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giovedì 30 luglio 2015

Somewhere along in the bitterness

Questo sarà un post dalla sintassi a spezzatino, perchè me lo invio a botte di sms. Sono in giro con in mano il mio Nokia dell'età della pietra. Scrivo mentre

cammino, e cammino lungo la passeggiata che farò ogni santo giorno quando abiteremo di nuovo a Genova. Perchè credo che alla fine andrà così. Non so quanti

di noi verranno fuori da questa situazione. Non so se ci arriveremo separatamente, insieme, in contemporanea o prima uno poi gli altri. Ma ad un certo punto

è improvvisamente diventato chiaro che tra le colline non c'è rimasto molto, per nessuno di noi. L'Uomo ha nostalgia di casa. Io ho bisogno di un posto dove,

se una donna apre la bocca, le sue parole vengono ascoltate, anche se non ha un uomo al suo fianco. La Princi deve cercarsi un lavoro, e un fidanzato, in una

città dove esistano vie di mezzo tra il figlio di feudatari, cocainomane, e il tamarro scappato di casa, cannato. Senza togliere nulla ai miei meravigliosi

exalunni, che infatti van via dai paesi, per vivere a Torino o all'estero, diciamo che il parco ventenni della nostra zona tende a essere deludente.

Mentre ne parlavo pochi giorni fa, e guidavo in mezzo alle campagne con la Princi, lei a bruciapelo ha voluto sapere "come farai senza questo?" alludendo soprattutto

alla serata appena trascorsa. In cui eravamo state accolte come regine in un paesino lillipuziano, su un cocuzzolo boscoso tra Paesino di Sogno e Paesino Blu.

Dove alunni exalunni e genitori che coprivano complessivamente 8 anni della mia vita lavorativa mi hanno fatto sentire a casa, e raccontato le loro vite, come

al solito. "Ah, ma torno" ho detto. "E' un'ora di macchina, in effetti" ha detto lei. Gli exalunni una cena per vedermi la organizzano, lo so. Ma è il verde,

sono le colline, è la neve. Queste cose, le chiesette medievali, le stradine nel bosco, non potrò portarmele dietro. Però in questi giorni tremendi penso che

potrebbe anche andare a finire che la neve non la vorrò mai più vedere. E nemmeno i papaveri. E la nebbia. E le piogge primaverili sui fiori. E il campanile di

Paesino di Sogno. Ora sono col culo sui sassi di una piccola porzione di spiaggia libera, in città. Soffia un vento tiepido, umido, salato. Sta

alzandosi la marea. Non c'è il sole. Il mare canta qui davanti come se sapesse che deve convincermi. Ma non serve. Ci sto già pensando. Qui forse potremo andare avanti.

Poi naturalmente è un trascurabile dettaglio che ora trasferirsi sia diventato impraticabile, grazie alle nuove politiche del ministero. E che se va tutto come

deve andare la Princi abbia davanti altri 4 anni di scuola. E che la casa di mio padre e delle zie sia interamente da ristrutturare, e troppo grande, nel malaugurato caso che non ci si vada a stare almeno in tre.

Ma abitare a Genova è uno stato mentale, prima di tutto. Per anni "casa" è stata quella dove si tornava nel weekend. Prescindendo dal fatto che, come l'Uomo ha detto ancora 10 giorni fa, casa era dove lui stava con me. Ovunque fosse. E però lui usa il passato. Io uso il futuro. Una conversazione

così è impossibile. Possiamo usare solo il presente. Che per lui è una valigia nel bagagliaio. E per me un girone dell'inferno. A volte, solo a volte, un istante che batte le ali veloce, in un suo sguardo, e poi va via.

Ho camminato scrivendo fino ad avere le gambe dolenti, gli occhi stanchi, le labbra asciutte, i capelli un groviglio di vento, sale e sudore. Un'altra giornata è passata. Non mi sono ancora arresa.  

Uno dei locali più fighi qua sul mare sta già preparando per l'aperitivo serale. L'altoparlante sulla terrazza amplifica How to save a life. Che l'80 per cento dei malati di serie tv associa inesorabilmente a Grey's Anatomy stagione 1. Quella che io so

a memoria, perchè mi ricorda quando tutto stava per cominciare, quando ero anche io una specializzanda, che non aveva mai tempo per dormire, che non immaginava ancora di che cosa fosse capace, che aveva appena incontrato il suo dottor Shepherd e non lo sapeva.