NIENTE E' PIU' COME PRIMA...
I lettori
Io sono
- Debora
- Artista, fino in fondo al midollo dell'osso.. Sognavo una mansarda a Montmartre, il basco in testa, da vera Bohèmienne.. Una finestra che illuminava la mia tela dove i miei pensieri si posavano in amipie pennellate di colore.. Invece ho il desiderio prorompente di stabilirmi in UK, e chissà, magari un giorno nemmeno troppo lontano diventerò "devota" suddita di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra!!
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lunedì 29 giugno 2015
martedì 20 maggio 2014
20 MAGGIO 1992
Si racconta che una sera Paolo Borsellino disse a Giovanni Falcone, il suo grande amico di sempre, queste parole: "Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: - Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello... Quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero... Ma oggi, signori e signore, davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c'è il più testa di minchia di tutti... Uno che aveva sognato, niente meno, di sconfiggere la mafia applicando la legge -"
18 maggio 1939 - 20 maggio 1992
venerdì 19 luglio 2013
19 LUGLIO 1992 - 19 LUGLIO 2013
Si è fermato tutto il 19 luglio 1992.
La speranza è morta con Paolo Borsellino e gli uomini della sua scorta...
lunedì 6 maggio 2013
IL TESTAMENTO DI AGNESE AI GIOVANI
"Carissimi giovani, mi rivolgo a voi come ai
soli in grado di raccogliere davvero il messaggio che mio marito ha
lasciato, un`eredità che oggi, malgrado le terribili verità che stanno
mano a mano affiorando sulla morte di
mio marito, hanno raccolto i miei tre figli, di cui non posso che andare
orgogliosa soprattutto perché servono quello stesso Stato che non pare
avere avuto la sola colpa di non avere fatto tutto quanto era in suo
potere per impedire la morte del padre.Leggendo con i miei figli (qui in
ospedale dove purtroppo affronto una malattia incurabile con la dignità
che la moglie di un grande uomo deve sempre avere) le notizie che si
susseguono sui giornali, dopo alcuni momenti di sconforto ho continuato e
continuerò a credere e rispettare le istituzioni di questo Paese,
perché mi rendo conto che abbiamo il dovere di rispettarle e servirle
come mio marito sino all`ultimo ci ha insegnato, non indietreggiando
nemmeno un passo di fronte anche al solo sospetto di essere stato
tradito da chi invece avrebbe dovuto fare quadrato attorno a lui.Io e i
miei figli non ci sentiamo persone speciali, non lo saremo mai,
piuttosto siamo piccolissimi dinanzi la figura di un uomo che non è
voluto sfuggire alla sua condanna a morte, che ha donato davvero
consapevolmente il dono più grande che Dio ci ha dato, la vita.Io non
perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi
convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e
costruire una nuova Italia, l’Italia del domani.
Un caloroso abbraccio a voi tutti"
Agnese Borsellino (1941-2013)
Un caloroso abbraccio a voi tutti"
Agnese Borsellino (1941-2013)
giovedì 2 agosto 2012
BOLOGNA: 2 AGOSTO 1980 - 10:25 - NOI NON DIMENTICHIAMO
Sono passati 32 anni.. Per la verità, io quel 2 agosto 1980 neanche c'ero, anzi, c'ero, ero nella pancia della mia mamma, e forse già da lì potevo capire che sarei nata in un mondo non facile.
Immagino quella mattina come se fosse quella di oggi, una caldissima mattina di agosto, era un sabato, e come succede oggi, c'erano i primi vacanzieri.
Bologna è una città di studenti, e finiti gli esami, i colloqui per la tesi, si fanno i bagagli e si torna verso casa, dove la famiglia è ansiosa di abbracciare i propri ragazzi, che cercano con fatica di costruirsi un futuro.
Bologna è anche una città d'arte, ci sono tante belle cose da vedere, e in stazione c'è sicuramente un via vai di turisti, anche staranieri, che dopo un anno di faticoso lavoro, hanno deciso di passare il periodo di riposo nel nostro Paese, e visitano le città più belle e importanti.
C'è anche chi ha lasciato la propria terra d'origine, per andare a lavorare a Bologna, e avrebbe, di lì a poco, preso il treno per tornare a casa.
E c'era anche chi aveva deciso di andare a trovare i figli lontani, trasferiti da anni in altre città, magari all'estero per un lavoro e un futuro migliore.
Ma i sogni, le speranze, le vacanze, la felicità, si sono spente improvvisamente alle 10:25 di quella bollente mattina del 2 agosto.
85 vite spezzate, oltre 200 ferite o mutilate.
A distanza di 32 anni, noi, non dobbiamo dimenticare:
- Antonella Ceci, anni 19
- Angela Marino, anni 23
- Leo Luca Marino, anni 24
- Domenica Marino, anni 26
- Errica Frigerio In Diomede Fresa, anni 57
- Vito Diomede Fresa, anni 62
- Cesare Francesco Diomede Fresa, anni 14
- Anna Maria Bosio In Mauri, anni 28
- Carlo Mauri, anni 32
- Luca Mauri, anni 6
- Eckhardt Mader, anni 14
- Margret Rohrs In Mader, anni 39
- Kai Mader, anni 8
- Sonia Burri, anni 7
- Patrizia Messineo, anni 18
- Silvana Serravalli In Barbera, anni 34
- Manuela Gallon, anni 11
- Natalia Agostini In Gallon, anni 40
- Marina Antonella Trolese, anni 16
- Anna Maria Salvagnini In Trolese, anni 51
- Roberto De Marchi, anni 21
- Elisabetta Manea Ved. De Marchi, anni 60
- Eleonora Geraci In Vaccaro, anni 46
- Vittorio Vaccaro, anni 24
- Velia Carli In Lauro, anni 50
- Salvatore Lauro, anni 57
- Paolo Zecchi, anni 23
- Viviana Bugamelli In Zecchi, anni 23
- Catherine Helen Mitchell, anni 22
- John Andrew Kolpinski, anni 22
- Angela Fresu, anni 3
- Maria Fresu, anni 24
- Loredana Molina In Sacrati, anni 44
- Angelica Tarsi, anni 72
- Katia Bertasi, anni 34
- Mirella Fornasari, anni 36
- Euridia Bergianti, anni 49
- Nilla Natali, anni 25
- Franca Dall'olio, anni 20
- Rita Verde, anni 23
- Flavia Casadei, anni 18
- Giuseppe Patruno, anni 18
- Rossella Marceddu, anni 19
- Davide Caprioli, anni 20
- Vito Ales, anni 20
- Iwao Sekiguchi, anni 20
- Brigitte Drouhard, anni 21
- Roberto Procelli, anni 21
- Mauro Alganon, anni 22
- Maria Angela Marangon, anni 22
- Verdiana Bivona, anni 22
- Francisco Gomez Martinez, anni 23
- Mauro Di Vittorio, anni 24
- Sergio Secci, anni 24
- Roberto Gaiola, anni 25
- Angelo Priore, anni 26
- Onofrio Zappala', anni 27
- Pio Carmine Remollino, anni 31
- Gaetano Roda, anni 31
- Antonino Di Paola, anni 32
- Mirco Castellaro, anni 33
- Nazzareno Basso, anni 33
- Vincenzo Petteni, anni 34
- Salvatore Seminara, anni 34
- Carla Gozzi, anni 36
- Umberto Lugli, anni 38
- Fausto Venturi, anni 38
- Argeo Bonora, anni 42
- Francesco Betti, anni 44
- Mario Sica, anni 44
- Pier Francesco Laurenti, anni 44
- Paolino Bianchi, anni 50
- Vincenzina Sala In Zanetti, anni 50
- Berta Ebner, anni 50
- Vincenzo Lanconelli, anni 51
- Lina Ferretti In Mannocci, anni 53
- Romeo Ruozi, anni 54
- Amorveno Marzagalli, anni 54
- Antonio Francesco Lascala, anni 56
- Rosina Barbaro In Montani, anni 58
- Irene Breton In Boudouban, anni 61
- Pietro Galassi, anni 66
- Lidia Olla In Cardillo, anni 67
- Maria Idria Avati, anni 80
- Antonio Montanari, anni 86
giovedì 19 luglio 2012
19 luglio 1992 - 19 luglio 2012
Sono passati venti lunghissimi anni, ma il dolore grande e immenso è ancora vivo, come se fosse successo ieri.
Ciò che rammarica è che nulla è cambiato da allora, nulla è cambiato in meglio, anzi, tutto è cambiato in peggio.
Sono morti invano?
Sì, se ci arrendiamo allo stato delle cose, senza il minimo impegno per continuare ciò che loro avevano iniziato.
Nò, se facciamo tesoro del loro sacrificio e continuiamo a lottare e ci impegnamo a continuare ciò che loro avevano iniziato, per dare un volto nuovo e un futuro nuovo a questo paese.
Ma è tutta utopia, la mafia è un cancro attaccato allo stato, e non lo si estirperà se non effettuando una profonda e radicale pulizia.
Vent'anni sono passati, e come tante pagine nere della storia del nostro paese, continuiamo a combattere contro un muro di gomma.
Il ricordo del figlio di Paolo Borsellino:
Grazie, caro papà
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …..desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere. D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.
Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere".
Ciò che rammarica è che nulla è cambiato da allora, nulla è cambiato in meglio, anzi, tutto è cambiato in peggio.
Sono morti invano?
Sì, se ci arrendiamo allo stato delle cose, senza il minimo impegno per continuare ciò che loro avevano iniziato.
Nò, se facciamo tesoro del loro sacrificio e continuiamo a lottare e ci impegnamo a continuare ciò che loro avevano iniziato, per dare un volto nuovo e un futuro nuovo a questo paese.
Ma è tutta utopia, la mafia è un cancro attaccato allo stato, e non lo si estirperà se non effettuando una profonda e radicale pulizia.
Vent'anni sono passati, e come tante pagine nere della storia del nostro paese, continuiamo a combattere contro un muro di gomma.
Il ricordo del figlio di Paolo Borsellino:
Grazie, caro papà
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua. Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre. Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dopo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare. Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii. Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …..desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere. D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di …. o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.
Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita.
Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere".
Mi uccideranno,
ma non sarà una vendetta della mafia,
la mafia non si vendica.
Forse saranno mafiosi
quelli che
materialmente mi
uccideranno, ma
quelli che avranno
voluto la mia morte
saranno altri.
- Paolo Borsellino -
lunedì 28 maggio 2012
PIAZZA DELLA LOGGIA 38 ANNI DOPO
Passano gli anni,
il tempo non lenisce il dolore.
Si manifesta il proprio dissenso
ma la libertà è solo
utopia.
L'ennesimo muro di gomma,
la verità rimbalza.
I colpevoli
sono liberi.
Oggi c'è chi
è morto due volte.
Requiem
Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
Euplo Natali, anni 69, pensionato
Luigi Pinto, anni 25, insegnante
Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
Vittorio Zambarda, anni 60, operaio
il tempo non lenisce il dolore.
Si manifesta il proprio dissenso
ma la libertà è solo
utopia.
L'ennesimo muro di gomma,
la verità rimbalza.
I colpevoli
sono liberi.
Oggi c'è chi
è morto due volte.
Requiem
Giulietta Banzi Bazoli, anni 34, insegnante
Livia Bottardi Milani, anni 32, insegnante
Euplo Natali, anni 69, pensionato
Luigi Pinto, anni 25, insegnante
Bartolomeo Talenti, anni 56, operaio
Alberto Trebeschi, anni 37, insegnante
Clementina Calzari Trebeschi, anni 31, insegnante
Vittorio Zambarda, anni 60, operaio
sabato 26 maggio 2012
VIA DEI GEORGOFILI, 19 ANNI DOPO
IL TRAMONTO
Il pomeriggio
se ne va.
Il tramonto si avvicina,
un momento stupendo,
il sole sta andando via (a letto)
è già sera tutto è finito.
Nadia Nencioni - 9 anni
Firenze, 24 maggio 1993
Requiem
Caterina Nencioni (50 giorni di vita)
Nadia Nencioni (9 anni)
Dario Capolicchio (22 anni)
Angela Fiume (36 anni)
Fabrizio Nencioni (39 anni)
mercoledì 23 maggio 2012
20 ANNI DOPO...
Sono passati 20 anni da quel 23 maggio 1992, ma il ricordo di quel giorno rimane indelebile nella mia mente.
Ricordo che era una giornata di sole, era caldo, e il pomeriggio eravamo usciti, io e mio fratello con mia mamma a fare delle commissioni.
Papà aveva lo studio poco distante da casa, non rincasava mai prima delle 20, il lavoro era tanto e gli faceva fare sempre tardi.
Quel giorno successe una cosa strana, nel tardo pomeriggio quando rincasammo dal giro, appena varcata la soglia di casa, si sentivano delle voci concitate, era la televisone, papà stranamente era rincasato molto rima del solito.
Siamo andati verso il salotto, e mamma chiese a papà cosa fosse successo: alla televisione c'erano delle immagini di una strada squarciata, moltissime macerie, macchine dilaniate e sommerse dai detriti, molta gente affollava il posto, molti erano in divisa, carabinieri, poliziotti, molte forze dell'ordine. Guardo il mio papà, aveva le guance rigate dalle lacrime: "Hanno ucciso Falcone, insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della scorta, un attentato, una bomba sull'autostrada, all'altezza di Capaci".
Sentii il sangue raggelarmi nelle vene.
Mio papà è siciliano. Mio papà è un avvocato. Mio papà fin da piccoli ci ha educati e ci ha insegnato che quello splendido territorio dove noi andiamo una, due volte l'anno a passare le vacanze, è un territorio segnato dalla Mafia, ci ha insegnato che la Mafia è una cosa cattiva, che corrode, e si espande silenziosamente facendo marcire ogni cosa, deteriorando le fondamenta della legalità, del rispetto e dello sviluppo.
Papà ci ha insegnato che bisogna reagire a questa Mafia, che ci sono persone che nonostante tutto, lottano per sconfiggerla e riportare la legalità a valore principe della vita delle persone.
Falcone era una di queste persone che aveva dedicato la sua vita alla lotta alla Mafia, ma era stato lasciato solo, e la Mafia aveva vinto, la Mafia lo aveva messo a tacere per sempre.
Quel giorno qualcosa era cambiato, il sole non era più così splendente, la temperatura non era più molto calda, la spensieratezza non era più palpabile come qualche ora prima: la tristezza si stava impossessando di me, il mio papà, un uomo forte, che non si faceva scalfire da nulla, aveva le guance rigate dalle lacrime, qualcosa di grave lo aveva ferito profondamente. La sua terra, ma con essa tutto il nostro Stato, si era macchiato del sangue di uomini che lottavano per la legalità dello Stato stesso. Vittime della Mafia, di un cancro che si espande e mina la stabilità del Paese, mina la legalità, mina i valori fondamentali della giustizia.
Ma Falcone non fu il primo, a morire per questo Paese che lo ha lasciato solo, che lascia soli chi lotta per cambiare lo stato delle cose, e purtroppo non fu nemmeno l'ultimo.
"Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbarco alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non siano alleati a Cosa Nostra - per un'evidente convergenza di interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.
Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcuni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente innocue, certi comportamenti, che nel resto d'Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un prestito perfettamente legittimo, né un alterco fra deputati né un contrasto ideologico all'interno di un partito. Accade quindi che alcuni politici in un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. E allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre [tutti uccisi dalla mafia] erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati.
Il condizionamento dell'ambiente siciliano, l'atmosfera globale, hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti, valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto."
- Giovanni Falcone -
Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.
In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.
- Giovanni Falcone -
venerdì 27 gennaio 2012
27 GENNAIO: GIORNATA DELLA MEMORIA- PER NON DIMENTICARE
Un fiocco di neve sulla notte dei cristalli
Un fiocco di neve
si posa sul filo spinato,
poi si scioglie, diventa fanghiglia,
sulle orme che trascinano lente
l'innocenza,
la colpa del niente.
Rami spogli di un inverno
a finire
per milioni di vite,
derise e racchiuse silenti
dentro strisce di stoffa
che una lurida mente
ha imbastito e cucito
sulla pelle emaciata,
come fosse di Luna.
Intanto, l'acre fumo si perde,
disegnando nubi grigie in salita
alitando le grida di orrore,
dal comignolo dell'indifferenza.
- Manuela Magi -
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