KILL BILL: VOL. 1
CAST TECNICO ARTISTICO
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Fotografia: Robert Richardson
Scenografia: Yohei Taneda, David Wasco
Costumi: Kumiko Ogawa, Catherine Marie Thomas
Musica: Ennio Morricone, RZA, Lars Ulrich
Montaggio: Sally Menke
Prodotto da: Lawrence Bender, Koko Maeda, Quentin Tarantino, E.Bennett Walsh
(USA, 2003)
Durata: 110'
Distribuzione cinematografica: Buena Vista
PERSONAGGI E INTERPRETI
La Sposa: Uma Thurman
Bill: David Carradine
Budd: Michael Madsen
Elle Driver: Daryl Hannah
O-Ren Ishi: Lucy Liu
Vernita Green: Vivica A. Fox
“Il quarto film di Quentin Tarantino”, annunciano pomposamente i titoli di testa. Fellini iniziò a contarli dall’8 e mezzo, ma tant’è: l’uomo è questo, il narcisismo non gli fa difetto, per fortuna neanche le doti d’artista. Di “Kill Bill” s’è già detto tutto: gli anni dedicati al progetto, il tempo passato ad attendere il termine della gravidanza di Uma Thurman, la suddivisione della pellicola in due parti per evitare tagli (e, ovviamente, per incassare il doppio al botteghino).
La trama è di lineare semplicità: nel giorno delle nozze, viene preparata ai danni de “La Sposa” – in passato appartenente ad un gruppo elitario di femmine killer, noto come DiVAS (Deadly Viper Assassination Squad) e capitanato dal carismatico Bill – una terribile imboscata da parte dei suoi ex-compagni, che uccidono tutti gli invitati, il marito ed il figlio che ella porta in grembo. Risvegliatasi da un coma durato 4 anni, la donna decide di vendicarsi ed inizia il conto delle uccisioni, propinate nei modi più truci ed immaginosi. Tutto qui.
Il plot, comunque, è la cosa meno importante in una pellicola che è con ogni evidenza un’opera metacinematografica: “Kill Bill” attraversa, difatti, una miriade di generi in un’ottica non meramente citazionistica, bensì stilisticamente inventiva ai massimi livelli. Ci spieghiamo: nei precedenti “Le iene”, “Pulp Fiction” ed ancor più nel sottovalutato “Jackie Brown”, pareva che Tarantino volesse servirsi dello scheletro di determinati filoni per dar vita a dei “characters” non unidimensionali, approfonditi nelle motivazioni come nelle psicologie. “Kill Bill” prende le distanze da codesto progetto inscrivendosi in una cosmogonia panfilmica, per la gioia dei cinefili più accaniti. Gli omaggi compaiono sin dai titoli di testa, quando un logo scolorito con tanto di musica gracchiante sembra annunciare il trailer d’una pellicola targata Shaw Brothers (i mitici produttori di “Death Kick” e di tanti kung-fu movie degli anni ’70). La colonna sonora, inoltre, intreccia citazioni da “Battles without Honor and Humanity” di Kinju Fukasaku al tema di “I nervi a pezzi” (1968) di Roy Boulting (lo canticchia la truce Elle Driver, irresistibilmente resa da Daryl Hannah), un piccolo classico dell’horror britannico. Nella più spettacolare delle scene, il combattimento con i ‘Crazy 88’, Uma Thurman indossa la tutina gialla portata da Bruce Lee nella sua ultima fatica; mentre il personaggio del ninja Hattori Hanzo è recitato da Sonny Chiba, che già ricopriva lo stesso ruolo nella serie TV giapponese “Shadow Warrior”.
In definitiva, qui ci si muove in un universo rarefatto e stilizzato, dove la crudeltà è volutamente iperbolica, il sangue palesemente fittizio, la violenza ha un che – direbbero gli anglosassoni – di “balletic” (e gli scontri, orchestrati dal maestro di arti marziali Yuen Wo-Ping, hanno infatti la grazia di certi numeri del “musical” classico). Geniale e sfrenato, “Kill Bill” è un gigantesco rollercoaster per spericolati spigolatori cinematografici ed insieme un toboga capace di dilettare indifferenziate masse di spettatori: i primi apprezzeranno talune colte strizzatine d’occhio (la protagonista che riemerge dal suo sonno letargico a causa di un insetto: un riferimento ad Emily Dickinson, che sentiva una mosca al momento di morire?), i secondi saranno deliziati dal ritmo travolgente e da certe irresistibili invenzioni di regia (infanzia, giovinezza e prime esperienze di O-Ren Ishi raccontate in un nippofumetto, il cosiddetto “anime”, con massicce dosi di erotismo ed efferatezze).
Ci sono pagine del film destinate a rimanere nella storia del cinema, come il duello finale tra La Sposa e O-Ren Ishi,, in un magico paesaggio ammantato di neve, od il tesissimo episodio della fuga dall’ospedale, che combina l’atrofia muscolare della protagonista alla sua necessità di uccidere chi la sorveglia (bisogna essere poco impressionabili, badate…). Servito da un cast in stato di grazia, Tarantino deve parte di codesta straordinaria riuscita alla perfetta alchimia che si è verificata fra lui e la sua prima attrice: una sintonia che ricorda quella tra Marlene Dietrich e Josef von Sternberg o fra Anna Karina e Jean-Luc Godard, nei primi anni ’60. Di contro, la Thurman ha sempre fornito col Nostro le proprie prove migliori: qui, in particolare, supera se stessa, sfidando il ridicolo nei panni di un’eroina costantemente sopra le righe, alla quale riesce miracolosamente a conferire un afflato di umanità; e la dolente consapevolezza che, se pure quanto fa va fatto, ciò cagionerà spaventose morti, nuovi lutti, altra pena. Nello sguardo della figlioletta di Vernita Green, la prima delle assassine ad essere eliminata, ella intravvede l’ombra di un odio che la vedrà bersaglio: pur sgomenta, dice alla bimba che, se una volta cresciuta vorrà, la vada pure a cercare. Vinceranno, ancora una volta, non le armi, ma la forza delle motivazioni di chi le imbraccia.
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