giovedì, febbraio 27, 2025

IL SEME DEL FICO SACRO

Il seme del fico sacro

di Mohammad Rasoulof

con Misagh Zare, Soheila Golestani, Mahsa Rostami, Setareh Maleki

Iran, Germania, Francia, 2024

genere: drammatico

durata: 168’

Indubbiamente attuale nella sua potenza e potente nella sua attualità. Il seme del fico sacro, ultima fatica del regista Mohammad Rasoulof, realizzato senza il benestare del governo iraniano, arriva nelle sale per cercare di insidiare gli altri candidati alla corsa al miglior film internazionale agli imminenti Oscar.

Fin da subito carico di tensione, il lungometraggio, seguendo una famiglia composta da padre, madre e due figlie adolescenti, ha fin da subito il compito non semplice di far comprendere allo spettatore la situazione attuale nella quale versa l’Iran.

Subito dopo la definizione necessaria a comprendere la potenza del film, che spiega cosa sia il fico sacro e come cresca stritolando chi lo circonda, la prima immagine è quella di sette proiettili che vengono posti su un tavolo, a indicare la ferocia e la crudeltà alla quale assisteremo in quanto spettatori inermi. Anche la mano subito a seguire, appartenente al protagonista a noi ancora sconosciuto, che, non fidandosi, utilizza una propria penna per firmare, sembra essere il presagio di quello che si svilupperà nel corso della vicenda.

            La famiglia deve sempre rimanere la vostra priorità.

Sottolinea, quasi ossessivamente, la madre alle figlie che sembrano voler uscire dai binari ben delimitati dello Stato e della dottrina di quest’ultimo.

Perché al centro della storia c’è Iman e la sua famiglia. Lui, apparentemente un uomo comune, ha da poco ottenuto un’importante promozione a lavoro: adesso è un giudice istruttore presso il tribunale rivoluzionario di Teheran nel momento in cui questa istituzione si trova costretta a respingere una pesante ondata di proteste popolari, soprattutto a seguito della morte di Mahsa Amini (ed è qui che realtà e finzione vanno a congiungersi). Ad aspettare Iman a casa ci sono le due figlie, Rezvan e Sana, entrambe studentesse e sostenitrici delle proteste, e la moglie Najmeh, che, invece, cerca di fungere da trait d’union tra le due fazioni. L’apparente equilibrio casalingo viene, però, irrimediabilmente distrutto nel momento in cui la pistola d’ordinanza di Iman, concessagli, così come a tutti gli altri giudici istruttori, per difendersi in caso di problemi, scompare.

Un percorso lineare quello che porta Iman a trasformarsi completamente da vittima a carnefice di un sistema che sta troppo stretto a tutti. Percorso che lo porta a omologarsi a una società rotta dall’interno trasformandolo nell’ennesima marionetta esemplificata dai cartonati che occupano il corridoio del tribunale nel quale si reca tutti i giorni. Inizialmente delle piccole ombre che si intravedono nel buio di un percorso a ostacoli che lo porterà a compiere scelte tutt’altro che semplici, poi le stesse si trasformano in statue imponenti, quasi con sembianze umane, che lo catturano all’interno di una realtà nella quale si ribaltano tutte le certezze.

            Tu non lo saprai mai. Ci sei dentro, ci credi troppo.

Le parole delle giovani, eppure ben più consapevoli, Rezvan e Sana, suonano come rimproveri agli occhi dei genitori, ma sono la fotografia reale e perfetta di un paese (e un uomo) in balia di se stesso. Completamente assuefatto dal nuovo incarico, Iman non riesce più a distinguere la realtà dalla finzione, il giusto dallo sbagliato. Se all’inizio prova a interrogarsi e mettersi nei panni di persone che, con una sua semplice firma, sono condannati a morte, col passare del tempo tutto diventa normale, un meccanismo automatico e automatizzato che non gli permette più di aprire gli occhi e vedere realmente quello che lo circonda (situazione che verrà messa in pratica concretamente a discapito delle reali vittime del sistema). Convincendosi di vivere nel giusto e che le proteste siano nate da episodi assurdi, cerca di ricreare ciò che gli viene imposto a lavoro all’interno della propria casa e della propria famiglia, mettendo a dura prova sia le figlie che, col tempo, anche la moglie. Diventano, infatti, inutili i tentativi di quest’ultima di arginare le sue manie e di cercare sempre un compromesso tra il marito e le figlie. Comportandosi, apparentemente, allo stesso modo con entrambe le parti, Najmeh cerca di mantenere un equilibrio, reso cinematograficamente in maniera efficace da due scene diametralmente opposte, ma raffigurate come se fossero identiche perché la sua volontà in quei momenti sembra essere la medesima: quando si prende cura della giovane amica di Rezvan, colpita e ferita gravemente al volto durante delle proteste in università, e quando taglia i capelli e fa la barba al marito. Entrambi sfocati, entrambi senza parole, ma con la musica come accompagnamento ed entrambi con la figura della madre di famiglia come unica possibilità di trovare un compromesso tra il bene e il male.

Allo stesso modo ci sono tanti altri parallelismi, dalla cecità metaforica del padre a quella reale di alcuni personaggi (l’amica sfregiata, ma anche le altre protagoniste costrette a un interrogatorio crudele e violento nel suo silenzio e nella sua modalità), dalla pistola, simbolo di costrizione e motivo scatenante di dissapori e disaccordi, che fa da contraltare a una libertà tanto agognata e bramata da poter essere solo sfiorata, come lo smalto sulle unghie o il sogno dei capelli azzurri.

Con un’ultima parte molto più concitata e a tinte quasi da thriller, Il seme del fico sacro si trasforma completamente e diventa esso stesso un mezzo per lottare. Perché è vero che la vittima si trasforma in carnefice e ci mostra il lato negativo di un’esistenza votata a una certa causa, ma lo stesso carnefice si ritrova ingabbiato in qualcosa di più grande di lui. Non è un caso che Rasoulof inquadri quasi sempre Iman attraverso degli ostacoli posti tra lui e il pubblico, siano essi sbarre, vetri, finestrini o altro ancora, a differenza delle figlie che, seppur circoscritte all’interno delle mura di casa, private dei contatti con l’esterno, ridotti a delle comunicazioni telegrafiche tramite social media, sono molto più libere e centrali, tanto da riuscire a sostenere a distanza le proteste del paese.

Una grande matrioska destinata, forse, a rimpicciolirsi (e stringersi) sempre di più.


Veronica Ranocchi 

domenica, gennaio 19, 2025

OH, CANADA - I TRADIMENTI

Oh, Canada - I tradimenti

di Paul Schrader

con Richard Gere, Uma Thurman, Jacob Elordi

USA, 2024

genere: drammatico

durata: 91’

Una storia che raccoglie più storie al suo interno. Il nuovo film di Paul Schrader, Oh Canada, sembra dirci proprio questo grazie anche a due protagonisti che si alternano per dar vita allo stesso personaggio.

Come da sempre ci ha abituati, lo sceneggiatore, tra i tanti, di Taxi Driver, impregna la sua opera di dialoghi che iniziano fin dalla prima scena nella quale vediamo già la fine della storia, spiegata e anticipata da una voce fuoricampo che continua poi ad accompagnarci per tutto il tempo del film.

La storia è apparentemente molto semplice: Leonard Fife (interpretato da un Richard Gere a tratti invecchiatissimo, sul letto di morte, a tratti molto più giovane, ma anche da Jacob Elordi per la sua versione da adolescente e giovane adulto) è un ex documentarista che viene invitato a raccontare la propria vita e le proprie esperienze lavorative e non davanti a una troupe di giovani che vogliono documentare il modus operandi di quello che loro definiscono un modello da seguire. L’unico obbligo che l’uomo impone è quello di avere sempre accanto la moglie Emma (Uma Thurman) come se si trattasse di una confessione.

    Ne ho fatto una carriera tirando fuori la libertà agli altri.

Con questa frase Leonard tenta di dare un senso ai suoi ricordi confusi, offuscati, talvolta falsi o errati. Perché molto spesso quello che vediamo noi spettatori, insieme alla moglie e agli intervistatori, è qualcosa di non ben definito. L’intento di Schrader è quello di raccontare un passato vissuto, ma anche un passato sperato e bramato, provando a plasmare ciò che è stato. Arrivato a un’età tale da non consentire voli iperbolici nel futuro, quello che resta, al regista e al suo personaggio, è ancorarsi a un passato denso di accadimenti e trasformarlo in qualcosa di diverso. Quello che ci troviamo di fronte, quindi, è una ricostruzione non del tutto autentica, che mescola realtà e finzione e che, quindi, porta a confondere non solo il pubblico, ma anche lo stesso Leonard che non riesce nemmeno a confutare la tesi della moglie o degli altri.

    Quando non hai più un futuro ti resta solo il passato.

In realtà la confusione che aleggia durante tutta la narrazione, sia quella del presente, sia la ricostruzione del passato, è una confusione dettata dal fatto che tutto quello che vediamo, sentiamo o ascoltiamo non è quello che sembra. Perché Leonard sceglie di fuggire oltre il confine canadese per evitare la leva negli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam? C’è forse qualcosa che non ha mai raccontato, né alla moglie, né a nessun altro e che, in qualche modo, ha voluto tenere nascosto anche a sé?

Al di là della (ri)costruzione della sua vita passata, a essere assente in Oh, Canada è anche un legame diretto tra i due interpreti di Leonard Fife. Da una parte abbiamo Richard Gere e dall’altra Jacob Elordi. Se il primo è l’uomo che cerca di tenere le redini dei suoi ricordi e delle sue avventure, il secondo è quello che li interpreta, giusti o sbagliati che siano. E si tratta di due fisicità e di due approcci alla vita e al mondo molto diversi e anche distanti. Probabilmente scelti proprio per differenziare la visione che lo stesso Leonard ha della vita, o almeno della visione che vuole avere di tutto ciò che lo circonda (non a caso, infatti, in alcune sequenze Schrader opta per una versione cinquantenne di Richard Gere senza chiamare in causa il giovane Elordi).

Schrader fa un’operazione che ha, quasi, il sapore di un saluto con un film dentro il film e tutto ciò che ne deriva. Anche perché tutto inizia proprio con la preparazione della location e della videocamera che andrà a immortalare l’ultima intervista del regista. Tutto in maniera pulita, con ogni gesto accompagnato dalla musica e dai titoli di testa fino al primo potente primo piano del protagonista, come a volerlo incorniciare al centro della scena, a prescindere da tutto e da tutti. È di lui che si parlerà, è lui che parlerà, è lui che sarà il filo conduttore della narrazione, sia essa a colori o in bianco e nero. È lui che dovrà mettersi a nudo davanti allo schermo, raccontando e raccontandosi.

Se anche Leonard, come tanti personaggi del regista sceneggiatore, nasconde malessere e contraddizioni, il suo corrispettivo diventa il film stesso, Oh, Canada, che gli permette di dimostrare, ancora una volta, come il cinema sia in realtà uno strumento ambiguo, soggettivo e spesso privo di una verità assoluta e universale.


Veronica Ranocchi

giovedì, gennaio 09, 2025

LE CLASSIFICHE DE I CINEMANIACI 2024

 Le classifiche de I Cinemaniaci 2024

Carlo Cerofolini


  1. Anora (Sean Baker)
  2. La Zona d’interesse (Jonathan Glazer)
  3. The Beast (Bertrand Bonello) 
  4. Another End (Piero Messina)
  5. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  6. Dostoevskij (Damiano e Fabio D’Innocenzo)
  7. Vermiglio (Maura Delpero)
  8. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  9. Upon Entry - L’arrivo (Alejandro Rojas, Juan Sebastian Vasquez)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Civil War (Alex Garland)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Bestiari, Erbari, Lapidari (Massimo D'Anolfi, Martina Parenti)
  14. I delinquenti (Rodrigo Moreno)
  15. Sulla Terra Leggeri (Sara Fgaier)
  16. Quasi a Casa (Carolina Pavone)
  17. La Sala professori (Ilker Katak)
  18. Perfect Days (Wim Wenders)
  19. Quell’estate con Irene (Carlo Sironi)
  20. Past Lives (Celine Song)

-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Filippo Timi (Dostoevskij)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora)

-Migliore sceneggiatura: Nikolaj Arcel, Anders Thomas Jensen (La terra promessa)

-Migliore Colonna Sonora: Coca Puma (Quasi a casa

-Miglior Fotografia: Greig Fraser (Dune - Parte 2)

-Montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti (Bestiari, Erbari, Lapidari)

-Rivelazione: Maria Camilla Brandenburg (Quell’estate con Irene), Maria Chiara Arrighini (Quasi a casa)

-Opera Prima: Sulla terra leggeri (Sara Fgaier)


Veronica Ranocchi


  1. Vermiglio (Maura Delpero)
  2. Il ragazzo e l'airone (Hayao Miyazaki) 
  3. Anora (Sean Baker)
  4. Perfect Days (Wim Wenders)
  5. The Holdovers (Alexander Payne)
  6. La zona d'interesse (Jonathan Glazer)
  7. Il gusto delle cose (Trần Anh Hùng) 
  8. Past Lives (Celine Song)
  9. Il robot selvaggio (Chris Sanders)
  10. La Terra Promessa (Nikolaj Arcel)
  11. Dune - Parte 2 (Denis Villeneuve)
  12. Hit Man - Killer per caso (Richard Linklater)  
  13. Il corpo (Vincenzo Alfieri)
  14. Inside out 2 (Kelsey Mann)
  15. Tatami - Una donna in lotta per la libertà (Zar Amir Ebrahimi, Guy Nattiv)
  16. Civil War (Alex Garland)
  17. Parthenope (Paolo Sorrentino)
  18. Flow - Un mondo da salvare (Gints Zilbalodis)
  19. The Substance (Coralie Fargeat)
  20. Io e il secco (Gianluca Santoni)


-Migliore regia: Jonathan Glazer (La Zona d’Interesse)

-Miglior attore: Sebastian Stan (The Apprentice)

-Migliore attrice: Mikey Madison (Anora) - Sandra Huller (La zona d'interesse)

-Migliore sceneggiatura: Coralie Fargeat (The Substance)

-Migliore Colonna Sonora: Trent Reznor, Atticus Ross (Challengers

-Miglior Fotografia: Daria D'Antonio (Parthenope)

-Montaggio: Vincenzo Alfieri (Il corpo)

-Rivelazione: Dominic Sessa (The Holdovers)

-Opera Prima: Io e il Secco (Gianluca Santoni)

lunedì, gennaio 06, 2025

BLITZ

Blitz

di Steve McQueen

con Saoirse Ronan, Elliott Heffernan, Harris Dickinson

USA, UK 2024

genere: guerra, drammatico

durata: 120’

Preceduto da "Occupied City" il nuovo film di Steve McQueen sembra nascere come reazione al penultimo lavoro del regista inglese. Ambientato nella Londra del 1940, quella messa a ferro e fuoco dai bombardamenti della famigerata Luftwaffe, l'aviazione militare tedesca che tanto contribuì alla riuscita della cosiddetta "guerra lampo", "Blitz" (almeno all'inizio) non si perde in chiacchiere portandoci nell'inferno di fuoco causato dall'azione dei bombardieri nemici non prima di aver contestualizzato il periodo storico con una veloce didascalia che oltre a fissare il periodo dei fatti si prende briga di spiegare allo spettatore il significato etimologico della parola scelta per dare il titolo al film.

La volontà del qui e ora con cui McQueen decide di romanzare la Storia, ricostruendola con la dovizia di particolari tipica dei film in costume, sembra quasi volersi vendicare della priorità del fuoricampo di "Occupied City" in cui la Amsterdam occupata dall'esercito nazista veniva rievocata per interposta persona, senza ricorrere ai materiali d'archivio e con le immagini della città dei nostri giorni volte a suggerire una continuità dei fatti di ieri con quelli di oggi.

Pur rimanendo fedele all'idea di un cinema capace di mettere in discussione la Storia ufficiale, rileggendola dal punto di vista degli umiliati e offesi, il regista inglese decide di rinunciare al proprio côté artistico e, dunque, alla capacità della componente visiva di farsi carico di ciò di cui non si può parlare per gettarsi a capofitto in un racconto di guerra realizzato in modo da corrispondere nella maniera più fedele possibile al modo di pensare e di guardare il mondo di personaggi vissuti quasi un secolo fa.

Per farlo McQueen rinuncia alla metafisica del racconto che era stata il punto di forza di war movie come "Dunkirk" e "1917" (pensiamo al rovesciamento operato da Christopher Nolan che fa della guerra il personaggio principale del suo film e a Sam Mendes, capace di rileggere il primo conflitto mondiale alla luce della bellicistica contemporanea, immaginando le azioni delle artiglierie nemiche con un impatto simile a quello delle nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia contemporanei) a favore di una messinscena che esaurisce sé stessa nella saturazione dell'elemento visivo e dialogico.

Al contrario di altre volte McQueen crede così poco alla possibilità d'astrazione dello strumento cinematografico da sentire il bisogno di puntellare ogni fotogramma con un'overdose di informazioni che finiscono per togliere ai personaggi la propria autonomia.

Un'evidenza che risalta soprattutto nel pensiero che sta dietro alla costruzione narrativa, poggiata su un percorso ad ostacoli - simile a quello dei videogame - dove il ritorno a casa del piccolo George (fuggito dalla campagna in cui la madre l'ha spedito per evitargli i rischi dei bombardamenti nemici) diventa occasione per inanellare una moltitudine di "sfortunati eventi" raccontati come si farebbe in una serie, con le tappe del viaggio scandite da altrettanti racconti autoconclusivi.

Steve McQueen adotta dunque un modello popolare in linea con le premesse del progetto a cui però viene a mancare la durata necessaria per un'efficace resa drammaturgica. Costretto a condensare la vicenda in meno di due ore la progressione di "Blitz" è tutta esteriore, legata a una ripetizione dei fatti che non riesce a essere accompagnata da un adeguato sviluppo psicologico dei personaggi qui ridotti a pedine nelle mani di un demiurgo esterno.

Abituato a raccontare personaggi fuori dagli schemi, McQueen non si smentisce neanche in questa occasione perché tutti i protagonisti, nessuno escluso, portano sulla propria pelle le stimmate di una diversità che nei film del regista inglese sono da sempre motore della storia. A differenza di altri lavori, però, in "Blitz" tutto è destinato a rimanere in superficie come spunto per tratteggiare un racconto tanto edificante quanto enfatico (per l'insistenza con cui il regista continua a frapporre ostacoli tra George e la sua meta) in cui all'autore sembra interessare più che altro il sottotesto razziale e autobiografico (il bambino è figlio dell'amore tra Saoirse Ronan e un ragazzo nero), in cui la visione progressista del mondo è destinata a trionfare non prima di aver fatto i conti con una sfilza incredibile di soprusi e discriminazioni. In questo senso poco possono fare in termini di emozioni la pur brava Ronan e, in un ruolo che sarebbe piaciuto a Charles Dickens, il giovanissimo Heliot Heffernan; per non dire di Paul Weller tornato sul grande schermo per interpretare un personaggio che si perde lungo il percorso della storia. La decisione da parte di Apple di farlo uscire direttamente in piattaforma potrebbe essere anche la conseguenza di una riflessione sulla debolezza del film.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

domenica, gennaio 05, 2025

DIAMANTI

Diamanti

di Ferzan Ozpetek

con Luisa Ranieri, Jasmine Trinca, Vanessa Scalera

Italia, 2024

genere: drammatico, commedia

durata: 135’

Gli elementi ricorrenti del cinema di Ozpetek ci sono: c’è il cast corale, c’è la grande tavolata, ci sono i volti che hanno lavorato con il regista negli anni. Ma, oltre a questo, ci sono anche delle novità e delle differenze che, se inizialmente sembrano dare una nuova luce, con l’andare avanti della storia si perdono nelle innumerevoli strade che Diamanti sembra voler percorrere.

Un escamotage di metacinema è quello che sceglie il regista turco ormai italianizzato per far addentrare lo spettatore all’interno della sua nuova perla. Un pranzo insieme a tutte le sue attrici (e un paio di attori) è il modo migliore per Ferzan Ozpetek per introdurre sia loro che noi a una storia che trasuda cinema da tutti i pori, ma che, come un bel vestito pomposo, rischia anche, talvolta, di perdersi.

Da un pranzo insieme con una tavola imbandita il regista inizia a spiegare ai presenti il suo prossimo film, cominciando ad assegnare i primi ruoli e fornendo i vari copioni. Improvvisamente veniamo trasportati negli anni ’70, all’interno di una sartoria che si occupa prevalentemente di costumi per teatro e cinema. A capo della sartoria in questione ci sono due sorelle, Alberta e Gabriella Canova (Luisa Ranieri e Jasmine Trinca), per le quali lavora un nutrito gruppo di donne. Tra chi si occupa di tingere le stoffe a chi le taglia, passando per chi le cuce e crea i modelli, tutte sono dedite alla propria occupazione, entusiaste e felici di lavorare insieme per progetti di prestigio. Se, però, possono contare l’una sull’altra sull’ambiente di lavoro, non possono fare lo stesso a casa dove ognuna sembra avere delle problematiche importanti. In questo senso anche i colori, sgargianti, luminosi e quasi magici, all’interno della sartoria, si incupiscono e scuriscono nel momento in cui ognuna di loro varca la soglia della propria abitazione. Tra chi deve fronteggiare problemi economici, a chi ha (o ha avuto) problemi con i figli, passando per chi ha a che fare con la violenza fisica, ogni donna diventa sola e fragile.

Un parterre di grandi attrici che si susseguono sullo schermo per dare vita a un abito, metafora del cinema stesso, dove ogni elemento diventa fondamentale per la buona riuscita del prodotto finale. Diventano necessarie le mani di ognuna delle protagoniste perché, come insegna Alberta all’inizio non esiste un io, esiste un noi. Eliminando anche un solo elemento il risultato finale non sarà mai lo stesso di quello pensato. Bianca Vega (la costumista premio Oscar interpretata da una Vanessa Scalera in stato di grazia) si (af)fida a queste donne che riescono, meglio di chiunque altro, a interpretare i suoi sogni, incarnati da dei bozzetti di costumi per un esigentissimo regista (Stefano Accorsi). Loro sono le uniche in grado di riuscire in un’impresa del genere perché, come i diamanti che andranno (metaforicamente e non) a comporre il maestoso abito finale, sono unite e sanno di poter contare l’una sull’altra. Ma sono anche diamanti intesi come qualcosa di prezioso, resistente e durevole al pari dello spirito femminile.

Al di là di mostrare situazioni purtroppo ancora attuali di disagio e difficoltà, le richieste da parte di alcune di loro (Paolina-Anna Ferzetti ed Eleonora-Lunetta Savino) di nascondere beni preziosi vanno oltre la semplice amicizia. Quella delle sorelle Canova è una sartoria basata sulla fiducia di tutte le donne che, volenterose, hanno deciso di lavorarci e dare anima e cuore al loro mestiere.

Se al centro ci sono le donne e la loro visione del mondo, Ozpetek ritaglia un piccolo spazio anche per alcuni uomini, rovesciando, però, i tradizionali cliché che li vedono in situazioni opposte a quelle mostrate dal film.

    Noi siamo collegate alle stelle, per quello sentiamo tutto.

Potrebbe essere la massima che riassume un film corale, dove, però, ogni personaggio è in grado di delinearsi perfettamente e concretamente, senza prevaricare su nessuno, ma mostrandosi completamente. Rappresentate e incarnate anche dai colori degli abiti che indossano (nella sartoria tutte uguali, ma fuori ognuna con il proprio eccentrico stile) le donne di questo film riescono a essere i perfetti pezzi di un puzzle il cui risultato finale è l’essenza stessa del cinema, come tenta di spiegare il regista con le sue apparizioni saltuarie e la sua conclusione, però non del tutto perfetta.


Veronica Ranocchi

sabato, gennaio 04, 2025

KRAVEN - IL CACCIATORE

Kraven – Il cacciatore

di J.C. Chandor

con Alessandro Nivola, Ariana DeBose, Russell Crowe, Aaron Taylor-Johnson

USA, 2024

genere: azione, sci-fi

durata: 127’

Sarebbe facile parlar male di un film come "Kraven - Il cacciatore", alla pari di altri usciti per conto della Sony, destinato a deludere le attese dei fan. Detto che ciclicamente generi e formati cinematografici, come succede a prodotti e forme d'arte, sono destinati ad attraversare alti e bassi non c'è dubbio che i film di Supereroi, dopo il clamoroso successo della trilogia degli Avengers, - culminata con il trionfo al botteghino di "Avenger: Endgame"-, stiano attraversando un momento di stanca, innanzitutto creativa, laddove la volontà di architettare una cesura tra il prima e il dopo, rappresentato dall'ultimo film dei Vendicatori, dando il via a un vero e proprio restyling di storie, attori e personaggi, non ha ancora dato i frutti sperati, tant'è che la "Casa delle idee" è tornata all'usato mettendo in cantiere un nuovo lungometraggio dedicato al super gruppo.

In acque peggiori versa la Sony i cui film - eccezion fatta per la trilogia di "Venom" - dedicati ai villain dell'Uomo Ragno hanno fatto di tutto per tenere i fedelissimi del genere lontani dalle sale. In tale contesto lo slittamento dell'uscita nelle sale di "Kraven - Il cacciatore", ultimo lungometraggio della casa di produzione giapponese rinviato di un anno rispetto alla data prevista non era stato certo un buon segno.

Certo è che film di J.C. Chandor ("Margin Call", "1981: Indagine a New York") si affidava a credenziali produttive già note non solo nella scelta di un regista/autore capace di bilanciare con uno sguardo "indipendente" la presenza dei cliché necessari alla riconoscibilità del format, ma anche a quella di coinvolgere nel progetto - come già successo in passato con Antony Hopkins, Michael Douglas, Harrison Ford e questa volta con Russell Crowe - icone cinematografiche incaricate di trasmettere al film un'appeal trasversale in grado di intercettare anche un pubblico più adulto. Al contrario, a interpretare il personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko nel lontano 1964 era stato chiamato Aaron Taylor Johnson ancora in cerca del ruolo della vita e qui chiamato a dare vita all'eccezionalità di un personaggio costretto dopo il suicidio della madre a fare i conti con un padre padrone (Crowe) che vorrebbe crescerlo a sua immagine e somiglianza e con il fratello più piccolo che per tale ragione ne patisce carisma e personalità.

Questo per dire di come "Kraven - Il cacciatore" avesse almeno in premessa l'intenzione di volare alto facendo dei legami di sangue e del dissidio tra padri e figli una specie di tragedia shakespeariana in cui l'azione doveva essere conseguenza di quei conflitti. Cosa che così non è perché a venire meno all'intento è proprio la personalità tormentata dei personaggi, troppo poco elaborata per creare una vera drammaturgia, e con la figura del diavolo, incarnata da un Russel Crowe ai "minimi termini", ridotta a comparsa quando invece avrebbe dovuto essere - anche nel fuori campo - il fantasma che aleggia sulla storia. In questo modo la differenza tra bene e male e l'abitudine del protagonista a oscillare tra i due antipodi diventa nella messinscena un fattore secondario (sebbene nel finale il fratello di Kraven ne ribadisca l'importanza), relegato a intermezzo narrativo tra una scena d'azione e l'altra.

Chiamato a raccontare l'adesione dell'uomo al suo alter ego e dunque, alla visione di un mondo diviso tra predatori e prede, la caccia di Kraven nel film di Chandor non riesce mai ad essere epica né a diventare avventura, anche per quanto riguarda gli effetti speciali, qui utilizzati in maniera tutt'altro che smagliante. Nati con la prerogativa di essere un'esperienza da consumare necessariamente in sala, i film Marvel di ultimissima generazione si sono trasformati in prodotti di stampo televisivo proprio per la mancanza di quell'immersione sensoriale che anche nelle regie più anonime - e quella di Chandor lo è - era in grado di dare senso al costo del biglietto. In questa ottica l'ennesimo tonfo al botteghino (uscito l'11 dicembre "Kraven - Il cacciatore" dopo una settimana non ha ancora superato gli 800 mila euro di incasso rispecchiando i risultati del box office americano) dopo quelli di "Morbius" e "Madame Web" potrebbe accelerare un'auspicata inversione di tendenza.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 21, 2024

MARKO POLO

Marko Polo

di Elisa Fuksas

con Elisa Fuksas, Lavinia Fuksas, Iaia Forte

Italia, 2024

genere: docufiction

durata: 78’

A metà strada tra finzione e realtà, Elisa Fuksas dà vita a Marko Polo, film che racconta (o almeno prova) il viaggio che lei, insieme alla sorella, alla sceneggiatrice e a una figura pseudo misteriosa, compie per arrivare a Medjugorje.

È la stessa regista a introdurre la storia spiegando come il film che stava preparando sia stato interrotto e come lei si sia trovata, in qualche modo, costretta a girare questo per raccontare quella che lei a volte definisce conversione, ma che è semplicemente la sua decisione di diventare cattolica.

Credere in qualcosa è cercare di stare.

Un assunto importante alla base della storia che prende il nome dalla nave che dovrebbe trasportare i protagonisti verso la loro destinazione, fisica, ma anche metaforica.

Con uno stile unico e una serie di sperimentazioni a livello registico la Fuksas ci immerge completamente in questo viaggio facendoci diventare il quinto personaggio che viaggia insieme a loro, tra fragilità e punti di forza. Al procedere della loro traversata si alternano delle interviste fatte ad alcuni personaggi a proposito della religione, il grande tema al centro del lavoro di Elisa Fuksas. Le risposte sono le più disparate e fanno tornare al discorso del documentario, a differenza di quanto invece fanno le (dis)avventure dei protagonisti, tra una sorella talvolta ingombrante, una sceneggiatrice che decide di non pronunciare più alcuna parola e un personaggio che, in parte, dovrebbe richiamare la coscienza, ma che, in realtà, sembra quasi essere un omaggio/citazione, a metà strada tra il Grillo Parlante di Pinocchio e l’Armadillo di Zerocalcare.

Se prendiamo per vero che Successo e fallimento possono essere la stessa cosa, come ci suggerisce la stessa regista e protagonista, comprendiamo bene l’intento di un documentario tanto reale quanto ironico. Ogni punto di vista è unico in una continua sperimentazione e mescolanza di generi, definizioni e certezze.

Alla base di Marko Polo è indubbio che ci sia il discorso relativo non tanto alla fede quanto alla credenza e al credere in generale. Credere in sé stessi, credere negli altri, credere nei propri mezzi e credere in qualcosa di altro e di indefinito.

Credere è come avere due sguardi.

E la Fuksas ci mette abilmente di fronte a entrambi. In un esperimento nel quale si respira metacinema, anche noi spettatori ci domandiamo costantemente chi siamo e cosa stiamo vedendo. Il dubbio che quello che ci viene mostrato sullo schermo sia reale o frutto della sua o della nostra immaginazione aleggia sul pubblico per tutta la durata, seppur breve, del film. A suggellare, poi, tutto quanto il disvelamento della maschera, la risposta alle mille domande che sorgono spontanee fin dall’inizio.

Seppur nella sua sperimentazione e nella sua (voluta) imperfezione Marko Polo riesce a trovare un modo per tenere insieme i pezzi e regala più di una riflessione allo spettatore, spaesato, disilluso e spaventato, costretto a lasciare la sala con più domande che risposte.


Veronica Ranocchi

mercoledì, novembre 20, 2024

EN FANFARE

En fanfare

di Emmanuel Courcol

con Benjamin Lavernhe, Pierre Lottin, Sarah Suco

Francia, 2024

genere: commedia, drammatico

durata: 103’

Thibaut è un maestro d’orchestra, ma ha la leucemia. Da questo incipit si sviluppa un film che, pur con toni drammatici, racconta, in realtà, una storia di riappacificazione, senza indorare troppo la pillola, ma concentrandosi soltanto su determinati aspetti.

Perché, come suggerisce il titolo originale, En fanfare non è solo il modo in cui viene presentata e suona la banda di un paese, ma è anche l’approccio che il protagonista, o meglio i protagonisti, hanno riguardo la loro vita.

Thibaut è un maestro d’orchestra che improvvisamente sviene durante una delle innumerevoli prove con la sua banda. Scopre di avere la leucemia e di avere bisogno di un’importante donazione. Fortunatamente ha una sorella che riduce le probabilità di trovare un donatore compatibile a pochissimo. Peccato che Sara non sia la sorella di Thibaut, o meglio che Thibaut non sia il fratello di Sara perché adottato prima che lei nascesse. Così scopre di avere un fratello che può davvero aiutarlo con il trapianto e al quale decide di dedicarsi anima e corpo per ricompensarlo del grande gesto altruista compiuto. Ma Jimmy non sembra essere d’accordo. Jimmy, che conduce una vita completamente diversa da quella del fratello non vuole aiuto da nessuno, meno che mai da Thibaut. L’unica cosa che vuole è dedicarsi alla musica.

Definire En fanfare o soltanto un dramma o soltanto una commedia sarebbe ed è limitativo e limitante. Perché il film di Emmanuel Courcol va oltre e utilizza lo stratagemma della musica per mettere d’accordo tutti. Non solo i protagonisti, ma anche gli spettatori restano affascinati da quello che è un linguaggio universale e che può dire molto di più rispetto alle parole.

Così diversi eppure così simili, Thibaut e Jimmy hanno un approccio completamente diverso nei confronti della vita e del mondo che va di pari passo con quello che hanno (e che portano) con la musica. Se da una parte c’è il grande maestro d’orchestra che inizia a riflettere sulla propria esistenza, sulla propria fortuna e sulla propria condizione, a tratti privilegiata, dall’altra c’è il direttore della banda musicale che, dal canto suo, ha “solo” un grande talento, ma non gli stessi privilegi di un fratello fino a quel momento mai conosciuto.

Bisogna avere ambizione nella vita.

E la chiave del successo di En fanfare forse è proprio questa. Un’ambizione che, oltre a “seguire” i protagonisti, è rincorsa anche dalla regia e dalla sceneggiatura. Rischiando di perdersi nei meandri delle tante tematiche che si susseguono una dopo l’altra sullo schermo, la commedia francese, presentata prima in concorso al Festival di Cannes e poi nella sezione Best of della Festa del cinema di Roma, riesce sempre a ritrovare la retta via. Tra ostacoli e peripezie riesce a fondere alla perfezione tutti gli elementi che lo compongono, proprio come una vera orchestra, nella quale nessun elemento è lasciato al caso, ma tutto è necessario per il corretto equilibrio.

Dalla figlia di Jimmy alla nuova fiamma, passando per il ruolo tutt’altro che secondario della presunta sorella di Thibaut. Ogni pezzo del puzzle risulta necessario e indispensabile e, quindi, sviluppato, senza essere dimenticato per strada.

Comprendendo fin dall’inizio le problematiche che la vita di tutti i giorni può comportare, En fanfare sembra suggerire il ruolo salvifico della musica, destinata a ricucire qualsiasi tipo di strappo e ferita. Che sia un’orchestra o una banda cittadina, le note che fluttuano nell’aria hanno un impatto superiore rispetto a qualsiasi altra cosa. Al pari di un abbraccio o di una parola di conforto, la musica diventa il collante unico e solo di un vero e proprio inno alla vita.


Veronica Ranocchi

venerdì, novembre 15, 2024

FINO ALLA FINE

Fino alla fine

di Gabriele Muccino

con Elena Kampouris, Saul Nanni, Lorenzo Richelmy

Italia, 2024

genere: drammatico, thriller

durata: 118’

Che Gabriele Muccino avesse gli strumenti in regola per fare bene nel cinema americano lo avevamo capito prima che il regista sbarcasse a Hollywood per girare la sua prima produzione internazionale. A farcelo pensare era stato soprattutto lo smalto luccicante delle immagini e la capacità della macchina da presa di creare l'illusione di un continuo movimento laddove le storie si presentavano per lo più impantanate nella rabbia e nelle disillusioni generazionali dei suoi personaggi. Dopo lo sbalorditivo debutto coinciso con l'inaspettato successo di "La ricerca della felicità" e il connubio con la star del momento, quel Will Smith con cui Muccino girò anche il meno fortunato "Sette anime", il percorso americano del nostro ebbe come contraccolpo un prosieguo non altrettanto felice che, dopo qualche anno, lo riportò ai nostri lidi.

A quell'esperienza Muccino dimostra di non aver mai smesso di pensare se è vero che dopo aver trovato il modo di tornare negli Stati Uniti per girare "L'estate addosso", oggi rinnova la sua voglia d'Oltreoceano attraverso un film - "Fino alla fine" - che sembra una sorta di dichiarazione d'amore a un mondo bello e (im)possibile come quello del cinema hollywoodiano. Per farlo però decide di compiere un viaggio opposto a quello del 2016, a partire dall'inversione di sguardo che fa dell'Italia - e non dell'America - la terra promessa e di un personaggio americano, Sophie (interpretata dall'atletica Elena Kampouris), la protagonista della storia. Ma c'è di più, perché Muccino nel cercare di mescolare le due culture, la nostra e quella anglosassone, si sbilancia a favore della seconda, riferendosi in particolare alla letteratura di Henry James del quale ripropone il modello della Young American Woman la cui voglia di libertà e d'indipendenza si esplica come da tradizione in un contesto attraente ma subdolo rappresentato dal Vecchio Continente, da sempre sinonimo di un altrove che, nel romanziere americano, è indicato più di altri come quello capace di mettere a rischio l'identità e i valori del paese a stelle e strisce.

In questo senso la trama di "Fino alla fine" appare finanche paradigmatica nel fare di Sophie l'eroina destinata a rimanere coinvolta nel giro di vite che trasformerà la sua vacanza a Palermo in un vero e proprio incubo. Quintessenza del salutismo americano e dell'idea fresca e vitale dell'America costruita a colpi di spot pubblicitari, Sophie segue il percorso che ci si aspetta da un personaggio come lei, a cominciare dalla fascinazione subita nei confronti di un paesaggio esotico e sensuale, per proseguire con l'innamoramento nei confronti di un giovane bello e pericoloso (per il gruppo di amici che frequenta) e finanche per quello spirito  vitale e primitivo su cui il cinema statunitense ha costruito il mito della nuova nazione.

Se la "cartolina" siciliana più tradizionale è coerente alla visione che hanno gli americani del Bel paese, più interessante è la versione notturna di Palermo, quella che introduce il cambio di passo e dunque il passaggio da quello che sulle prime sembrava essere una commedia drammatico-sentimentale, dai tempi di "Come te nessuno mai" marchio di fabbrica del regista romano, a una vera e propria crime story, con Sophie coinvolta da Giulio (Saul Nanni, apprezzato in "Brado" di Kim Rossi Stuart) e dai suoi amici negli affari della malavita locale.

Nel genere crime Muccino debutta senza farsi mancare nulla in termini di ritmo e tensione, con furti, inseguimenti, sparatorie e bagni di sangue che mescolano elementi di sottogeneri come l'heist movie e il mob movie per dare vita a un "cuore di tenebra" che omaggia ancora una volta l'immaginario del cinema americano citando il superomismo di "Point Break" e la corsa ostacoli all night long che rimanda nientedimeno che al celebre "I guerrieri della notte" di Walter Hill. Un immaginario, quello appena descritto, che il regista gestisce con l'intento di non perdere la propria identità e nell'ambizione di arricchire il proprio bagaglio drammaturgico con qualcosa di mai sperimentato. Nel farlo mantiene intatto il suo stile, e cioè quello di una narrazione supportata dalla capacità di saper far correre immagini alimentate da un carburante emotivo altamente incandescente: il che andrebbe anche bene se non fosse che il contatto con una materia a elevato voltaggio, per le fibrillazioni prodotte quando si tratta di rischiare la vita, prevederebbe soluzioni capaci di abbassare la tensione. Il fatto che questo non succeda comporta passaggi in cui l'isteria mucciniana sommandosi all'andamento survoltato tipico del genere provoca un'overdose emozionale che finisce per togliere forza ai momenti topici del film. Tutto questo al netto di un film che ha comunque dalla sua quella di saper intrattenere i "suoi" spettatori.


Carlo Cerofolini

(recensione pubblicata su ondacinema.it)

giovedì, novembre 14, 2024

ETERNO VISIONARIO

Eterno visionario

di Michele Placido

con Fabrizio Bentivoglio, Valeria Bruni Tedeschi, Federica Vincenti

Italia, 2024

genere: drammatico, biografico

durata: 112’

Il legame tra l'autore di un film e la materia narrata può essere la conseguenza di diversi ragionamenti. Alcune volte può capitare che il regista senta il bisogno di mettere in scena sé stesso, senza alcun infingimento, spinto da un'urgenza di realtà che non può essere in nessun modo procrastinata; altre invece, in cui gli elementi personali investono lo schermo opportunamente trasfigurati, nella necessità di mettere la giusta distanza da un argomento che può essere troppo doloroso e che per questo necessita di un determinato grado di finzione. Pensiamo alla filmografia di Nanni Moretti in cui il sospetto di un certo autobiografismo diventa a un certo punto palese quando dopo una serie di pellicole incentrate su Michele Apicella, possibile alter ego del regista, abbiamo due lungometraggi come "Caro Diario" e "Aprile" in cui è lo stesso Moretti nella parte di sé stesso a raccontare vicissitudini e punti di vista della sua vita privata.

In questo ragionamento un film come "Eterno visionario" si pone agli antipodi di quelli appena citati, tanto la presenza di una messinscena forte sembra essere lì per creare un separé tra elementi di similitudine o qualsivoglia collegamento tra Luigi Pirandello e il regista, Michele Placido: il quale, giunto al suo quattordicesimo film, decide di raccontare il drammaturgo siciliano come non era stato mai "visto", ovvero facendo del privato del protagonista il proscenio dove assurgono a vita e si giustificano le ossessioni e la poetica dei romanzi e delle pièce teatrali. Invece che relegarlo a un riempitivo popolato da personaggi pensati come funzioni narrative o come semplici appendici del racconto, lo spazio famigliare prende vita attraverso una drammaturgia che di moglie e figli fa i veri teatranti all'interno del film. Placido ne dà legittimazione nell'immagine finale in cui la natura onirica del contesto, quando i familiari e Marta Abba - musa e attrice nella quale Pirandello trovò una platonica via di fuga ai propri tormenti esistenziali -, radunati attorno alla salma di Pirandello per un ultimo saluto, sembrano svelare la loro doppia natura, quella di esseri umani in carne e ossa e allo stesso tempo proiezioni fantasmatiche dei personaggi che hanno popolato le opere dello scrittore.

Seguendo questo pensiero non solo la sovrapposizione tra arte e vita raccontata in "Eterno visionario" è un tema comune a Placido, così come a tutti quegli autori che hanno provato a raccontarlo per averlo sperimentato sulla propria pelle, ma diventa particolare nell'analogia che vede il regista alle prese con dei figli (Violante, Brenno e Michelangelo Placido) che allo stesso modo di quelli di Pirandello hanno intrapreso la carriera artistica sapendo di avere come metro di paragone la carriera di un padre così famoso.

"Eterno visionario" è un film di Michele Placido anche nella continuità con cui il regista, a partire da "Un eroe borghese", ha deciso di rileggere la storia italiana attraverso altrettanti biopic dedicati a figure divorate dalle proprie ossessioni, eppure in grado di attraversare il limite fino a essere precursori (non solo Caravaggio ma anche Renato Vallanzasca nel suo campo lo fu) del proprio tempo. Per non dire delle lunghe e continue frequentazioni pirandelliane avute da Placido nel corso della sua carriera teatrale.

Da questo punto di vista la riuscita di "Eterno visionario" va oltre la puntualità delle interpretazioni - oltre a quella di Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, bravi a dar vita alla follia del ménage matrimoniale, si distingue anche Federica Vincenti nel ruolo della Abba - trovando motivo di interesse in funzione didattica per la capacità di raccontare con chiarezza e semplicità i meccanismi dell'arte e in particolare quelli che riguardano la genesi dell'opera come pure di ragionare e far pensare alle similitudini tra la teatralità dell'arte e quella  della vita. Caratteristiche queste che hanno come rovescio della medaglia il rischio di una sintesi che deve dare conto di troppe cose (a cominciare dall'opera omnia di Pirandello) e che così facendo ogni tanto trasforma la divulgazione in un racconto didascalico. Come succede quando "Eterno visionario" riflettendo sulla modernità dell'opera del drammaturgo siciliano lo fa attraverso una serie di stereotipi (l'omosessualità, il travestitismo) che esplicano il tema senza riuscire ad approfondirlo. Ciò detto "Eterno visionario" è una delle opere migliori del regista pugliese e comunque all'altezza dell'amore sempiterno di Placido per il suo protagonista.


Carlo Cerofolini

(recensione già pubblicata su ondacinema.it)

lunedì, ottobre 28, 2024

LA PIE VOLEUSE

La pie voleuse

di Robert Guédiguian

con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Daourroussin, Gérard Meylan

Francia, 2024

genere: commedia

durata: 96’

Ancora una volta c’è Marsiglia quando si parla di Robert Guédiguain che, tracciando al meglio il suo cinema e avvalendosi di quelli che sono ormai i suoi attori feticci, realizza un ennesimo spaccato di vita (francese). Stavolta il film è La pie voleuse, presentato nella sezione Grand Public della Festa del cinema di Roma.

Un inizio concitato, tra il treno in movimento e quello che è a tutti gli effetti un furto, o almeno un presunto tale, al quale il regista francese ricorre per introdurre la storia, senza poi tornarci nello specifico. Non ci interessa sapere chi sono i rapinatori e cosa volevano. A interessarci sono le vite quotidiane di una serie di persone, tutte (o quasi) che ruotano, per un motivo o per un altro, attorno a Maria, donna delle pulizie (e all’occorrenza badante) di alcuni anziani nei dintorni di casa. Ma Maria non ha solo i suoi amici da badare e sistemare. Ha anche un marito a cui piace giocare, soprattutto soldi che puntualmente perde; ha una figlia sposata con un marito molto spesso assente a causa del suo lavoro e un nipote al quale vuole regalare il miglior futuro possibile e che vede già come un pianista affermato. Purtroppo, però, il costo di un pianoforte e delle lezioni è molto alto, tanto che né i genitori né i nonni possono permetterselo. Ma Maria, per aiutare figlia e soprattutto nipote, pensa di escogitare un piano perfetto e avere quei soldi necessari per coltivare il talento del più piccolo.

A differenza di altri suoi film, anche più metaforici o comunque con una morale diversa, La pie voleuse tratteggia quella che è la quotidianità e come essa può subire un cambiamento, anche importante, da un momento all’altro.

Le persone con cui si litiga sono quelle che si amano davvero.

E di litigi in questo film ce ne sono, ma per fortuna ci sono anche (nuove) riappacificazioni. Un intreccio continuo di relazioni che iniziano, finiscono e si mescolano tra loro per dare vita a nuovi legami, più o meno forti dei precedenti.

Al pari dell’inizio, improvviso e inaspettato, anche lo sviluppo della storia rompe un apparente equilibrio per crearne un altro. Come la pie voleuse del titolo (che richiama sia il negozio di musica dove viene acquistato il pianoforte sia l’agire, seppur a fin di bene, della protagonista), anche il ritmo, al pari di un ladro, si trova costretto a rubare qualcosa. È come se la storia si fermasse per concentrarsi sui legami dei personaggi. E se può apparire improvvisa la relazione tra due personaggi completamente agli antipodi, quello che in realtà vuole proporci Guédiguain è la possibilità di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Una diversa prospettiva legata anche al fatto che sono le generazioni a cambiare e che il male di alcuni può ricadere sul futuro, ma spetta poi a questo futuro cercare una via di fuga. E se, però, anche i figli cadono negli stessi errori e negli stessi errori dei genitori?

In questo modo il regista strizza l’occhio, come da sempre ama fare con il suo cinema, a una realtà sempre più vicina alla finzione straripante delle tante opere artistiche. Il regista francese filma una verità passata, ma anche presente, in netta contrapposizione, entrambe incarnate perfettamente dai personaggi, come se fossero schierati in due fazioni: da una parte i genitori, nello specifico Maria, che cerca in maniera quasi ossessiva di realizzarsi, anche attraverso gli altri, e dall’altra Jennifer, la figlia sempre attenta e prudente. Alla fine, però, nessuno prevarica sull’altro, non viene elogiato uno per affossare l’altro e non vengono dati giudizi. Non ci sono né vincitori né vinti, ma c’è la consapevolezza (e la speranza) di poter dare un’altra possibilità e fare in modo che si esca dalla sala cinematografica rinfrancati e rigenerati dall’atmosfera, complici fotografia e colori, sempre positiva dell’autore francese.


Veronica Ranocchi

domenica, ottobre 27, 2024

PARTHENOPE

Parthenope

di Paolo Sorrentino

con Celeste Dalla Porta, Silvio Orlando, Dario Aita

Italia, 2024

genere: drammatico

durata: 136’

Un’ode a Napoli è quello che ha ripetuto più e più volte Paolo Sorrentino nel presentare e promuovere il suo Parthenope

“Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto”.

È con questa frase, e con le meravigliose immagini di una Napoli quasi magica e onirica, che si apre l’ultima fatica del regista partenopeo. In qualche modo è un primo tentativo di Sorrentino di invitare lo spettatore a immergersi completamente in un’opera tanto reale quanto immaginata e sperata, un’opera vera e autentica, ma al contempo onirica e a tratti utopistica.

Quella che sentiamo è la voce di una donna che vediamo solo di spalle da un terrazzo. Poi improvvisamente siamo catapultati nel 1950, nel momento in cui viene data alla luce Parthenope, sorella minore del tormentato Raimondo. Velocemente arriviamo al 1968, più precisamente alla maggiore età della protagonista, per poi percorrere alcuni anni densi e intensi di avvenimenti. Tra incontri con personaggi particolari, studi universitari in antropologia e una maggiore consapevolezza di sé, dopo aver compreso le difficoltà della vita, Parthenope si mostra e si racconta in una serie di ricordi che rievocano, inevitabilmente, una Napoli che è la sua stessa incarnazione. 

“Io non so niente, ma mi piace tutto”.

Una delle tante frasi a effetto che Sorrentino inserisce nel film (e nei suoi film in generale), ma anche una delle tante frasi a effetto di cui sono impregnati i film più classici, come ci ricorda più volte la giovane Parthenope che, per un breve periodo, sogna di diventare attrice perché “gli attori nei vecchi film hanno sempre la risposta pronta”.

Quello che fa un’incredibile esordiente come Celeste Dalla Porta nel corso del film è guidarci all’interno del suo mondo (e) quello di Napoli. Se da una parte vediamo una ragazza, a volte tormentata, a volte sicura di sé e determinata a conoscere nuove sfumature, dall’altra vediamo anche il suo corrispettivo, una Napoli elegante, silenziosa, quasi magica, con la sua eccentricità e la sua unicità. Perché Napoli (e Parthenope) è quello che dice la Greta Cool di Luisa Ranieri (per la quale i riferimenti si sprecano), ma è anche molto di più. 

Perché Sorrentino ci guida, tramite la sua protagonista, sia in una storia di crescita, d’amore, d’accettazione e di consapevolezza, ma più di tutto ci guida nella sua Napoli, quella che nasconde al suo interno delle perle di rara bellezza, siano esse una carrozza, un figlio tanto grande quanto tanto adorato o un miracolo, quello di San Gennaro, elevato ormai non più a credenza popolare, ma a consapevolezza nazionale.

“Sei bella e indimenticabile”. Tutto è al contempo materialità e astrattismo. La bellezza vera, giovane, fresca e corporea di Parthenope è esattamente identica alla bellezza universale e immutata di Napoli che, complice il mare, il paesaggio e una fotografia che propone immagini perfette, è veramente indimenticabile per chiunque, dallo spettatore al più fragile dei personaggi destinato a rimanere inerme e indifeso nei confronti di un futuro per lui irraggiungibile, forse perché nel suo silenzio aveva già compreso tutto.

Ogni inquadratura può essere considerata un quadro per come è congegnata, alla Sorrentino, e proprio per questo, nasconde molto più di quello che si può immaginare. Dalle tematiche care al regista allo sviluppo di uno sguardo sempre più deciso e preciso, si passa con disinvoltura alla conoscenza di personaggi eccentrici nella loro normalità e normali nella loro eccentricità (dalla Flora Malva di Isabella Ferrari, celata da un velo nero che vuole coprirle un volto ormai fin troppo deturpato a un Devoto Marotta al quale presta il volto Silvio Orlando, professore universitario che invita a vedere e non a guardare, con un metodo di insegnamento tutt’altro che convenzionale, senza dimenticare l’omaggio a John Cheever di Gary Oldman).

“Quando sai tutto muori triste e solo”.

È quasi impossibile non scrivere di Parthenope partendo e parlando attraverso frasi e citazioni che si inseguono durante tutto il film. E forse, proprio in linea con quest’ultima, è meglio non scardinare troppo un film che poggia le sue solide basi su una visione reale eppure onirica di un mondo che, alla fine, appartiene un po’ a tutti, basta solo riuscire a vederlo.

Prendendo in prestito temi cari al cinema di Sorrentino e volti ormai diventati iconici grazie a lui, il regista napoletano disegna un film anche sulla sua pelle, seppur in maniera minore rispetto al precedente È stata la mano di Dio, ma provando comunque a raccontarsi in un modo in cui solo lui riesce a fare.


Veronica Ranocchi