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La nostra storia
18/07/2010

Perché gli artisti rappresentano così volentieri la svastica?

Scritto da: Dino Messina alle 17:41

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Metti un bamboccio dall’espressione innocua ma dalle inequivocabili sembianze hitleriane, con baffetti, camicia bruna, svastica sulla manica sinistra, in braccio a una Madonna. Poi il corpo nudo di una modella con la faccia di topolino sdraiata davanti a un poster con la croce uncinata. Infine un’allegra famiglia di ebrei, capeggiata dall’ottantanovenne Adolek Kohn, scampato al Lager, danzare davanti al campo di Auschwitz al ritmo di «I will survive» di Gloria Gaynor: cliccare su you tube per credere.


Tre opere che mischiano il sacro con l’orrore, l’icona della cultura pop per antonomasia, Mickey Mouse, con il simbolo della dittatura più crudele, riempiono il silenzio che circonda i luoghi dove è avvenuto lo sterminio di massa con un motivetto ottimista di grande successo: io sopravviverò.

Ciascuna opera ha la sua poetica. Dice Giuseppe Veneziano, il pittore trentanovenne che ha usato la «Madonna del Terzo Reich» come manifesto di una mostra a Pietrasanta, aperta a Palazzo Panichi sino al 22 agosto: «Se l’arte non provoca, che cosa deve fare?». Ha una poetica più mirata Max Papeschi, autore del nudo con faccia di Topolino e svastica che ha scandalizzato i cittadini di Poznan, città della Polonia centro-occidentale: «Le icone cult perdono il loro effetto tranquillizzante per trasformarsi in un incubo collettivo». Jane Kohn, figlia dello scampato al Lager nazista che ha inscenato con i figli e il padre lo spettacolo con la colonna sonora di Gloria Gaynor davanti ai campi di Auschwitz, Terezin e Dachau, spiega così la poetica del video che su you tube ha già avuto oltre mezzo milione di spettatori: «Era importante che il video collegasse per le giovani generazioni il ricordo dell’Olocausto a qualcosa di fresco e d’attualità, perché le immagini tradizionali dello sterminio nazista sono intorpidenti».


Un’ideologia pubblicitaria accomuna i tre eventi. E malgrado tutto, è ancora possibile parlare di arte? Per il critico Achille Bonito Oliva, appena nominato dal presidente Giorgio Napolitano grand’ufficiale al merito della repubblica, «l’epoca delle provocazioni in arte è finita con il secolo scorso. Le avanguardie del XX secolo, dal Futurismo al Dadaismo al Surrealismo, volevano cambiare i gusti del pubblico per plasmare una nuova psicologia collettiva. Oggi quelle provocazioni con uno scopo superiore sono scadute a puro strumento pubblicitario, sicché il messaggio non è più rilevante». A proposito di Madonne, continua Bonito Oliva, «ritengo valide alcune opere contemporanee: dalla Madonna di Magritte, il maestro del surrealismo belga che invertendo i volti della classica Madonna con Bambino aveva creato una "Maninna con Bambone", alla «Madonna che ride» di Gino De Dominicis, cui abbiamo dedicato una mostra al Maxxi. Non appartengo alla categoria di chi dice "lascia stare i santi" ma ritengo che per avvicinare la santità serva una capacità creativa particolare, in cui la provocazione sappia fermarsi prima della dissacrazione.

Quella di Veneziano mi sembra un’operazione troppo facile». Per lo scrittore e musicista Moni Ovadia, «quel che credevamo la soglia dell’invalicabile non esiste più. Aveva ragione Jean Baudrillard a scrivere che l’uomo contemporaneo,  uccidendo la realtà, ha realizzato il delitto perfetto. Se la realtà non esiste, tutto è lecito e fare scandalo dura l’èspace d’un matin. Tutto può essere detto e fatto perché niente è serio. In questa società manca il tempo di elaborazione e una struttura di principi che non sia dichiarata ma reale». Ecco liquidati con l’aiuto di Baudrillard i due artisti che usano le svastiche per essere notati. E gli ebrei che cantano «I will survive» davanti ad Auschwitz? «Partecipano alla kermesse - risponde Ovadia -. Nell’illusione di dare un messaggio positivo, banalizzano il problema».


 

Pubblicato il 18.07.10 17:41 | | Commenti(0) | Invia il post
17/07/2010

I novant'anni di Silvio Bertoldi, giornalista storico

Scritto da: Dino Messina alle 10:16

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Nelle migliaia di pagine che compongono il suo grande affresco del Novecento, è raro rintracciare qualche accenno personale di Silvio Bertoldi, giornalista e storico che domani compie novant’anni. Le eccezioni a questa regola di riserbo le abbiamo trovate tra gli ultimi articoli che Bertoldi ha scritto per il «Corriere della sera», giornale al quale ha contribuito per un quarto di secolo con la sua prosa elegante e precisa. Nella primavera del 2008, incaricato di spiegare ai nostri lettori come il dramma del fascismo divenne una favola da rotocalco, chiuse il pezzo dedicato ai memoriali di donna Rachele, Claretta, Bastianini, Pavolini, Bottai e di altri protagonisti del Ventennio, con il ricordo di uno scoop personale: la lunga intervista, raccolta in dieci audiocassette, che gli concesse Dino Grandi, il protagonista del 25 luglio 1943, sulle vicende che portarono alla fine del fascismo. Un altro ricordo personale riguarda la missione che nel 1967 gli affidò Angelo Rizzoli a Londra per verificare l’autenticità di certi diari di Mussolini: bufala o scoop del secolo? Bertoldi si fece accompagnare da un ex gerarca, Giorgio Pini, che aveva avuto in dono dal duce una pagina dei veri diari, e riuscì a smascherare il falso.


Questi due episodi ci dicono quanto Bertoldi sia stato tra i più brillanti e seri protagonisti nel giornalismo del dopoguerra. Nato a Verona il 18 luglio 1920, laureatosi in Lettere all’università di Padova, capocronista all’«Arena», è stato chiamato a far parte della grande pattuglia degli inviati di «Oggi» e poi ha diretto i settimanali «Epoca» e «La domenica del Corriere». Una lunga militanza durante la quale è nata l’amicizia con alcuni colleghi: tra questi, Giulio Nascimbeni, dalle comuni origini veronesi, Dino Buzzati, Enzo Biagi, Giorgio Fattori.

Alla passione per il giornalismo, Silvio Bertoldi ha sempre unito quella per la storia, affermandosi già dalla metà degli anni Sessanta con "I tedeschi in Italia" (Rizzoli 1964), "Mussolini tale e quale" (Longanesi 1965) tra i maggiori divulgatori del Novecento. La svolta nella sua produzione è arrivata negli anni Settanta: nel 1970 ha pubblicato da Utet la monumentale biografia dedicata a Vittorio Emanuele III, basata su materiale inedito, in particolare l’archivio privato del ministro della Real Casa Pietro Acquarone; nel 1976 da Rizzoli "Salò: vita e morte della repubblica sociale italiana". Sono due opere che gli attirarono l’attenzione dell’accademia, del grande giornalismo (ricordiamo un elzeviro di Indro Montanelli dedicato al volume sul re guerriero) e qualche frecciata polemica. Pur elogiando le qualità del «Salò» di Bertoldi, il recensore dell’«Unità», Primo De Lazzari, contestò all’autore d’aver definito l’uccisione del filosofo Giovanni Gentile per mano dei Gap di Firenze uno «spietato assassinio», e aver parlato della «grande mattanza» che si scatenò nel dopoguerra. Non erano anni di revisionismo, e quel giudizio agrodolce dell’«Unità» oggi suona come una medaglia al valore storico.


Dai primi anni Ottanta la produzione saggistica di Silvio Bertoldi si è andata intensificando: ha dedicato biografie a "Badoglio" (Rizzoli), "Umberto II" (Bompiani), Vittorio Emanuele II, "Il re che fece l’Italia" (Rizzoli), Carlo Alberto, "Il re che tentò di fare l’Italia" (Rizzoli), Umberto I e Margherita, "L’ultimo re l’ultima regina" (Rizzoli), seguendo la lezione di stile appresa dal prediletto Lytton Strachey, autore dell’esemplare biografia della regina Vittoria. Decine ancora sono i volumi su vari aspetti del nostro Novecento in cui ha unito il piacere del racconto e il gusto della ricerca. Pochi sanno che Bertoldi nel 1969 ha scritto anche un romanzo, "Un altro sapore"(Palazzi). Fedele alle amicizie e agli affetti familiari (due volte ha dovuto superare la prova più difficile: la perdita della primogenita Camilla e poi della moglie Romana), domani Silvio Bertoldi brinderà con la figlia Cecilia, con Carlo Brambilla e i nipoti Micola, Anita e Agostino.
Auguri, Silvio, anche dalla famiglia del «Corriere».

Pubblicato il 17.07.10 10:16 | | Commenti(0) | Invia il post
16/07/2010

Civiltà Cattolica: la vera unità d'Italia cominciò con la Grande Guerra

Scritto da: Dino Messina alle 11:27

Padre Giovanni Sale, redattore storico della "Civiltà Cattolica", la rivista dei gesuiti che è il vero think tank della politica culturale vaticana, nell'editoriale decato all'Unità d'Italia riporta un punto di vista cattolico moderato e accettabile. Che si può riassumere così:

Per gran parte del Paese l'Unità fu un trauma. L'ideologia cavourriana, "libera chiesa in libero Stato", rappresentò gli interessi di una minoranza anticlericale che non esitò a far approvare provvedimenti come la lege Siccardi per l'espropriazione dei bene ecclesiastici. Lo stesso neoguelfismo, rappresentato da pensiero di Vincenzo Gioberti, fu una spina nel fianco della classe dirigente risorgimentale che nacque e morì anticlericale.

Quando avvenne allora l'Unità degli italiani? Secondo padre Sale "in realtà fu la prima Guerra mondiale, con il suo immane carico di sofferenze e di morte, ad affratellare gli italiani, facendoli diventare un solo popolo e una sola nazione".
 

Pubblicato il 16.07.10 11:27 | | Commenti(1) | Invia il post
13/07/2010

Il rancore anti-italiano del cardinale Giacomo Biffi

Scritto da: Dino Messina alle 16:43

Per ricordare una santa, Clelia Barbieri, cui ha dedicato un libro, "L'eredità di Santa Clelia" (Edizioni studio Domenicano), il cardinale Giacomo Biffi, non ancora domo alla bella età di 82 anni, se la prende ancora una volta con il Risorgimento. Lo spunto è presto detto: la breve vita di Santa Clelia si svolge nell'arco temporale che abbraccia il nostro processo di unità nazionale: la santa nasce infatti nel 1847, l'anno prima della guerra di indipendenza e muore nel 1870, poco prima dell'ingresso dei bersaglieri a Porta Pia.

Ecco un estratto delle accuse dell'ex arcivescovo di Bologna.

"Dei protagonisti dei radicali sconvolgimenti che portarono all'Unità d'Italia - di Vittorio Emanuele II, di Cavour, di Garibaldi, di Mazzini - la storiografia consueta ci racconta tutto o quasi. Ma non ci dice nulla (o quasi) di come il popolo abbia vissuto quegli avvenimenti. Domandiamoci, allora, per una volta: dell'imponente mutazione di regime la gente persicetana (per esempio alle Budrie) che cosa ha percepito nell'umile concretezza della sua oscura esistenza? Ha assistito con animo più sbigottito che partecipe a tante imprevedute novità, che dovettero sembrare abbastanza inspiegabili. Nelle aule scolastiche l'immagine mite e familiare della Madonna di San Luca  fu sostituita dal fiero baffuto ritratto di un re forestiero. Proprio in quegli anni il giovane Stato unitario decise di impadronirsi di molte proprietà che erano a originaria destinazione religiosa. E, come spesso capita in questo mondo, invece dei ladri si mettevano in prigione i derubati. Fu così che Clelia e i suoi comparrocchiani ebbero il sorprendente spettacolo dell'arresto e della partenza per il carcere di don Gaetano Guidi, il pastore da tutti benvoluto e stimato. In occasione della guerra del 1866 - Clelia aveva 19 anni - la chiesa più importante del teritorio, la collegiata di San Giovanni - venne requisita e per più di un mese fu adibita a magazzino da parte delle autorità militari che per le loro necessità non avevano proprio saputo immaginare altre soluzioni. Nello stesso torno di tempo l'arcivescovo di Bologna fu dal nuovo governo impedito per ventidue anni (dal 1860 al 1882) di occupare la sua legittima sede e di esercitare liberamente il suo ministero. In conseguenza dela coscrizione obbligatoria, furono sottratti ai lavori dei campi e chiamati alle armi quei poveri contadini, ai quali peraltro non era consentito di votare. Per non parlare dell'inaudita tassa sul macinato...".

L'anno prossimo celebreremo 150 anni dell'Unità d'Italia ma per una parte della chiesa non sembra passato un secolo e mezzo, sembra che il patto Gentiloni, il Concordato, cinquant'anni di potere democristiano non ci siano stati. Il cardinale Biffi è interessato a tener viva, poco cristianamente, la fiammella del rancore.

Pubblicato il 13.07.10 16:43 | | Commenti(4) | Invia il post
11/07/2010

Brunello Vigezzi, gli 80 anni di uno storico

Scritto da: Dino Messina alle 11:35

Un maestro brillante e rigoroso, che sin dai primi anni Cinquanta, quando militava nell’Unione goliardica italiana, e si specializzava all’Istituto di studi storici di Napoli, sotto la guida di Federico Chabod, avvertiva un’inquietudine, una necessità. Quella di ribellarsi allo spirito di fazione che in Italia è riuscito a pervadere anche gli studi storici, secondo cui il campo di ricerca dev’essere diviso tra cattolici, laici o liberali, socialisti o comunisti. Una impostazione che ha fatto danni fino a tutti gli anni Settanta.


Brunello Vigezzi, nato l’11 luglio di ottant’anni fa a Bodero, nei pressi di Luino, e impostosi molto presto come uno dei maggiori storici della sua generazione, si è sempre battuto per l’indipendenza della ricerca. Ne sanno qualcosa gli studenti che seguirono i suoi corsi o si laurearono con lui nei primi anni Settanta all’Università Statale di Milano (tra questi i giornalisti Walter Tobagi, Giuseppe Baiocchi, Stefano Jesurum, il sociologo Enrico Finzi, gli storici Luigi Bruti Liberati e Rita Cambria). Nel periodo più incandescente, quando era difficile il normale svolgimento della vita universitaria, il professor Vigezzi animò il cosiddetto Comitatone, che stabiliva il principio dell’«agibilità politica» in base al quale tutti i partiti avevano accesso all’università.

Un primo passo per cercare il dialogo con gli intolleranti della contestazione.Di formazione laica, Vigezzi ha coltivato contemporaneamente due passioni: lo studio dell’Illuminismo, come testimoniato dalla monografia su "Pietro Giannone riformatore e storico", edita nel 1960 da Feltrinelli, e l’analisi sulle origini del fascismo. Illuminismo e fascismo furono anche gli oggetti di ricerca di un altro protagonista della storiografia italiana, Renzo De Felice (1929-1996). Come lui stesso racconta nel volume che ripercorre mezzo secolo di studi, "La forza di Clio - Un itinerario storiografico (1955-2005)" (Edizioni Unicopli, pagine 716, <SC9300,101> 30), fu Chabod a indirizzarlo verso uno studio sistematico della crisi che portò alla Grande Guerra. Dopo dieci anni di studi nacque il pionieristico volume sull’"Italia neutrale (Ricciardi, 1966), cui sono seguite altre opere importanti che hanno sempre aggiunto un tassello alla comprensione del Novecento: "Da Giolitti a Salandra" (Vallecchi, 1969) in cui viene individuata nel 1915 l’origine della disgregazione del sistema politico italiano; "Giolitti e Turati un incontro mancato" (Ricciardi, 1976) che demolisce molti pregiudizi sul riformismo; "Politica estera e opinione pubblica in Italia dall’Unità ai nostri giorni" (Jaca Book 1991) che completa e approfondisce le ricerche e riflessioni avviate da Chabod.


Vigezzi ha insegnato storia moderna alla Statale di Milano dal 1971 al 2005: tra i suoi colleghi più cari un storico più giovane di lui di otto anni, interprete della tradizione cattolico-liberale lombarda, Giorgio Rumi, scomparso prematuramente nel 2006.

Pubblicato il 11.07.10 11:35 | | Commenti(2) | Invia il post
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