao A., come stai?" E subito, con la supervista da docente, leggo il vero contenuto del sorriso: "Hai sentito il mio intervento su Pisa?" 

"Ho ascoltato tutto, ogni parola."

"Potevi entrare."

"No, non volevo distrarli, stavate facendo un discorso importante."

A posto così.  Il mio, l'ho fatto. 


sabato 10 febbraio 2024

Allora - risposta ai commenti

1) Esatto, Pellegrina, è così. Poi, non è che alfabetizzazione non sia una cosa buona e giusta. Io la faccio se me la chiedono, nella mia scuola è fondamentale, ma magari un po' meno, magari non tutta a me, magari non al posto di. Magari, non ridendomi in faccia e dandomi come motivazione "non sono tanto convinta di come lei si rapporta coi colleghi", quando sono andata a chiedere perché tutte quelle ore a me. Motivazione soggettiva quindi impalpabile e inoppugnabile, perché gli attacchi tecnici sul mio lavoro li avevo sventati uno a uno, disposizioni ministeriali alla mano, dato che io le leggi le conosco e le applico nel mio lavoro.

2) Ayla: le restanti 4 ore sono fuori a fumare e  rubo soldi allo Stato, chiaramente, come tutti i docenti. 

Seriamente: le ore di alfabetizzazione sono a tutti gli effetti equiparate alla docenza in classe, quindi completano cattedra. Peraltro la reale docenza è di 12 ore, perché, nel prolungato, sono 8 ore di lettere e una di mensa, e nel normale sono 4 tra storia e geografia. Le altre 5 sono alfabetizzazione. Poi mi hanno fatto fare anche il Pnrr, quindi un'altra assistenza pasti e due ore con un altro mini gruppetto. Fa 21, e, con la diciannovesima ora di compresenza su una materia non mia che devo dare per il recupero dei minuti, sono 22 unità orarie di cui 10 non sono fare lezione in classe. 

C'è chi non farebbe una piega, anzi. Lavorare in piccolo gruppo, non portarsi a casa roba da correggere moltiplicato 3 o 4 classi, una pacchia.  Io mi sento in castigo, ed era esattamente la sensazione che si voleva che provassi. Voilà. Sto lavorando lo stesso, sto lavorando volentieri, mi sto divertendo e impegnando (vedasi prossimo post) coi colleghi, coi quali a detta della dirigente ho "rapporti non sereni", e coi ragazzi sto benissimo. Credo che mi sia anche stato accordato il perdono, perché ho sentito all'improvviso un cambio di registro e dei complimenti ripetuti dalla dirigente. 

Ma io non voglio il perdono con bolla pontificia, non voglio l'ammissione di torto, non voglio né  scuse né complimenti, io voglio le mie classi.  



sabato 3 febbraio 2024

Sconfitte e rivincite - L'autunno di sangue

Beh. 

La frase del mese di novembre, se non dell'anno 2023 per la quasi totalità, è "Grazie, perché mi insegnate come non mi devo comportare". 

Il penultimo post su questo blog, riguardante una situazione di serio burn out, è stato scritto due giorni prima che ci assegnassero le classi per il nuovo anno scolastico.

Di lì a 48 ore, ho saputo che il mio orario prevedeva l'elemosina di finire Italiano con la mia terza, poi 4 ore in una prima, e tutto il resto fuori aula. 5 ore di alfabetizzazione. Una di compresenza su una materia non mia. Una di mensa. Poi si sono aggiunti il pasto e le due ore pomeridiane con il gruppo dei disperati del recupero competenze di base del PNRR.

Totale, 22 ore di cui 10 a non fare lezione.

Per carità: la mia terza è la mia terza ed è una delle due classi decenti dell'istituto. La prima è la zattera della Medusa degli sfigati, non hanno ancora iniziato a mangiarsi tra di loro, ma solo perché sono talmente piccoli e inadeguati che stan cercando di bere l'acqua salata, però sono simpatici e non mi hanno presa male, anzi prendo una riga di sorrisoni ogni volta che li incontro. E faccio storia e geografia, che mi danno parecchia soddisfazione. 

E, sempre per carità: le ore di ABC sono affascinanti, dopotutto. Da uno a quattro creature alla volta, ma parlando 4 lingue e imparando cose sul mondo (ma lo sapevate voi, che Priština si pronuncia Prishtìna? E quanto sono buoni i brigadeiros brasiliani, che non sono degli ufficiali a cavallo ma dei dolcetti al cacao? E che nel centro di Dakar c'è la gelateria "Mamma mia"? E quanto vale un franco della Comunità Finanziaria Africana?). Certo però che passo cinque ore a settimana a mettere a posto le doppie e cercare di spiegare gli articoli indeterminativi, mentre supplico la ragazzina kosovara di mettersi una maglia che copra l'ombelico almeno adesso che al mattino ci sono tre gradi, cerco di tenere attento il ragazzino senegalese con disturbo della concentrazione, zittisco il ragazzone peruviano che parla costantemente in spagnolo convinto che sia italiano, e cerco di capire se la statua di Venere che arriva dalla Nigeria sta bene di salute, visto che è impenetrabile e non sorride quasi mai.

Più o meno lo stesso si può dire del lavoro pomeridiano con quelli del PNRR, con l'aggravante che mi tocca mangiare la pizza a pranzo (uguale botta di sonno senza speranza alle 2 e mezza) e con un collega di Matematica noioso come Totti (questa la capisce solo l'Uomo) che conta ad alta voce i lunedì che mancano alla fine. 

Comunque. Il giorno in cui mi hanno dato l'orario ho schiumato in presenza di tutto il dipartimento di Lettere, quasi pianto in faccia al vicepreside, ingoiato chiodi davanti alla dirigente; se non fosse per i 20 minuti in cui, come sempre, è comparso dal nulla il mio barbuto, gigantesco amico Orsone a sentire il mio sfogo e lenire in parte la mia umiliazione con pazienza e sarcasmo, sarebbe stata una giornata di merda da mettere tra le prime 20 della mia esistenza. Poi ce n'è stata una, in novembre, che l'ha persino battuta, una di quelle volte in cui torni a casa, cerchi di calmarti, cerchi di razionalizzare, cerchi di gestire le emozioni, ma la sola cosa che vuoi davvero fare è ANDATEVENE TUTTI A FARE NEL CULO, GENTE MIGRAGNOSA VENDICATIVA E MESCHINA, IO LÌ DENTRO NON CI METTO PIEDE MAI PIÙ,  CHE CAZZO VI CREDETE, NON SONO CERTO LÌ PER LO STIPENDIO E MEN CHE MENO PER DARVI LA SODDISFAZIONE DI CALPESTARMI, IO DOMANI MATTINA MI METTO IN MALATTIA, DOPODOMANI IN ASPETTATIVA E LA PROSSIMA VOLTA CHE METTO PIEDE IN UNA SCUOLA NON SARÀ LA VOSTRA, E RINGRAZIATE CHE NON VI FACCIO CAUSA PER MOBBING E VI SBATTO SUL GIORNALE, STRONZI. 

Quella mattina nel torace dell'Orsone ci ho sbattuto per caso sulla porta della sala prof, 20 secondi dopo essermi sentita negare un permesso di un'ora che mi serviva come il pane, da un addetto della segreteria che tremava nel riferirmelo, in un corridoio molto lontano dalla porta della presidenza, dove credo lo avessero mandato apposta, invece di convocare me, forse temendo che sfasciassi l'ufficio. Me ne sono fottuta di chi sentiva e di chi c'era e non c'era e ho metaforicamente vomitato sul maglione dell'Orsone lo sdegno e la chiarissima intenzione di non lasciarmi mai più trattare in modo simile. Lui, con la solita voce pacata, ha detto: "Vedi come va l'anno prossimo" e io imperterrita: "Un anno e mezzo è lungo". 

Ho convocato d'urgenza il Principe dei Paraculi e gli altri membri del gruppo con cui studio comunicazione interpersonale e crescita personale dal 2019. Mi hanno dedicato una serata e siamo usciti con uno spunto utile da un lavoro di gruppo, in cui una persona ha interpretato l'animosità del vicepreside nei miei confronti, in modo così realistico da mettere in ansia anche gli altri, figurarsi me. Lo spunto era posare l'armatura e disarmare gli altri con l'amore e la dolcezza. La vichinga in me ha detto, forte e chiaro: "See, 'sto cazzo, passatemi un'ascia, di quelle pesanti". Ma la professoressa umiliata e maltrattata degli ultimi mesi non ce la faceva davvero più a trascinarsi a scuola con il cuore pesante. Quindi ha ascoltato il suggerimento. La mattina dopo, stranamente fiduciosa e disponibile a cambiare, sono tornata a scuola sorridendo, respirando, cercando di guardare solo il bello. Che ovviamente esiste, perché il mio lavoro non ha assolutamente paragoni, a dispetto del Maledetto Ministero e delle persone che credono, per il mero fatto di avere un incarico, di poter fare il bello e il cattivo tempo nella vita degli insegnanti. Beh: ho passato novembre in stato di convalescenza. Ma ha funzionato, per quanto si capisce ora. Almeno per me e, in effetti, era della mia insoddisfazione e frustrazione che si parlava, non certo dei begli occhi della dirigente o dell'ego del vicepreside. Quindi. 

Di ciò, e della fantastica scoperta di un sentiero che porta alla foresta di Sherwood, nel prossimo post.

(Ah: e grazie, davvero, a chi legge con pazienza e  commenta con gentilezza. Non riesco a inserirlo qua sotto senza fare casino con gli account, quindi lo metto in calce al post medesimo.)