Mi piace andare al cinema.
Nonostante il grande televisore nuovo che troneggia in salotto e un catalogo di dvd d’autore imponente (ormai la tv chi la vede più?) ovviamente vedere un film a tutto schermo ha un altro fascino.
Mi piace andare al cinema, anche da sola.
Spesso, nei miei pomeriggi liberi, raggiungo il cinema qui vicino, una multisala che fa sempre film carini. Quando aprì, questo cinema trasmetteva per lo più pellicole commerciali, stile cinepanettoni e così via, poi i gestori devono aver capito che c’è un sacco di gente in giro che ama il buon cinema, e hanno cambiato decisamente genere.
Un paio di settimane fa sono riuscita a vedere Soul Kitchen, poco prima che lo togliessero dalla programmazione: ormai si deve tener conto che un film difficilmente regge più di tre settimane, due se ha poco successo, per cui bisogna sbrigarsi a vederlo, altrimenti si aspetta che esca in dvd.
Soul Kitchen è quello che annuncia la locandina: una commedia briosa e colorata, piena di personaggi un po’ folli e strampalati, ambientata in un ristorante sgangherato, in cui i sapori speziati della cucina mediterranea si mescolano ai colori grigi e spenti di una anonima e fatiscente periferia di Amburgo in una ratatouille saporita e piccante, il tutto condito da una colonna sonora frizzantina, un misto tra rock anni Settanta, musica greca, funky, disco e soul.
Molti dei foodblogger si sono cimentati nelle ricette del geniale e folle Birol (che finirà in un circo a fare il lanciatore di coltelli), piatti dai nomi strampalati come i protagonisti del film, tipo Festosa schiuma di Venere su un letto Soul di Uva passa e la Zuppa del Maestro di Agopuntura. Questa commistione tra cinema, ricette e blog sta diventando sempre più di moda, seguendo un filo che va da Chocolate al Pranzo di Babette fino ai recenti Julie&Julia e Ratatouille.
Poi sono andata a vedere Baciami ancora, visto che L’ultimo bacio, insieme a La finestra di Fronte, Le Fate Ignoranti e Pane e Tulipani è tra i miei film italiani preferiti (lo so, lo so che ammettere di non disprezzare Muccino fa poco intellettuale, ma la malinconia di quel film, soprattutto della parte finale, mi ha fatto piangere come una fontana, che ci posso fare?).
Tra l’altro ci sono anche degli attori che mi piacciono in maniera particolare, come Claudio Santamaria e Pierfrancesco Favino, per cui sono andata a vederlo volentieri. Devo ammettere che era difficile emulare il primo, ed infatti siamo abbastanza lontani dalla freschezza del precedente. Ci sono dei film che ti colpiscono per la autenticità di quello che raccontano: forse perché toccano delle corde sensibili dentro di noi, perché raccontano di qualcosa che abbiamo provato, perché riusciamo ad immedesimarci con i protagonisti, ci specchiamo nei loro drammi e nelle loro emozioni.
Però il film non ha toccato quasi niente, dentro di me. La recitazione è sempre un po’ sopra le righe, sul filo dell’isteria, e alla fine risulta ripetitiva, i tira e molla tra i protagonisti delle storie sono leggermente sfiancanti, tutta questa generazione di quarantenni ( cioè la mia) troppo incasinata, urlante e nevrotica per essere realistica.
E poi, dico, ma avete notato l'ambiente in cui si muovono tutti i protagonisti?
Case grandi con stanze ampie, finestre enormi, mobili chic, quadri d’autore, della serie anche i ricchi piangono…ce ne fosse uno che vive in un bilocale in periferia, con una utilitaria vecchiotta parcheggiata sotto casa, mobili d’Ikea e le mattonelle della cucina un po’ sbreccate e come problema maggiore quello di arrivare a fine mese… scusate se mi fanno poca pena, ma i veri problemi sono altrove, i veri guai della vita hanno ben altro colore e consistenza, rispetto a questo mondo patinato che ci descrive Muccino, con i suoi quarantenni arrabbiati e confusi perché la vita non è una favola meravigliosa, un mondo dorato in cui tutti sono belli e felici, l’amore è eterno e la famiglia è l’immagine bucolica stile Mulino Bianco.
Il mondo è un po’ più sporco e cattivo di come ce lo descrive il regista.
Provate a guardarvi un film di Ken Loach (In questo mondo Libero, Bread and Roses) o di Mike Leigh (quello di Segreti e Bugie), storie di persone vere, che ti colpiscono allo stomaco come un macigno, che ti lasciano dentro il sapore amaro della disillusione, della sconfitta, di chi riesce a malapena a sopravvivere, e magari nonostante tutto riesce ancora a cogliere la poesia, anche in un grigio condominio di cemento disperso in una squallida periferia industriale.
Lo stesso discorso vale per La prima Cosa bella , visto appena due giorni fa. Non amo Paolo Virzi in maniera viscerale, ma ho apprezzato moltissimo alcuni suoi film, in particolar modo Tutta la Vita davanti, forse il suo lavoro più maturo e arguto.
Questo mi ha lasciato un pizzico di irresolutezza, anche se gli ingredienti per piacermi ci sarebbero tutti.
Accorsi i due figli al capezzale dalla madre morente, la storia si snoda tra i colori caldi dei primi anni settanta filtrati dai loro occhi di bambini e i giorni nostri, giorni in cui le cicatrici e le traversie del passato pesano ancora sulle vite dei protagonisti e ne determinano il corso: persone ferite e sole che non riescono a perdonare e ad elaborare avvenimenti dolorosi come la vita disordinata, errabonda al seguito di una mamma bellissima, affettuosa e immatura, persa tra il rincorrere il sogno di fare l’attrice ed una squallida realtà fatta di alloggi di fortuna, espedienti per sopravvivere e una girandola di amanti, in fondo tristi anche loro, da cui si fa mantenere.
Donna fragile, ingenua e forte insieme, da una parte vittima di una società ipocrita che non le perdona di cercare una vita altra, di rifiutare il suo ruolo di moglie devota e sottomessa ad un marito violento per inseguire i suoi sogni, ed insieme carnefice, capace di far subire ai figli la mancanza del padre, di una famiglia stabile, di una vita piena di amore ma non di certezze.
L’imminente morte della madre rimette in gioco tutto, rimorsi e rimpianti, dolori che si pensavano dimenticati ed invece sono solo assopiti,e la malinconia dei ricordi si mescola alla commedia con un pizzico di agrodolce, di tristezza ed ironia incarnati al meglio da un grandissimo Valerio Mastandrea, attore che si sta ritagliando sempre più un ruolo particolare nel cinema italiano per la scelta dei personaggi e la profondità, dolorosa e lieve insieme, con cui li interpreta.
Anche i due piccoli attori che interpretano i figli da piccoli sono bravissimi, raro trovare bambini che recitano con tanta naturalezza dei ruoli così difficili, al contrario di tanti piccoli attori saccenti e artefatti che popolano le nostre televisioni.
Però, come ho detto prima, la commozione è stata minore di quanto mi aspettassi (sono andata munita di fazzoletti, secondo le indicazioni della mia amica Marta): forse la recitazione di alcuni personaggi che non mi ha convinto del tutto (per esempio l’attrice che interpreta la madre da giovane, sempre un po’ sopra le righe, troppo svampita per essere vera), o personaggi di contorno poco caratterizzati, oltre ad un salto temporale eccessivamente ampio tra una scena e l’altra, i bambini diventano improvvisamente adolescenti fatti, senza raccontarci quello che è successo nel frattempo.
Insomma, è mancato un pizzico di commozione più profonda che non avrebbe guastato…
Aspetto le vostre opinioni in merito, voi che ne pensate?
I miei viandanti
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venerdì 26 febbraio 2010
venerdì 16 ottobre 2009
Adolescenti confusi e ribelli: Cosmonauta
Ed ecco un altro film che parla degli anni Sessanta e dei profondi cambiamenti avvenuti nella società, ma raccontato in un modo completamente diverso da come ha fatto Placido nel suo il Grande Sogno. Anche qui c’entrano i giovani e c’entra la politica, ma in questo piccolo, delicato film, è l’ironico sguardo femminile (la regista è Susanna Nicchiarelli) che racconta le disavventure di una goffa adolescente comunista: e siamo nel 1963, prima dell’atterraggio americano sulla Luna, e prima delle grandi lotte del ’68, un’epoca che sembra vicina ma anche irrimediabilmente lontana, allo stesso tempo.
Quando siamo arrivati al cinema, leggermente in ritardo, le luci erano già basse e, strisciando tra le file di poltrone, abbiamo visto le prime immagini di animaletti in plastilina: ci siamo seduti, aspettando il film, quasi incerti se avessimo sbagliato sala.
In effetti gli animali (due cani, una gabbia di topolini, un gatto, una ragna e altri esserini pelosi) in missione dentro una navicella spaziale aveva sì a che fare col titolo del film, ma possibile che il film fosse proprio quello? No, in realtà si trattava di un piccolo cortometraggio animato, della stessa regista del film…animazione non finissima (se l’avessero commissionata agli animatori di Shaun the Sheep si sarebbe ottenuto ben altro risultato) ma d’effetto, questa minuscola storia di animali sovietici catapultati nello spazio, tutti fieri di essere gli sperimentatori della prima missione spaziale della Grande Madre Russia, non importa se destinati forse, a loro insaputa, ad una fine terribile: i topolini che saltano nella gabbia cantando l’inno nazionale è una delle chicche da non perdere.
Comunque, il film inizia poco dopo, e veniamo subito catapultati negli anni Sessanta, ad una comunione: il sogno di ogni bambina anche della nostra generazione ( il vestito di organza e tulle, il velo, la borsetta a forma di cuore, chi di voi non ci ha palpitato sopra?) ma Luciana, prima di arrivare all’altare, scappa a gambe levate, con vestito di organza e tutto, per andare a rifugiarsi in bagno e gridare alla madre che non vuole fare la comunione perché comunista.
Luciana è così, arrabbiata e inquieta già da bambina: viene da una famiglia piccolo borghese della borgata del Trullo, il padre comunista e morto giovane, la madre (Claudia Pandolfi) graziosa e fragile, che trova più facile aggrapparsi al primo uomo che le offre una spalla, e non importa che sia tutto il contrario del marito morto (tanto comunista il primo quanto fascista e autoritario il secondo: lui è Sergio Rubini, non nuovo a queste parti di uomo cinico), basta che le assicuri una vita familiare regolare, una casa e un’apparenza di normalità, anche se normalità significa non avere un’opinione propria e spazzare le proprie idee sotto il tappeto, come ogni brava mogliettina dovrebbe fare, in una società in cui le donne non sono ancora scese in piazza a manifestare per i loro diritti.
Luciana è grassottella, complessata ma di carattere ribelle, confusa ma determinata a non lasciarsi sopraffare, arrabbiata contro una madre dalla figura evanescente da cui cerca di differenziarsi, e con un fratello maggiore epilettico che cerca di proteggere, ma che spesso si rivela un peso da cui non riesce a liberarsi. E’ proprio il mondo immaginario del fratello, con la sua passione per le imprese spaziali russe e per l’Unione Sovietica, il tema ricorrente del racconto e che presta il titolo, Cosmonauta, al film.
E’ difficile essere adolescenti negli anni Sessanta, difficile ancor di più essere una ragazza adolescente in una società maschilista anche se, forse, ancora più difficile esserlo in cui tempi bui e cinici come i nostri. Almeno allora c’erano delle regole contro cui ribellarsi, c’era una società contro cui protestare e tentare di smarcarsi: oggi mi pare che chi si ribella lo fa contro il nulla, perché tutti i parametri e i valori sono saltati, e i nostri ragazzi sono contro a prescindere, in una lotta insensata e cieca in cui noia e ignoranza – e non più desiderio di essere altro, di vivere in un mondo alternativo – sono l’unica molla che li spinge ad infrangere regole e buonsenso, a passare sopra tutto e tutti come un bulldozer.
Luciana si sente diversa dalle sue amiche, tutte carine, vestite da signorinelle, già alle prese con la corte di ragazzi brufolosi e in piena tempesta ormonale.
Lei, bruttina ma intelligente, originale e fuori dalle regole ma suo malgrado, passa i pomeriggi alla sezione giovanile del Partito Comunista di quartiere, dove suo padre era benvoluto e dove tutti i giorni si riunisce un gruppetto di ragazzi, ovviamente in prevalenza maschi.
E qui si illude di trovare un mondo migliore, un mondo in cui venire considerata non in quanto donna e non in base al suo aspetto, ma è un’illusione, il conformismo e i valori che aleggiano fuori sono gli stessi che muovono i ragazzi della sessione: le sue idee, la sua intelligenza, vengono ignorate oppure derise. Splendida e significativa la scena in cui una sua idea viene prima ignorata quando è lei ad esporla, e quando viene accettata è a nome di un ragazzo del gruppo, che se ne appropria.
Pur di stare al gioco, si infila in una storia col ciccione sfigato della comitiva, visto che il capo del gruppo, figo e carismatico, e per cui Luciana ha una cotta, preferisce la sua amica stupidina ma graziosa, secondo il classico clichè degli uomini che prima dicono di preferire le donne intelligenti e poi si fidanzano con quelle carine.
La commedia scivola presto nel racconto delle piccole tragedie di un quotidiano fatto di scuola, di vita di quartiere, di giornate costellate di delusioni, della solitudine di chi si sente diverso, di incomprensioni con le persone che invece dovrebbero conoscerci meglio, di regole invalicabili da non infrangere mai, pena l’essere esclusi, emarginati; di piccole e grandi cattiverie di cui sono capaci i ragazzi – non esclusa Luciana- in cui bene e male, compassione e crudeltà si mescolano in un’alchimia incerta e sfuggente che si chiama adolescenza.
Il percorso di formazione di Luciana, doloroso ma necessario, è quello di tutti i ragazzi, eppure diverso per ognuno, e ciascuno di noi se lo porta dentro, irrisolto o meno.
Una storia lieve eppure lucida, un piccolo film dal cuore delicato e dalle molte irrisolutezze: non è difficile riconoscersi e parteggiare per la protagonista, cicciottella, imbranata e arrabbiata col mondo, chi di noi non lo è stata?
Chi non si è sentita tremendamente impacciata, soprattutto accanto a delle amiche carine e spigliate, soprattutto accanto al ragazzo più carino che ti passa accanto neanche fossi trasparente, invisibile, fatta di aria pura? La giovane attrice che interpreta Luciana, così lontana dai clichè delle sue coetanee (finalmente al cinema una adolescente non stile Lolita ma solida, vera nella sua fisicità goffa e sgraziata) è veramente uno dei punti forti del racconto.
Accanto a questi innegabili pregi, alcuni difetti appesantiscono il film: troppi filmati d’epoca sulle missioni spaziali che alla fine rallentano la trama (praticamente un terzo del film), qualche recitazione un po’ affettata tra gli adolescenti, soprattutto quando si esprimono nel gergo tipico dei giovani comunisti; un finale un pizzico buonista e inconcludente, come se le frustrazioni dell’adolescenza si risolvessero in poco tempo e il lieto fine fosse d’obbligo, mentre nella realtà da certe delusioni è difficile tornare indietro, così come è difficile far accettare la propria diversità dagli altri, e alcune volte non ci si riesce mai, neanche da adulti.
Comunque, un esperimento interessante, uno sguardo lieve ed ironico su un mondo, quello dei ragazzi, che raramente riesce a trovare chi sa raccontarlo in maniera non edulcorata, non banale e superficiale.
Ciambellone Bicolore alla Ricotta, Caffè e Cocco
Ci ho preso gusto ai ciambelloni bicolori, ormai ho capito la tecnica: sono buoni e anche allegri. Questo impasto l'ho buttato giù così, calcolando le dosi ad occhio, e il risultato è stato perfetto, morbido e consistente, con un lieve sapore di caffè, cacao e cocco. Io ho fatto più consistente la parte scura, ma potete anche fare il contrario, la base bianca e il sopra nero, nel qual caso invertite le dosi.
Per una teglia a ciambella da 26 centimetri
300 grammi farina
180 grammi zucchero
3 uova
Mezzo bicchiere abbondante olio di semi
250 grammi di ricotta
2 cucchiai di strega
1 bustina di lievito
Impasto al caffè:
due tazzine piene di caffè espresso
3 cucchiai di farina
3 cucchiai colmi di caffè solubile
2 cucchiai di cacao amaro
Impasto al cocco:
4 cucchiai di farina di cocco.
2 cucchiai di latte
Battere le uova intere con lo zucchero, quindi aggiungere la ricotta, sempre montando, quindi l'olio, la vanillina, il liquore.
Mescolare lievito e farina, aggiungere a cucchiaiate sempre mescolando con la frusta elettrica.
Prendere una metà abbondante dell'impasto, ed aggiungere il caffè, 3 cucchiai di farina (il composto si allunga col caffè e bisogna stringerlo),il caffè solubile e il cacao.
Nell'impasto chiaro mescolare due cucchiai di latte e la farina di cocco.
Mettere in una teglia a ciambella da 26 centimetri l’impasto scuro, quindi a cucchiaiate mettere quello chiaro sopra, spolverare con zucchero a velo semolato.
In forno caldo, secondo ripiano dal basso, per 50 minuti a 180 gradi.
giovedì 27 novembre 2008
The Orphanage: il sottile brivido della paura
Sono appena tornata dal cinema, e le impressioni a caldo, soprattutto di un film di paura, sono quelle che rendono meglio l'atmosfera del film.
![](http://library.vu.edu.pk/cgi-bin/nph-proxy.cgi/000100A/https/blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhYpRBfYGVs3FdRjUEBXcMP2BO0dm2yoS-OLVsAjroDjCnz3heURDs8qiSMiGbfrDMBRzD2IcDI20CUrodM7EU9XxoHXhrECExLcY0rhv61oBgFuKh4fK06r6VyfDyvySuK0SvTKauPZ2g/s400/orphanage.jpg)
Siete rimasti incollati alla poltrona del cinema, coi brividi di terrore, guardando i fantasmi di The Others?
Siete saltati sulla sedia, ad ogni apparizione spettrale de Il sesto senso?
Allora, questo è il film che fa per voi: the Orphanage, l’Orfanotrofio.
Diciamolo subito, i film succitati sono irraggiungibili, e soprattutto hanno aperto un filone: questo film non è molto originale, gli echi soprattutto di The Others sono evidenti.
Però è un film ben ambientato, suggestivo, con alcune scene che fanno veramente saltare sulla poltrona. Il produttore è Guillermo del Toro, regista del bel film Il Labirinto del Fauno.
La trama è presto detta:
Laura è un’orfana felicemente adottata che, da grande, decide di tornare nel suo ex orfanotrofio, ormai disabitato, per impiantarvi una casa famiglia per bambini disabili.
Anche Laura ha adottato un orfano, Simòn, che oltre ad essere un trovatello ha pure l’HIV.
La vecchia casa è di gusto piuttosto antiquato, con lunghi corridoi bui e pavimenti in parquet cigolanti: un luogo un po’ sinistro, invero, sia per un orfanotrofio che per una casa famiglia. Anche il luogo è piuttosto tenebroso, su una scogliera, sulla costa atlantica, vicino ad un grande faro e a numerose grotte.
I problemi cominciano subito: cigolii, porte che si chiudono da sole, il bimbo che comincia a parlare con amici immaginari, insomma, il classico repertorio dei film di fantasmi.
Anche una strana vecchia, un’assistente sociale, fa una comparizione abbastanza inquietante.
Durante la festa di inaugurazione, il bimbo scompare, dopo una lite furibonda con la madre (i suoi amichetti invisibili gli avevano rivelato che era orfano e malato).
Le ricerche sono inutili, sia dentro che fuori casa, ma la madre è convinta che gli amici del figlio se lo siano portato via, anche perché lei aveva visto uno di questi bambini prima che il figlio scomparisse, un bambino incappucciato di nome Tomàs, un tipetto veramente maligno, per la verità.
Continuano a manifestarsi, in casa, presenza inquietanti, che ovviamente vede quasi esclusivamente Laura che va ficcando il naso dappertutto, mentre il marito, medico, non si accorge quasi di nulla (ovviamente succede quasi tutto di notte). E passano i mesi, tre, sei, nove, e le speranze di ritrovare Simòn diventano sempre più flebili.
Per caso, Laura rincontra la vecchia, che si scopre aver lavorato all’orfanotrofio, poco prima che lei venisse adottata ma viene investita da un camion prima che possa dar spiegazioni. La vecchia andava in giro, tra l’altro, con una carrozzina con un bambolotto dentro.
Le indagini sul passato rivelano che Tomàs, il figlio deforme della vecchia, era stato ucciso incidentalmente dai bambini dell’orfanotrofio, amichetti di Laura prima che questa fosse adottata.
A questo punto la coppia disperata decide di chiedere aiuto ad una medium, che organizza assieme a due altri personaggi inquietanti una seduta spiritica, in cui scopre che nell’ex dormitorio sono stati uccisi, avvelenati, cinque bambini.
Seguendo una terrificante caccia al tesoro organizzata dai bambini invisibili, alla fine Laura arriva ad un ripostiglio, e qui trova i cadaveri ridotti in polvere dei cinque bambini, non vi dico perché e percome sennò è finita.
Ovviamente la donna continua a percepire presenze dappertutto, ed è decisa ad andare fino in fondo, sicura che ritroverà il figlioletto.
Il marito non crede a quelle che considera fandonie, e chiede alla moglie di lasciare la casa, preoccupato per la sua salute mentale, ma Laura si fa concedere ancora due giorni, nella casa vuota (voi lascereste vostra moglie in preda alle allucinazioni, in una vecchia casa infestata? Io, se il mio lo facesse, invece di trascinarmi in salvo per i capelli, chiederei il divorzio).
Finalmente sola col suo delirio, decide di ricreare la stessa ambientazione di quand’era piccola, con i letti originali e tutto, si veste con la divisa della scuola, ricrea addirittura la stessa tavolata di colazione con dolci e more (che si vede in un filmino d’epoca): mi chiedo come, in mezzo a tanto terrore, una riesca a mettersi ai fornelli sfornando torte di mele e biscotti glassati, ma comunque: alla fine l’enigma si scioglie, si scopre chi erano i cinque bambini, ora fantasmi, che la conducono dal figlio, rivelando alla donna il mistero della sparizione.
La fine non ve la dico, però è un po’ triste, raro uscire da un film di paura coi lucciconi, ma qui mi è successo.
Critica: a parte un po’ di lungaggine, la prima critica è che i richiami a The Others sono veramente evidenti, la vecchia casa, i fantasmi del passato, la seduta spiritica, il legame madre figlio, etc, pure la fine che però non vi dico. Un pizzico di dejà vu è innegabile.
La colonna sonora del film, tra stacchi di violini e cigolii e rumori e sbattimenti di porte è quasi un capolavoro, anche troppo, perché alla fine si rischia di finire nell’ovvio, alla decima porta che si chiude di botto e al ventesimo scricchiolio del soffitto verrebbe voglia di consigliare un buon falegname oppure di buttare giù tutto quel legno e rifare i telai dei pavimenti.
D’altra parte, è ovvio che né il regista né lo sceneggiatore possiedono dei gatti, sennò saprebbero che rumori inquietanti, porte che si aprono e chiudono da sole e oggetti che si spostano sono la normalità, almeno a casa mia, ci vorrebbe ben altro per spaventarmi (anche se il bambino incappucciato mi manca, per il momento).
Anche i rituali dei giochi infantili, le giostre che si muovono da sole, i disegni delle presenze e i nascondigli con le bambole sono un altro classico del genere (ci mancava solo la filastrocca cantata dalla vocetta infantile ed eravamo al completo).
I bambini, all’inizio del film, giocano a Uno due tre Tocca parete (ma non era Uno due tre Stella?), gioco con cui Laura riuscirà ad evocare i cinque bambini fantasma: voi ci giochereste, con la faccia al muro, sapendo di avere dietro cinque figure inquietanti? Insomma, si deve essere veramente masochisti: chiunque con un pizzico di sale in zucca si guarderebbe bene dall'evocare fantasmi, dall’andare a ficcare il naso in vecchi ripostigli, sgabuzzini e case infestate, soprattutto di notte e senza lampada.
Forse è per questo che non ho mai visto fantasmi, finora…
giovedì 21 febbraio 2008
Biografia semiseria di una nannimorettomane
Scusate il neologismo del titolo, ma non mi veniva un altro termine!
Ho intitolato così questo post, per fare un piccolo commento al film Caos Calmo, ma è doverosa una lunga lunga premessa, per chi non mi conosce e magari pensa che io sia una morettiana dell’ultima ora, tzè!
Così sono buoni tutti.
La mia insana passione per Nanni Moretti risale ben al 1988: quell’anno, con la mia amica Pina, sfruttammo la nostra neo tessera universitaria in un cinema di periferia che faceva una rassegna di film non proprio recentissimi, ma tanto erano gratis, per cui ne andammo a vedere almeno un paio.
Quel pomeriggio c’era in programma Platoon, ma quando arrivammo al cinema scoprimmo che avevano messo in cartellone, invece, La Messa è Finita, Moretti anno 1985, o forse c’eravamo confuse noi, non mi ricordo.
Quel pomeriggio c’era in programma Platoon, ma quando arrivammo al cinema scoprimmo che avevano messo in cartellone, invece, La Messa è Finita, Moretti anno 1985, o forse c’eravamo confuse noi, non mi ricordo.
Siccome eravamo arrivati fin lì, non so bene dove ma non era proprio vicinissimo, entrammo lo stesso, anche se di Moretti ne avevamo sentito a malapena parlare.
L’unico ricordo che allora mi sovvenne, infatti, fu che nel 1985, ad un collettivo di classe, decidendo quale film si poteva andare a vedere tutti insieme (molto utili, questi collettivi di classe), la nostra compagna Simona propose Camera con vista e La Messa è finita.
Camera con vista gliela potevamo anche passare (difatti poi lo vidi, ma non al cinema), ma quando ci spiegò che il secondo film trattava di un prete, la tacciammo di clericalismo e votammo tutti contro.
Ovviamente, avevamo torto marcio.
Ovviamente, avevamo torto marcio.
Quel pomeriggio ebbi una specie di illuminazione divina, di rivelazione: ero stata attaccata da una forma particolare di morbo, chiamato Morettite acuta, e che sarebbe durato parecchi anni. Sviluppai anche una sorta di concupiscenza oscura per Nanni Moretti con la tonaca da prete, ma questo forse è il risultato di un’educazione rigorosamente cattolica, vai a capire…
![](http://library.vu.edu.pk/cgi-bin/nph-proxy.cgi/000100A/https/blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjSD4BTfjR33omXh3Fh8zO8AlGSSNn_diNR8oHFZLcgoSTuJ-t7hReXqu50kCfX7dG8YeofT2Thr4h9jQIA7U965ZyGwDY2UluJA5Gl48pIa6_SNcRO5ZB0F0yaUaC-byhCU4KxD5wauGYp/s400/lamessa=25C3=25A8finita.jpg)
Avete presente quella ragazza che si è visto 59 volte Titanic al cinema, qualche anno fa? Una principiante: io, già nel 1990, avevo visto La Messa è finita, quello che ancora adesso considero il suo capolavoro, almeno 29 volte…
Un paio di volte l’ho addirittura incontrato, una volta mentre passeggiava assorto per i fatti suoi dentro Villa Pamphili (per chi non fosse di Roma: è il parco pubblico di una villa del Seicento, tra Trastevere e Monteverde), un’altra mentre camminava per Largo Argentina, al centro.
E’ ovvio che, conoscendone il carattere non proprio alla mano, ho glissato elegantemente facendo finta di non riconoscerlo. Un episodio capitato ad una mia collega di università si era rivelato illuminante, al riguardo: anche questa ragazza, di nome Alessandra, era pazza di Nanni Moretti.
Eravamo, all’epoca,un bel gruppetto di egittologi di belle speranze che si riunivano spesso proprio vicino Villa Pamphili, tra cui appunto questa Alessandra che era, in ordine sparso: un po’ tondetta ma molto carina e, a detta dei ragazzi, molto sexy, simpatica a tutti, bravissima all’università, bravissima pasticcera, e per soprammercato piaceva anche all’egittologo per cui io avevo una cotta clamorosa: mi sembra che ce ne sia abbastanza per odiarla ancora adesso (per quanto riguarda la pasticceria, io ero una principiante alle prime armi, svanivo al confronto: ora, magari, chissà…).
Comunque, questa Alessandra confezionò con le sue manine belle una favolosa Sacher Torte, di cui Moretti è notoriamente ghiotto, e coraggiosamente bussò alla porta di casa sua, con la torta in mano. Per sua sfortuna, il bello non c’era. Molto dispiaciuta, lasciò comunque la torta, con il suo numero di telefono.
Che la Sacher se la sia sbafata, è indubbio, magari non sarà stata l’originale ma sicuramente se l’è pappata lo stesso: di lui, però, Alessandra non ne ha saputo mai nulla, neanche un rigo, chessò una telefonata, sarebbe stato carino, no…?
Nel 1989 uscì Palombella rossa, attesissimo: andai a vederlo col mio fidanzato di allora, un catto-consumatore-qualunquista, o piuttosto un preforzaitaliota-reazionario-consumista, non so bene come definirlo…comunque, a metà film se ne voleva andare:d’altra parte, colpa mia che mi ero fidanzata con un tipo così.
Più fatto un errore del genere. Di altro tipo sì, ma lo stesso mai.
Un’altra cosa che ho imparato sui fidanzati: mai tenerseli, se non piacciono al tuo gatto. Gli animali hanno antenne sensibilissime, sanno benissimo chi è un millantatore e meschino e chi no.
Dovevo dar retta alle mie gatte, e anche a mia madre, quando nel 1994 mi fidanzai con un dentista che…va beh, chiudiamo qui questa parentesi, altrimenti vado fuori tema!
Tutto questo per spiegare che, per me, una nuova uscita di Moretti è una specie di evento, anche vederlo da Fabio Fazio è una specie di visione mistica…va beh, ora sto esagerando.
Comunque mio marito non si capacita del fatto che io lo trovi bellissimo…forse ho dei gusti orrendi, chissà, anche se la differenza tra Moretti e un George Clooney la vedo, mica no.
In ogni caso, però, riesco ad essere comunque abbastanza imparziale quando vedo un suo film: alcune cose le ho adorate, altre mi sono piaciute un po’ meno.
Per esempio, La Stanza del Figlio: nonostante mi sia piaciuto, non sono mai più riuscita rivederlo, non so perché. Allo stesso modo non ho particolarmente amato Palombella Rossa (veramente nel 1989 non ci avevo capito molto neanche io, ma non lo avrei mai ammesso con il tipo, per non dargli soddisfazione) e neanche Sogni d’Oro.
Tutta questa digressione autarchica per commentare Caos Calmo.
Una premessa doverosa: tutto il film pesa sulle spalle di Moretti, su questo non c’è dubbio. Senza di lui, probabilmente, sarebbe venuto tutto un altro film.
E’, come dire, tutto molto morettiano: c’è una scena, ad esempio, quella della fine del primo giorno di scuola, quando cominciano ad arrivare davanti al cancello tutte le mamme, sbucando fuori da tutte le parti, che sembra una delle scene corali tipiche dei suoi film.
E’, come dire, tutto molto morettiano: c’è una scena, ad esempio, quella della fine del primo giorno di scuola, quando cominciano ad arrivare davanti al cancello tutte le mamme, sbucando fuori da tutte le parti, che sembra una delle scene corali tipiche dei suoi film.
La trama: quasi inesistente, in realtà non succede molto: il film si gioca tutto sui personaggi, sugli sguardi di Moretti e sui dialoghi, a volte seri e a volti veramente umoristici. Quasi tutte le scene si svolgono intorno alla panchina, nel baretto di fronte alla scuola o in macchina.
Diciamo che il primo tempo ha un ritmo più serrato, lascia aperti degli interrogativi che poi rimangono insoluti, per esempio, tutte le cose che il marito scopre dopo la morte della moglie: la sua corrispondenza con lo scrittore, il fatto che si lamentasse con la sorella di non essere amata, le sue visite da una maga…tutto questo non viene poi sviscerato, ma rimane un po’ sospeso, vista la sua scelta di non sapere.
Io, comunque, le email non le avrei di certo cancellate, senza leggerle…:-)
Alcune cose mi hanno convinto di meno, per esempio la tanto strombazzata scena con la Ferrari: che, a mio avviso, è stata piuttosto gratuita. Probabilmente nel libro si capisce meglio, ma nella trama del film non mi è sembrata indispensabile, né poi così immorale…
(Infatti chi ha il letto il libro mi ha spiegato che nel libro questa scena è molto più comprensibile, e anche meno romantica).
Sicuramente il regista ha potuto contare su un cast di tutto rispetto: a partire da Gassman, bravissimo, che interpreta il fratello fichissimo, Silvio Orlando, ed una marea di comprimari, tutte facce conosciute, anche se si vedono per pochi minuti. Insomma, in definitiva un buon film, anche se non un capolavoro, sicuramente un film intenso e non banale.
P.s. un lettore molto polemico ha scritto oggi una lettera su Repubblica, notando il fatto che in tutto il film si notasse molto la macchina, di una notissima marca, che Moretti usa. Pensavo fosse una critica piuttosto maligna ma, a malincuore (forse ero prevenuta, avendola letta) devo ammettere che la presenza dell’autovettura è piuttosto ingombrante, essendo questa ripresa da tutte le angolazioni possibili, interni ed esterni, addirittura ci hanno fatto vedere come il bagagliaio si chiuda dolcemente da solo…devo essere un po’ malignetta anch’io?
E’ vero che due terzi del film si svolgono per la strada, però…
martedì 12 febbraio 2008
Cous Cous
![](http://library.vu.edu.pk/cgi-bin/nph-proxy.cgi/000100A/https/blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEja0_djPMscmI8tTS0KFGgNlvr_Iq0mKGxIZQqXkjH6uiu5FNoZAUbZf-HzTKuuj_OpVo8q0PHg7Kgx9TiUSD5h51XJFrBipQhCmujUVQmita1zQL4eUxoYrKEmjD_HwEQ8TqOlJKCpgr8/s400/couscous.jpg)
Il film è ambientato in una comunità maghrebina vicino Marsiglia, una periferia fatiscente e povera, con squallidi palazzoni proprio in riva al mare.
Protagonista un anziano carpentiere di barche che si ritrova disoccupato a 61 anni, e cerca di realizzare quello che è il suo sogno: aprire un ristorante di couscous restaurando un rottame di cargo. Attorno a lui ruotano le due sue famiglie: quella ufficiale, con figli, moglie e nipoti, e quella ufficiosa, con la compagna che gestisce una squallida pensione e sua figlia.
Molto interessante come argomento, il film ha diviso gli spettatori per la particolarità della recitazione e della tecnica della ripresa (oltre che per la lunghezza).
Tra i pregi sicuramente annovero gli attori, i loro visi, la loro spontaneità: sono persone normalissime, gli uomini con il volto segnato dalle rughe, le donne con i loro rotolini di ciccia, ma sicuramente veri, come se ne possono incontrare ovunque.
Il pezzo sicuramente che rimane nel cuore di questo film è la danza che esegue la ragazza, la bravissima Hafsia Herzi,cercando di prendere tempo per far arrivare il couscous ai clienti: lei è carina, ma la sensualità che mette nel ballare va oltre, e questo alla faccia di chi pensa che per essere sexy bisogna avere un corpo da Carla Bruni.
E’ sensuale da morire, col suo corpo morbido e la sua pancetta rotonda, i suoi movimenti aggraziati, i sussulti del bacino e l’ondeggiare dei capelli: nessun uomo , ma forse anche nessuna donna, potrebbe rimanere indifferente (infatti pensavo che a mio marito venisse un colpo apoplettico).
Tra i difetti: sicuramente i movimenti schizofrenici della telecamera, a metà film mi veniva da vomitare, avevo lo stomaco sottosopra dal mal di mare, ed alcune scene confuse con tutti i personaggi che si parlano l’uno sopra all’altro, la sensazione era proprio quella di stare in una stanza affollata con gente che ti gridava nelle orecchie.
Ci sono stati poi un paio di pezzi interminabili:quello con la figlia all’inizio, che sgridava la piccola sul vasino, petulante da morire, e quello della cognata russa che si esibisce in una crisi isterica insopportabile che le avresti sparato. Va bene la spontaneità, ma un minimo di compassione per i poveri spettatori il regista poteva pure averla…
![](http://library.vu.edu.pk/cgi-bin/nph-proxy.cgi/000100A/https/blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh4zBd_b6RYlGAqm19T06nkTVs6o54UhMW9ZCLSToWATweg8GnuiLbkNdQUsciW-kpJKqVcOSDDHa7_udClRCFAVtz_jPvZW111xKB4xM5mdIORCB7AbAuMU2ixR2cypcbq7-JxHjnbHgs/s400/couscous2.jpg)
Ho mangiato del Cous Cous meraviglioso a Parigi, vicino Saint Germain de Pres, in un ristorante arabo con una decorazione incredibile e stipato fino all'inverosimile, ma il cous cous era divino: mi hanno portato una fiamminga di semola che bastava per tre, e una zuppiera con un brodo vegetale rosso con dentro le verdure: zucchine, carote e patate.
Sono riuscita a mangiarne una minima parte, nonostane gli sforzi.
Anche a Roma si mangia un buon cous cous: a Garbatella, ad esempio, c'è una bettolina che si chiama Pout-Pourri, tra le case popolari, sempre affollatissima purtroppo, dove si può scegliere tra cucina italiana o araba.
Fanno dei felafel buonissimi, serviti col pane arabo caldo che è una meraviglia, e il sabato servono il couc cous, in versione vegetariana o con pesce.
Io, più semplicemente, me lo faccio con quello precotto: ho intenzione di comprarmi una couscoussiera, so che quello vero è un'altra cosa (anche quello siciliano) e mi piacerebbe imparare a farlo...
Stavolta l'ho fatto come a Parigi, con verdure lesse appena saltate in padella, a cui ho aggiunto un avanzo di piselli con cipolla della sera prima (ci stanno benissimo).
Altrimenti lo condisco con quello che ho, broccolo ripassato in padella, verdure varie, addirittura con le lenticchie in umido col pomodoro (era insolito ma buono).
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martedì 27 novembre 2007
Il Nascondiglio
![](http://library.vu.edu.pk/cgi-bin/nph-proxy.cgi/000100A/https/blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEifzJIk4HR4Lk1Anh2ZtUtnHJcTOB5OPOeuiu67ouWvFtC3YXl08PuUOnLJ18OCfQ2s_hNWZHczJpy9rB7MkSJ0NPeS92iYBNufdnhNbzqNYCOZ2mxRpCfJ4SzUjsA-ARbC-SXW8QQ3Q24/s320/ilnascondiglio.jpg)
Perfetto in ogni dettaglio: il periodo in cui è ambientato, il Settecento, ma non un Settecento traboccante di pizzi e taffetà; una landa emiliana fredda e desolata, con la torre semidiroccata in cui il protagonista si trova a vivere, il malefico monsignore negromante interpretato da un magistrale Carlo Cecchi con la mano monca, e poi ancora quella cantilena ossessiva "Rosa di Rose, fiore più di fiore, donna di donne, signora di signore"...e poi l'inviato del Sant'Uffizio, la PseudoMonarchia dei Demoni, il fantasma del vecchio che appare sula scaletta della biblioteca, le stanze cosparse di farina, i nomi delle converse che appaiono sui vetri delle finestre...per non parlare della scena finale al cimitero...insomma, un capolavoro.
Niente di più sbagliato. Il confronto non regge. Già la scelta di ambientare un thriller gotico nell'Iowa mi ha lasciato perplessa...perchè proprio nell'Iowa? Perchè non a Roma, Torino, Parigi che so...forse per il contrasto tra le cupe atmosfere liberty della casa e la moderna, asettica città americana?
Comunque, il film riprende il tema stra-abusato delle presenze inquietanti in una casa maledetta: siamo nel 1957, in una fredda e nevosa notte della settimana di Natale. Nella Snake Hall (la Casa dei Serpenti, così chiamata per le decorazioni che ricorrono ovunque) , un geriotrofio gestito da monache, vengono trovate uccise a coltellate la Madre Superiora e due vecchie carampane, tutte e tre tipini poco simpatici, comunque. Nella stessa notte spariscono le due giovani converse (ma perchè vestite in quel modo? In fondo, siamo negli anni Cinquanta, mica nell'Ottocento...). Di loro non ne viene trovata traccia, e soprattutto, in quella notte nessuno esce da quella casa (non si trovarono tracce sulla neve).
La casa rimane abbandonata per cinquant'anni (però l'ascensore continua a funzionare benissimo, li costruissero ancora così...). Nel 2007 una donna di origine italiana con una storia triste alle spalle(Laura Morante, come al solito bella e brava) decide di aprire, in questo posto lugubre e sperduto, un ristorante...ma dico io, un ristorante italiano nella casa della Famiglia Adams? Sarebbe sicuramente fallito in poco tempo, anche senza motivi spiritistici.
Ovviamente, comincia subito ad avvertire presenze inquietanti, voci misteriose, oggetti che spariscono o si muovono da soli...
E fin qui potrebbe anche ricordare The Others (altro capolavoro che adoro), ma siamo proprio su un altro livello...
Avati non ci risparmia nulla dei clichè del genere: la cupa casa avvolta nella nebbia, la lunga scalinata cigolante, la vocina cantilenante che filtra dalle pareti, porte che si aprono nella notte, musica di violini in crescendo ad ogni accenno di suspence, presenze che si aggirano per la casa seminando cadaveri di topi arrosto, facendo così impazzire di terrore una poveretta che, già di suo, non stava proprio tanto bene, essendo stata rinchiusa 15 anni in un clinica psichiatrica perchè sentiva voci che nessuno sentiva e vedeva persone che nessuno vedeva...insomma, è come sparare sulla Croce Rossa!
Tutto il film si regge sulla bellissima casa stile Liberty (che, restaurata, non mi dispiacerebbe abitare...soprattutto per le splendide vetrate) e sulla bravura della protagonista, però mi sembra un po' pochino...fin dall'inizio, neanche per un istante, ho creduto che ci fossero i fantasmi... la voce gracchiante deve appartenere per forza ad una delle due converse, miracolosamente sopravvissuta. Ed infatti...a parte che vivere cinquant'anni di topi morti mi sembra già abbastanza terribile, ma c'era proprio bisogno di farla assomigliare al Gollum del Signore degli Anelli (il mio tesssoro...) e di farle trasportare tutta la vita l'altra conversa morta dentro un lenzuolo?
E poi, come finisce? Crederanno che è stata la conversa, ancora viva, a massacrare la giovane avvocato, una irriconoscibile Yvonne Sciò che, se si impicciava meno degli affari altrui, sicuramente le andava meglio? Oppure, visto che della conversa in casa non ne trovano traccia (ma andiamo, ci ha abitato cinquant'anni, qualcosa avrà pur lasciato, magari qualche impronta o qualche cadaverino di topo rosicchiato!), verrà incolpata Laura Morante, che già i guai li caccia con la ventola?
Insomma, sono rimasta delusa...magari qualche bella scena di terrore non manca, ma nulla di inaspettato, esattamente quello che ti aspetti di vedere in un film che parla di case maledette.
Mi aspettavo un po' di più dall'autore de L'Arcano Incantatore...
lunedì 29 ottobre 2007
Ultimi film visti
Vi aggiorno sugli ultimi film visti, ultimamente vado spesso al cinema, e i film durano talmente tanto poco, nelle sale (tranne i soliti blockbuster), che bisogna pure sbrigarsi, a vederli.
In questo mondo libero, di Ken Loach.
Un vero pugno allo stomaco. Ambientato in una Londra irriconoscibile, in un inverno freddo, gelido, un affresco di umanità disperata che magari può non piacere, però sicuramente non lascia indifferenti.
Ken Loach in questo film, lontano dalla partecipazione accorata e commossa di altri suoi capolavori (per chi non l’avesse capito, adoro questo regista) come Terra e Libertà, Bread and Roses etc.., osserva le persone con occhio disincantato, clinico, anche se non privo di una certa compassione. Uno sguardo non cinico, ma molto realista, senza sconti per i suoi protagonisti: i quali non sono divisi tra buoni e cattivi, vittime e carnefici, ma sono tutti un po’ disperati, egoisti per necessità, senza scrupoli per fame, e senza pietà per difendersi.
Insomma, un bel film ma molto crudo, certo bisogna essere in vena per andare a vederlo.
Comunque siamo usciti dal cinema un po’ depressi.
La Ragazza del Lago: bel giallo, anche se non è proprio la trama che importa, il bello del film sta nell’atmosfera rarefatta e nebbiosa che riesce ad evocare. Tra l’altro, io e Pina concordiamo sul fatto che c’è qualcosa di irrisolto nel finale (che svelo nelle righe qui sotto, per cui, se volete andare a vedere il film, non leggetelo).
Secondo noi, il colpevole non è quello che viene poi arrestato, ma il fidanzato e forse anche la sorella, un delitto d’amore. Il personaggio interpretato da Gifuni in realtà paga per il delitto del figlio, commesso tempo prima, di cui la ragazza uccisa era venuta a conoscenza.
Piano, Solo
Un altro bel film, triste da morire. Un’immersione nella solitudine, genialità e follia, e nella musica. A me in generale il Jazz non fa impazzire, però in questo film non mi dispiace.
Kim Rossi Stuart è grande, forse la sua migliore interpretazione, tutto il cast è ottimo, ma la prova da applauso è quella di Paola Cortellesi, qui mi è piaciuta moltissimo. Certo, è meglio vederlo in una sera in cui non si è depressi per conto proprio, sennò è la mazzata finale.
Cemento Armato: a dispetto delle critiche feroci che ho letto sui giornali, a me non è dispiaciuto. Concordo sul fatto che non sia un capolavoro, però almeno ci hanno provato, a fare un noir tutto romano! Tra l’altro, l’ambientazione è alla Garbatella, un nero molto casereccio, insomma.
Faletti è un cattivo passabile, con un so che di crudele nello sguardo, Vaporidis è un po’ troppo perbene per fare il teppistello ladruncolo però è carino, la Crescentini non la sopporto (forse è invidia, chissà…).
La giusta distanza: appena uscito dal festival di Roma. Al cinema qui dietro è durato una settimana, eppure la sala non era vuota…
Come atmosfere mi ha ricordato molto la Ragazza del Lago, sempre questo Nord-est freddo e nebbioso, le mattine gelide e i paesaggi plumbei, mi ha fatto venire un freddo…fortuna che abito a Roma! Però, anche questo è un bel film. Un pochino lento, forse. Anche qui un risvolto giallo, e un colpevole che in realtà è innocente.
Mi piacciono queste province sonnolente, in cui una facciata perbene nasconde segreti inconfessabili, pulsioni oscure, passioni morbose.
Michael Clayton: diciamocelo, George Clooney ne vale sempre la pena, anche se il film è un po' noiosetto…una specie di Erin Brokovich in versione lussuosa, intrighi tra multinazionali e avvocati corrotti.
Il prossimo film in programma è quello di Soldini, finora non mi ha mai deluso, peccato che in questo non c'è Licia Maglietta
Più tardi posterò la ricetta della Torta di Mele (vado a farla)
In questo mondo libero, di Ken Loach.
Un vero pugno allo stomaco. Ambientato in una Londra irriconoscibile, in un inverno freddo, gelido, un affresco di umanità disperata che magari può non piacere, però sicuramente non lascia indifferenti.
Ken Loach in questo film, lontano dalla partecipazione accorata e commossa di altri suoi capolavori (per chi non l’avesse capito, adoro questo regista) come Terra e Libertà, Bread and Roses etc.., osserva le persone con occhio disincantato, clinico, anche se non privo di una certa compassione. Uno sguardo non cinico, ma molto realista, senza sconti per i suoi protagonisti: i quali non sono divisi tra buoni e cattivi, vittime e carnefici, ma sono tutti un po’ disperati, egoisti per necessità, senza scrupoli per fame, e senza pietà per difendersi.
Insomma, un bel film ma molto crudo, certo bisogna essere in vena per andare a vederlo.
Comunque siamo usciti dal cinema un po’ depressi.
La Ragazza del Lago: bel giallo, anche se non è proprio la trama che importa, il bello del film sta nell’atmosfera rarefatta e nebbiosa che riesce ad evocare. Tra l’altro, io e Pina concordiamo sul fatto che c’è qualcosa di irrisolto nel finale (che svelo nelle righe qui sotto, per cui, se volete andare a vedere il film, non leggetelo).
Secondo noi, il colpevole non è quello che viene poi arrestato, ma il fidanzato e forse anche la sorella, un delitto d’amore. Il personaggio interpretato da Gifuni in realtà paga per il delitto del figlio, commesso tempo prima, di cui la ragazza uccisa era venuta a conoscenza.
Piano, Solo
Un altro bel film, triste da morire. Un’immersione nella solitudine, genialità e follia, e nella musica. A me in generale il Jazz non fa impazzire, però in questo film non mi dispiace.
Kim Rossi Stuart è grande, forse la sua migliore interpretazione, tutto il cast è ottimo, ma la prova da applauso è quella di Paola Cortellesi, qui mi è piaciuta moltissimo. Certo, è meglio vederlo in una sera in cui non si è depressi per conto proprio, sennò è la mazzata finale.
Cemento Armato: a dispetto delle critiche feroci che ho letto sui giornali, a me non è dispiaciuto. Concordo sul fatto che non sia un capolavoro, però almeno ci hanno provato, a fare un noir tutto romano! Tra l’altro, l’ambientazione è alla Garbatella, un nero molto casereccio, insomma.
Faletti è un cattivo passabile, con un so che di crudele nello sguardo, Vaporidis è un po’ troppo perbene per fare il teppistello ladruncolo però è carino, la Crescentini non la sopporto (forse è invidia, chissà…).
La giusta distanza: appena uscito dal festival di Roma. Al cinema qui dietro è durato una settimana, eppure la sala non era vuota…
Come atmosfere mi ha ricordato molto la Ragazza del Lago, sempre questo Nord-est freddo e nebbioso, le mattine gelide e i paesaggi plumbei, mi ha fatto venire un freddo…fortuna che abito a Roma! Però, anche questo è un bel film. Un pochino lento, forse. Anche qui un risvolto giallo, e un colpevole che in realtà è innocente.
Mi piacciono queste province sonnolente, in cui una facciata perbene nasconde segreti inconfessabili, pulsioni oscure, passioni morbose.
Michael Clayton: diciamocelo, George Clooney ne vale sempre la pena, anche se il film è un po' noiosetto…una specie di Erin Brokovich in versione lussuosa, intrighi tra multinazionali e avvocati corrotti.
Il prossimo film in programma è quello di Soldini, finora non mi ha mai deluso, peccato che in questo non c'è Licia Maglietta
Più tardi posterò la ricetta della Torta di Mele (vado a farla)
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