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Multiculturalismo fallito?
La cancelliera Angela Merkel sostiene che il modello multiculturale tedesco è superato e va cancellato. E’ fallito anche il modello britannico, fondato sulla rispetto fra le identità etniche e religiose?
Secondo Tarik Madood, sociologo dell’università di Bristol, è in atto un tentativo di bilanciamento e di revisione delle politiche verso le minoranze. L’enfasi, prima concentrata sull’integrazione che non nega le identità dei gruppi ma le valorizza, si è spostata su un altro tipo di integrazione che, invece, sollecita la veloce assimilazione dei valori che appartengono alla storia, alla vita e ai costumi del Regno Unito. Un nuovo percorso di coesione che, se imposto cercando di cancellare le appartenenze di origine, rischia di accelerare le tensioni fra le comunità.
Ma, parlare di tramonto della multiculturalità, dice Tarik Modood, è eccessivo. E’ vero che questo modello mostra molte crepa, soprattutto a causa dei flussi migratori non disciplinati, della crisi occupazionale, della paura indotta dall’estremismo islamico, però non è al tramonto. Il problema è come correggerlo.
Gli inglesi, lo dicono le ricerche, sono ancora favorevoli al multiculturalismo: islamici, cristiani, atei, asiatici, bianchi e neri in grandissima maggioranza dichiarano di condividere l’appartenenza britannica, non vogliono che il multiculturalismo si trasformi in “guerra” fra i gruppi. Eppure cresce, in certi segmenti sociali, la domanda di maggiore tutela e considerazione. Due professori della London School of Economics (Andreas Georgiadis e Alan Manning), in una recente indagine, hanno riassunto così, con chiarezza, la situazione nel Regno Unito: “Il più grande pericolo non è che il multiculturalismo fallisca nel creare un senso di appartenenza fra le minoranze, piuttosto è che paghi troppa poca attenzione alle misure di supporto per la popolazione bianca”. Ecco perché conservatori, laburisti e liberaldemocratici (con accenti diversi ma tutti) parlano di “necessari”, “severi”, “immediati” aggiustamenti.
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Università e tasse
Si discute di riforma universitaria anche qui in Inghilterra, sia pure in termini un po’ diversi che in Italia. Alla base vi è, comunque, un dato di fatto che ci accumuna: non ci sono i soldi per finanziare gli atenei.
A Londra, può piacere o non piacere, il problema viene affrontato alla radice. In breve: poiché il governo deve tagliare le spese di bilancio (tutte) occorre trovare il modo di non lasciare morire gli atenei e la ricerca. L’idea, avanzata nel rapporto di Lord Browne e sottoscritta dall’esecutivo, è quella di liberalizzare le rette.
Dal 2012, se la proposta diventerà come sembra esecutiva, ogni università avrà il diritto di fissare le sue tasse d’ingresso. Oggi vige un tetto che è pari a 3290 sterline all’anno. Con il nuovo regime, ad esempio, Oxford o Cambridge o l’Imperial College o la London School of Economics, potrebbero alzare l’iscrizione a 15 o 20 mila sterline. In tale caso, però, scatterebbe una tagliola: se la tassa sarà superiore alle 6 mila sterline l’ateneo verserà allo Stato un’imposta. E’ una via per disincentivare aumenti troppo pesanti.
Certamente è una soluzione dolorosa: anni fa l’aveva perorata persino il laburista Tony Blair. Il rischio è che riescano a sopravvivere soltanto le università più forti e più titolate. Inoltre, vi è il timore (fondato) che gli studenti di famiglie a basso reddito non riescano più a sostenere i costi dell’istruzione di ultimo livello. Ecco perché si stanno valutando alcuni correttivi.
La filosofia di base però non è sbagliata: occorre elevare gli standard di studio e di ricerca, occorre che le università garantiscano corsi di altissimo livello per preparare i ragazzi alle sfide professionali e scientifiche del futuro. Per poterlo fare hanno bisogno di fondi. Le rette attualmente in vigore non servono più. A Oxford uno studente costa mediamente (all’università) 15 mila sterline all’anno. Poiché ne paga soltanto (si fa per dire) 3.290, Oxford (e parliamo di Oxford) fa fatica a coprire la differenza, anche se gode di numerose e generose donazioni private e anche se i college, avendo investito nel corso dei secoli i loro capitali, sono capaci di ricavare e investire i profitti dai loro patrimoni privati.
Un suggerimento che esce dal mondo accademico inglese, per non colpire il diritto allo studio, è quello di affidarsi alla meritocrazia: se un ragazzo passa gli esami d’ingresso in uno degli atenei di eccellenza e dimostra che la sua famiglia appartiene alla fascia bassa di reddito di lui si farà carico l’università. Sussidiarietà resa possibile dalla compensazione con le rette liberalizzate. In sostanza: chi è bravo è giusto che studi o si dedichi alla ricerca, indipendentemente dalla sua povertà o ricchezza. Ma perché ciò sia possibile occorre che ciascuna università si strutturi in modo competitivo trovando il giusto equilibrio fra le tasse richieste e l’offerta di un’istruzione di prima qualità.
Molti studenti protestano e giustamente. Così la riforma universitaria inglese appare ancora sbilanciata. Ma con le necessarie garanzie a tutela dei ragazzi economicamente più sfortunati ma scolasticamente meritevoli è molto probabile che, morendo i dipartimenti e le facoltà decotte o inutili o improduttive, il sistema ne esca complessivamente rafforzato.
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La destra e l'equità
“Credo che via venuto il momento di essere chiari su che cosa significa l’equità”.
Sfidare la tradizione può essere faticoso ma David Cameron ha scommesso sulla modernizzazione del conservatorismo e ha in testa un’altra destra, sensibile alla correzione delle diseguaglianze, sostenitrice del ruolo attivo delle comunità locali e del volontariato, una destra che lavora “nell’interesse della nazione”, che unisce e non divide.
Alla vigilia di una manovra che nei prossimi quattro anni taglierà il 25 per cento della spesa dei ministeri, David Cameron prende di petto la situazione (“non abbiamo altra scelta che il rigore per correggere il deficit”) dando però alla sua politica economica una veste ideologica nuova (“è lo spirito della big society”). Il tasto sul quale batte nel riformulare la filosofia tory è l’equità: l’equità che si esemplifica in un’equazione. “Da un parte di questa equazione c’è l’urgenza di aiutare i più poveri”, dunque vi è uno Stato decentrato e più leggero, comunque solidale. E dall’altra c’è la consapevolezza che “chi lavora e paga le tasse non può guadagnare meno di chi, solo per convenienza, tira avanti coi benefici pubblici anziché cercare un’occupazione”, quindi vi è uno Stato attento a sostenere “chi merita e chi si comporta bene”. Lo slogan riassuntivo è questo: “Se realmente non puoi lavorare ci prenderemo cura di te, ma se puoi lavorare e rifiuti allora non ti permetteremo di vivere sulle spalle di chi lavora”.
Il congresso dei Tory a Birmingham era sulla carta una facile passerella per il premier che dopo “tre sconfitte elettorali consecutive e 4757 giorni di viaggio in una landa desolata” ha riportato i conservatori a Downing Street in coabitazione coi liberaldemocratici. Celebrare il ritorno al potere era scontato. Essendoci, lungo il percorso, un macigno da 83 miliardi di sterline, vale a dire i risparmi sulla spesa pubblica, David Cameron ha invece ha preso la palla al balzo per trasformare l’austerità, in particolare il taglio degli assegni familiari per le retribuzioni superiori alle 44 mila sterline (51 mila euro) che ha scandalizzato una fetta del suo partito, in una revisione del pensiero politico tory.
E’ così finito in soffitta il partito elitario e dei ricchi, ha preso corpo e si è consolidata, sulle spoglie del vecchio conservatorismo, una forza moderata ma rinnovata che orienta la protezione anche ai deboli e a quanti le ingiustizie economiche mettono al tappeto: David Cameron prova a cambiare la pelle della destra britannica.
Nel discorso di Birmingham vi sono alcuni passaggi coraggiosi: “Chi ha una retribuzione più alta si faccia carico del peso maggiore”, “Equità significa portare la gente fuori dalla povertà”. David Cameron contesta il concetto tradizionale di soccorso ai deboli “attraverso l’erogazione mensile di un assegno” e insiste sulla necessità di misurare il successo delle politiche di gestione e uscita dalla crisi “sulle base delle opportunità che costruiamo” per consegnare ai meno abbienti la prospettiva di una vita dignitosa. Vuole che i tagli alla spesa diventino il motore di una società equilibrata. E’ un Cameron “blairiano” che indispettisce i tradizionalisti.
Una parte del partito è nervosa. Ma David Cameron non cede a quei richiami che considera datati. Alle aristocrazie del partito offre uno zuccherino: Margaret Thatcher tornerà nelle stanze del potere, a Downing Street, ma solo per festeggiare, settimana prossima, i suoi 85 anni. Un omaggio al passato e a un grande personaggio, nulla di più. Il conservatorismo della Lady di Ferro non è dimenticato ma David Cameron lo ha archiviato.
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Gli elettori e i nuovi laburisti
Qual è la fotografia dell'elettorato britannico? L'istituto Ipsos-Mori ha illustrato una ricerca al congresso liberaldemocratico. Ero presente e l'ho trovata interessante, specie ora che sono in corso (o lo saranno a breve, nel caso dei tory) le assemblee di partito.
Prendendo come base le elezioni del 2005 e del 2010 la sintesi è questa:
nel maggio 2010, fra gli uomini, i conservatori hanno raccolto il 38 per cento, i laburisti il 28, i libdem il 22, i primi hanno segnato più 4 rispetto al 2005, i secondi meno 6, i terzi sono rimasti uguali
sempre nel maggio 2010, fra le donne, i conservatori hanno conquistato il 36%, i laburisti il 31, i libdem il 26, i primi hanno segnato più 4, i secondi meno 7, i terzi più 3.
Se passiamo a considerare le fasce di età ecco il risultato:
Uomini 18-24 anni
Tory 29% (meno 4 rispetto al 2005) Laburisti 34% (uguali) Libdem 27% (+2)
Uomini 25-34 anni
Tory 42% (+13 rispetto al 2005!!) Laburisti 23% (-10) Libdem 30% (+3)
Uomini 35-54 anni
Tory 36% (+5 rispetto al 2005) Laburisti 28% (-8) Libdem 23% (+1)
Uomini oltre 55
Tory 41% (+1) Laburisti 29% (-4) Libdem 16% (-4)
Donne 18-24
Tory 30% (+8) Laburisti 28% (-15!!) Libdem 34% (+8)
Donne 25-34
Tory 27% (+6) Laburisti 38%(-5) Libdem 27% (-1)
Donne 35-54
Tory 33% (+6) Laburisti 31% (-9) Libdem 29% (+4)
Donne oltre 55
Tory 42% (+1) Laburisti 30% (-4) Libdem 21% (+1)
Tutto ciò dimostra che il trend del centrosinistra è particolarmente negativo fra i giovani elettori e fra le donne.
I laburisti hanno ora un nuovo leader Ed Miliband che si è presentato con un discorso dalle mille facce, sostanzialmente mi è parso un intervento (ero lì) fatto con l'intenzione di rassicurare la sinistra del partito con qualche concessione (inevitabile) ai moderati. I laburisti sono comunque sotto choc: il loro paradosso è che hanno scelto Ed Miliband sperando incosciamente che venisse eletto il fratello David, progressista d'impronta blairiana.
Ed Miliband (che pure ha fatto parte delo staff di Gordon Brown al Tesoro) rappresenta il pacifismo, il movimentismo, l'ecologismo, in generale è la rottura (a parole) con l'esperienza del New Labour. Sarà la carte vincente per recuperare i voti dei giovani e delle donne? Ed Miliband lascerà il centro ai Tory?
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Il Papa e i pregiudizi
Scrive il Daily Telegraph in un suo editoriale: "Accade qualcosa di inaspettato, l'opinione pubblica britannica ascolta con curiosità e genuino rispetto il Papa. Cattolici e non cattolici riconoscono che il ledaer spirituale più influente al mondo è qui per consegnare un messaggio non solo al Regno Unito ma anche a una platea internazionale. Le sue opinioni (...), contrariamente alle previsioni di molti commentatori, non cadono nel vuoto":
Il quotidiano londinese ha colto nel segno. Preceduta da una campagna mediatica molto critica, la visita di Benedetto XVI si sta rivelando un successo di folla e di giovani che lo acclamano ma anche "politico". La rivendicazione di uno spazio religioso in una società secolarizzata fa parte dei doveri della Chiesa. E su questo il Pontefice non ha fatto altro che ribadire posizioni note. Più significative sono state le scuse (vere) per il vergognoso scandalo degli abusi sessuali compiuti sui minori dai sacerdoti. Persino i leader della associazioni antipapiste hanno dovuto riconoscere che Benedetto XVI ha regalato parole "forti". Certo, ora bisognerà vedere, se al pentimento seguiranno i fatti, ovvero la collaborazione con le magistrature che indagano, la riparazione dei danni, l'allontanamento e la denuncia dei preti colpevoli. Però un importante passo in avanti il Papa lo ha compiuto.
Il viaggio a Londra, comunque la si pensi sulla fede, si è rivelato il contrario che il fallimento pronosticato troppo in fretta dai molti giornali inglesi. Il pregiudizio spesso fa perdere la bussola alla stampa che fatica a cogliere i pensieri e i sentimenti della gente comune. Una malattia italiana ma che talvolta colpisce anche oltre Manica.
P.S:
ho l'impressione che l'arresto dei sei presunti terroristi algerini, sospettati di volere uccidere il Papa, sia stato frettoloso. Magari i fatti mi smentiranno ma il dubbio che si sia trattato di eccesso di zelo da parte di Scotland Yard. è fondato.
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Blair: la mia guerra
“Io congedato dalla politica? Che sia per un ruolo internazionale o per un ruolo qui nel mio Paese, ho sempre detto, e lo ripeto, che se me lo chiedono sono pronto a tornare in pubblico servizio”. In Grosvenor Square, quartiere di Mayfair, al primo piano della elegante palazzina dove ha stabilito il suo quartiere generale, davanti alle foto che lo ritraggono con Mandela e con Obama, ma anche con Arnold Schwarzenegger, un Tony Blair sorridente e combattivo si toglie la cravatta e si accomoda sul divano. Sono giorni intensi: i pacifisti gli danno la caccia e lo costringono ad annullare due presentazioni delle poderose memorie (“Un viaggio”, edito in Italia da Rizzoli). Ma le classifiche lo premiano col primo posto nel Regno Unito (centomila copie in quattro giorni) e col terzo negli Stati Uniti dove oggi volerà per conversarne in pubblico con l’amico Bill Clinton. All’ora di pranzo, Tony Blair accoglie il Corriere della Sera nei suoi uffici.
Lei ha fondato il New Labour, è stato un leader innovativo e ha lasciato un segno nella storia britannica. Però oggi in molti sembrano averle voltato le spalle: come se lo spiega?
“In politica quando decidi tu dividi. Così, in tempi difficili con problemi tanto grandi da affrontare e sui quali vi è il dovere di prendere, alla fine, una posizione chiara, è naturale che un leader diventi oggetto di polemiche e di discussioni. Se guardiamo la storia di questi ultimi anni posso dire e sottolineare che ho vinto per tre volte di seguito le elezioni, dunque che ho goduto di un consenso forte fra la gente. Non credo, sinceramente, che le cose siano cambiate. Il mio rapporto è con i cittadini che guardano con favore a una corretta politica di progresso, di mediazione col centro e di modernizzazione. Non con le frange della sinistra estrema o della destra che mi contestano. E neppure con i mass media che vanno dietro a queste piccole proteste. No, il Regno Unito non mi ha voltato le spalle”.
La pace nell’Irlanda del Nord, la devolution scozzese e gallese, la riforma del welfare, l’indipendenza della Banca d’Inghilterra, gli investimenti a favore della scuola: il suo è un racconto di successi politici. Ma resta un punto chiave: la guerra in Irak. Fu la scelta giusta per un premier laburista?
“Forse è troppo presto per dare un giudizio definitivo sulla guerra in Irak in quanto la situazione non è si ancora stabilizzata. Alcune considerazioni, però, si possono fare. Ad esempio, se non ci fossimo sbarazzati in due mesi di Saddam Hussein quali sarebbero state le conseguenze della non azione? Non mi pare che gli iracheni oggi rimpiangono Saddam. Adesso possono votare sugli assetti politici che ritengono migliori per il loro futuro. Non credo che avere dato questa opportunità di democrazia a un popolo sia negativo. E se così non fosse stato, probabilmente, non saremmo qui a conversare ma ci troveremmo in una situazione di conflitto tragico perché Saddam, se non aveva le armi di distruzioni di massa, aveva comunque la volontà e la potenzialità di produrle e di usarle”.
E allora nessun rimorso?
“Un conto sono le valutazioni generali sulle ragioni che ci hanno portato ad avviare l’azione. E un conto sono le valutazioni sugli errori commessi dopo la caduta di Saddam. E’ su questo che occorre ragionare. Bisogna identificare ciò che è andato per il verso sbagliato. E di sicuro, nell’ambito delle negatività, non vi è il rimpianto degli iracheni per Saddam. Vi è semmai la necessità di cercare e smascherare le forze della destabilizzazione interna, i gruppi legati da un lato ad Al Qaeda e dall’altro le milizie appoggiate dal regime iraniano”.
Signor Blair, nel libro di memorie lei cita il caso di un premier Chamberlain, considerato fra i peggiori della storia inglese: sottovalutò i progetti di guerra di Hitler. Ha avuto il timore, ai tempi della decisione sull’Irak, di essere paragonato a Chamberlain?
“Francamente ho temuto di compiere un errore di giudizio. La questione che identificai come decisiva fu quella relativa al possibile utilizzo delle armi di distruzione di massa. Il disegno dei terroristi è quello di causare distruzioni di massa per cui è necessario isolare e rendere inoffensivi quei regimi che accelerano la corsa agli armamenti più pericolosi. Gheddafi cambiò strada. Saddam no. Da qui la mia determinazione: i regimi che usano queste armi devono cambiare. Saddam le usò contro i curdi dunque era giusto cacciarlo. La questione di fondo, molto difficile, fu, e rimane ancora, una sola ed è quella di valutare i rischi dell’azione e della non azione. Capisco benissimo il punto di vista contrario. E’ molto semplice: operiamo con le sanzioni e con l’isolamento internazionale, impediamo la fuga di tecnologie avanzate. E’ corretto. Ma poi arriva il momento, se il pericolo cresce e arriva al punto di non ritorno, che devi decidere. Non si tratta di dividersi in buoni e cattivi. Si tratta, lo ripeto, di fare una scelta terribile”.
Vi è il pericolo di una guerra con l’Iran?
“La questione deve essere risolta pacificamente e diplomaticamente. Detto ciò, personalmente ritengo che Teheran stia compiendo un calcolo sbagliato nel ritenere che l’amministrazione americana se ne stia con le mani in mano mentre il regime accresce le sue potenzialità distruttive. Un Iran massicciamente nuclearizzato è un fattore di destabilizzazione nell’intera regione”.
Dopo tredici anni di governo i laburisti sono usciti sconfitti dalle elezioni: quali le ragioni?
“Non avevamo un programma da New Labour ma da Old Labour, da vecchio Labour. Il centro sinistra può vincere se smette di difendere lo status quo e tiene saldo il filo con il futuro, se impara a cogliere le tendenze di un mondo che cambia velocemente, di un mondo che vuole anche legalità e ordine. Coltivare il proprio recinto ideologico senza aprirsi significa perdere”.
Non crede che il centro sinistra britannico sia politicamente responsabile per non avere controllato le scorribande della finanza creativa?
“L’economia moderna ha una enorme componente di innovazione finanziaria. Occorre inseguirla, capirla, regolarla e supervisionarla. Ma l’innovazione, in sé, non è una brutta cosa è un’ottima cosa. Se mi si chiede se vi è stata indulgenza con gli eccessi dico di sì. Se mi si chiede se è necessario regolamentare dico di sì. Ma se mi si chiede di imbrigliare i mercati o la City dico di no. La City deve rimanere il cuore finanziario del mondo”.
I laburisti sono alla ricerca di un nuovo leader: lei appoggia David Miliband?
“E’ un amico ma non farò dichiarazioni a suo favore”.
Per quale motivo il centrosinistra arretra in Europa?
“Perché di fronte alle incertezze del presente difende l’immobilismo. Il dovere della sinistra è quello di sostenere i mutamenti, non rifiutarli e resistere”.
Che cosa pensa dello slogan conservatore, quello della “Big Society”, uno Stato più leggero e una società più protagonista?
“Ci sono elementi di questo concetto che appartengono a noi laburisti, come ad esempio la volontà di rendere le comunità locali più attive nei processi decisionali. La mia idea è che se alla gente tu presenti la scelta fra uno Stato burocratico invasivo e uno Stato agile minimo, la gente opta per lo Stato minimo. Ma c’è una terza via: quella di uno Stato attento alla giustizia sociale, regolatore e riformatore. Ed è quella per cui mi batto”.
David Cameron è il Tony Blair dei conservatori?
L’ex leader laburista ride, si alza dal divano e mormora: “Lasciamolo governare poi vedremo”.
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Gheddafi
Il colonnello Gheddafi fa molti affari con Londra (gas e petrolio) e ottiene sottobanco la liberazione dell'attentatore di Lockerbie. Il colonnello Gheddafi fa molti affari con l'Italia (sempre petrolio e gas ,ma anche finanza e infrastrutture) e ottiene di sbarcare a Roma per esternare i suoi pensieri, per invitare l'Europa a islamizzarsi, per fare un po' di chiasso imbarazzante.
Domanda, forse banale: ma perchè il colonnello Gheddafi combina questi scherzi circensi in Italia e non a Londra ?
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Mister Efficienza?
Lo “zar dell’efficienza”, quando deve festeggiare i suoi compleanni, non bada a spese. Essendo al nono posto della classifica dei magnati britannici può concedersi il lusso di affittare una schiera di aerei privati per portare i 219 amici più intimi a Cipro e ingaggiare, per un gradevolissimo e intimo concerto privato, star del calibro di Rod Stewart e Tom Jones. E’ ciò che ha fatto per spegnere le sue cinquantadue candeline sulla torta.
Nulla in confronto al party di tre anni dopo: la schiera dei selezionati si è ristretta ma il budget è decuplicato. I calici per le 55 primavere di sir Philip Green si sono alzati in un atollo delle Maldive con cento ospiti e modelle al seguito. Cinque giorni di bisboccia, 3 mila bottiglie di champagne, un'altra stella della musica pop, George Michael, ingaggiata con un assegno da favola e alcuni milioni di sterline (c’è chi dice che siano stati dieci) tirati fuori per allietare le serate della compagnia e distribuire regalini. Non c’è che dire, sir Philip Green ama la vita sfarzosa: i soldi sono suoi e ne fa l’uso che gli piace e ritiene opportuno.
Il problema, però, è che il proprietario dell’Arcadia lo società attraverso la quale ha il controllo di 2300 negozi nel Regno Unito e del 12 per cento del mercato dell’abbigliamento, adesso ha ricevuto dal governo di David Cameron un incarico importante e delicato: è lui che deve vigilare sull’austerità imposta alle famiglie inglesi. Affiancando il Tesoro, da consulente esterno, avrà voce in capitolo sui tagli alla spesa pubblica e sull’azzeramento dei costi superflui nell’amministrazione. Ecco il punto e la domanda: sir Philip Green è l’uomo adatto per suggerire come e che cosa risparmiare?
Si comprende, allora, il motivo per cui la sua nomina abbia avuto accoglienza molto negativa persino dai giornali, come il tabloid Daily Mail, che hanno affiancato i conservatori nella corsa a Downing Street. Oltre alle perplessità dettate da uno stile tendente all’edonismo estremo, che non è un bell’esempio in tempi di crisi economica, lo “zar dell’efficienza” (così lo hanno battezzato) ha un vizietto fiscale. Lui pendolarizza con regolarità fra il Principato di Monaco e Londra: in Costa Azzurra, ha ancorato uno yacht, il “Lionheart” (cuore di leone), lungo
David Cameron e il suo alleato libdem Nick Clegg stanno per tagliare il traguardo dei primi 100 giorni di governo e si chiedono se la luna di miele con gli elettori sia conclusa. Non è proprio così. I britannici sono un popolo serio: la maggioranza accetta l’austerità. Cinquantasette sudditi di sua maestà su 100 (sondaggio del Daily Mail) sono però delusi da scelte un po’ strane: che proprio sir Philip Green sia lo “zar dell’efficienza” dà fastidio e abbassa l’indice di gradimento della coalizione.
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Tour del France style
A crederci non erano in molti, alla fine del 2009, quando il ministero dei trasporti britannico propose uno schema di benefici fiscali per incentivare l’uso della bicicletta nel quotidiano viaggio verso l’ufficio. L’offerta, semplice e rivoluzionaria, destinata sia alle imprese sia ai lavoratori, voleva promuovere le due ruote come benefit aziendale, libero dalle imposte e deducibile dalla dichiarazione annuale dei redditi. Fu giudicato con una certa freddezza a dimostrazione che i mass media, spesso, non sanno cogliere le tendenze nella società.
Oggi, le statistiche del Regno Unito (Bicycles Uk 2010) rendono conto che, un po’ per la crisi economica e un po’ per la maggiore responsabilità ambientale dei cittadini, le abitudini e le preferenze sono radicalmente mutate. E in meglio.
In poco meno di un anno sono state ben 25 mila le imprese che hanno sottoscritto l’invito del ministero dei trasporti e 3 milioni e mezzo gli acquirenti di biciclette, unico boom in un quadro di generale arretramento. L’inglese del ceto medio, il pendolare e l’inglese della City hanno scoperto il simbolo di questi tempi: la due ruote. Del resto, basta guardarsi attorno a Londra (dove all’inizio di agosto è stato avviato l’affitto delle bici pubbliche, sull’esempio di Parigi e Milano) per verificare il nuovo trend. Russi e arabi sfoggiano suv e fuoriserie da favola. I sudditi di Sua Maestà, impiegati, professionisti e manager, preferiscono la bicicletta. E’ il loro status-symbol.
Finalmente, anche i mass media se ne rendono conto. E raccontano che “il Regno Unito ha adottato il Tour de France style”. Bell’esempio. Noi, italiani, abbiamo il Giro. Purtroppo, ci manca ancora il resto: lo “style”.
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I peccati di Westminster
Lord Palumbo ha un bel record. Pur avendo avuto, nel lontano 1991, l’onore di vestire la toga rossa d’ermellino riservata ai “Pari”, in quasi vent’anni di carriera ha partecipato soltanto a otto votazioni (su 100) in aula e l’ultima sua apparizione alla Camera Alta, risale niente meno che al 20 dicembre 2000.
Tory di sperimentata fede, il settantacinquenne ricchissimo collezionista d’arte e di ville, amico del principe Carlo col quale giocava a polo, è un vero campione dell’assenteismo parlamentare. Ma non è l’unica pecora nera del gregge. Basta dare un’occhiata a un sito internet (“theyworkforyou.com”, ovvero “lavorano per te”) e si ottiene il minuzioso resoconto di ciò che i rappresentanti del popolo britannico combinano o non combinano nei corridoi e nell’aula di Westminster. E’ il registro che annota quante volte hanno bigiato dal primo giorno dell’ambita nomina. Lord Peter Palumbo (c’è un po’ di italianità nella sua ascendenza), è in splendida compagnia. A destra, al centro, a sinistra. Non è che Londra possa andare fiera dei suoi “Pari”.
La Camera dei Lords è un nobile salotto di 738 illustri signori e signore della politica, delle scienze, dell’economia, della giustizia, della religione. Molti lavorano di buona lena. Molti altri sono fantasmi. Portano a casa il titolo che è vitalizio ma non più ereditario e spariscono nel nulla. Il Parlamento, per loro, è poco più di una sala da tè da frequentare quando capita. E’ probabilmente per questo motivo che da tempo si parla di una drastica riforma dei Lords. L’ultima idea che circola nel nuovo governo Cameron-Clegg e sui tavoli di una commissione presieduta da Lord Hunt of Wirral è addirittura rivoluzionaria. Semplicissimo: ogni cinque anni, ossia prima di ogni tornata elettorale, si fa una verifica e gli assenteisti più incalliti vengono licenziati in tronco. A giudicarli sarebbe lo stesso gruppo parlamentare al quale appartengono. Qualcosa che assomiglia a una “purga democratica”. Non sarà facile realizzarla. Lord Palumbo e soci hanno spalle coperte.
L’aria che tira, comunque, non è più quella di una volta. E di sicuro lo ha compreso un Lord molto famoso, l’architetto Norman Foster. Quello che ha progettato il Millenium Bridge sul Tamigi, gli aeroporti di Pechino e di Stanstead, la metropolitana di Bilbao, il Reichstag di Berlino, la stazione ferroviaria (alta velocità) di Firenze, lo Yacht Club di Monaco, lo stadio di Wembley. Figlio di operai, Norman Foster ha tirato su un impero di 500 professionisti associati nello studio “Foster and Partners”. Nel 1999, lui laburista, fu insignito della nomina a Pari. Ebbene, in 11 anni è riuscito a parlare e a votare una volta. Chi lo vedeva a Westminster?
Il mese scorso l’archistar inglese ha presentato le dimissioni. Pentimento da assenze? Macchè: Foster e con lui altri quattro Lords (fra i quali la baronessa e banchiera Lydia Dunn, vicepresidente per sedici anni di Hsbc) hanno preferito lasciare Westminster piuttosto che dichiarare i redditi da professione e pagare le tasse. Hanno solennemente giurato di non risiedere più nel Regno Unito, dunque di non essere debitori del severo fisco britannico. Foster si è stabilito in Svizzera. Risultato: formalmente conservano il titolo di Lord (quello non si perde mai) ma la “fatica” di andare a Westminster, una volta o due all’anno, se la possono evitare. Nessuno li bollerà come Lords assenteisti. Semmai: Lords molto scaltri, poco british. Anche Westminster ha i suoi peccati.
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