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domenica 4 novembre 2012

Maestri. 37. Jan Lenica

Jan Lenica (Poznań, 4 gennaio 1928, Berlino, 5 ottobre 2001) è stato uno dei più grandi grafici polacchi. Al suo attivo più di duecento manifesti, sopratutto per il teatro e il cinema. Membro dell'AGI, Alliance Graphique Internationale. Lenica si era anche occupato, a lungo, di cinema di animazione. I suoi cortometraggi hanno vinto numerosi premi ai più importanti festival internazionali. Tra le opere più note ci sono "Dom" (realizzato con Walerian Borowczyk), "Nowy Janko Muzykant", "Labirynt" e il lungometraggio "Adam II". Al suo attivo anche una versione animata di "Ubu Roi".

Manifesto per Circo, 1976

C’è un aneddoto che è circolato per molto tempo, quando in Polonia governava ancora il “socialismo reale” e le commesse, anche grafiche, erano centralizzate dalla burocrazia statale. Mettiamo dunque che un grafico qualsiasi, che chiameremo X, venga chiamato per un manifesto celebrativo del primo maggio, o di qualsiasi altra data cara al governo. Il grafico X accetta la commissione ma con mugugno: «Eh, va bene, ma a me toccano tutti i temi noiosi, mai un bel manifesto...». Il funzionario, di là dalla scrivania, ascolta, sospira, poi alla fine esclama rassegnato: «Allora fammi anche un manifesto per il Circo!». Chissà se è vero. Certo che è ben trovato!

Non solo perché il tema del Circo è stato un grande cavallo di battaglia della recente “scuola polacca” del manifesto, ma anche perché ben esprime quelle individualità che hanno caratterizzato quella scuola che è riuscita, negli anni che vanno tra il 1960 e il 1990, a esprimersi con stili grafici sempre diversificati e riconoscibili, pur all’interno di una logica complessiva, che potremmo chiamare “di regime”.

Manifesti per Othello e Faust, Teatr Wielki, anni '60



Della 'scuola polacca' (di cui fecero parte Roman Cieslewicz, Waldemar Swierzy, Henrik Tomaszewski...), Jan Lenica era stato uomo di punta, singolare per lo stile essenziale, per i colori accesi, per i tratti espressionisti, per le linee nere fortemente caratterizzate.

Poi, naturalmente, della 'scuola' Lenica condivideva il gusto per il surreale e la gelosia per la propria cifra stilistica. Perché le opere di Lenica si distinguono sempre per lo stile particolarissimo, per quel soffermarsi sul dettaglio, isolandolo dal contesto e facendolo diventare elemento essenziale della comunicazione.  

Manifesto per L'avventura di Michelangelo Antonioni

Manifesto per Il bidone di Federico Fellini

Manifesto per Repilsion di Roman Polanski

Naturalmente tutto questo sempre all'interno di una poetica generale dell'antigrazioso, potremmo dire, con i personaggi truci e forti, i segni marcati e neri, i ghigni trucibaldi e sanguigni, pur nell'astrazione della figura. E infatti Lenica assomiglia non poco a Roualt e Grosz, a Jean Dubuffet e Enrico Baj.

Manifesto per Wozzeck, 1964

Manifesto per Ubu et la grande gidouille, 1979
Con Enrico Baj, Jan Lenica condivise l'amore 'patafisico' per l'Ubu Re di Alfred Jarry, personaggio ideale per la grafica del nostro. Lenica lo disegnerà per due cartoni animati (Ubu Roi e Ubu et la grande gidouille) nel 1976 e nel 1979.

Illustrazioni per Ubu et la grande gidouille, 1979





I colori che l'artista dedicherà al Padre Ubu saranno cupi, ai limiti dell'ossessione. Quasi un bianco e nero sporcato con poche, limitatissime, tracce di colore. L'atmosfera resta sempre tetra, quasi claustrofobica; in tutta evidenza Lenica non si sofferma sugli aspetti comici e buffoneschi  di Ubu, ma su quelli angosciosi e quasi tragici. Una lezione da cui restano lontani il sarcasmo, l'ronia, l'umorismo.



Copertina e illustrazioni per Teo, l'uomo di neve, 1988




Dell'artista si conosce un solo sconfinamento nel mondo dell'infanzia: Teo, l'uomo di neve illustrato nel 1988 per il testo di Sylvia Loretan e pubblicato in Italia da Arka.

Nelle illustrazioni per questo libro Lenica, pur non arretrando di un passo dal proprio stile fortemente definito, si apre al colore e al sorriso. L'omino di neve si annoia a star solo e se ne va al sud; torna a casa sotto forma di nuvola, dopo essersi sciolto al sole. Al freddo dell'inverno della sua terra la nuvola lascerà cadere la neve e i bambini costruiranno ancora un pupazzo di neve, un nuovo Teo, bello come e più di prima.

Copertina per Graphis, numero 183

mercoledì 12 settembre 2012

Maestri. 36. Copi

È in genere durante i periodi di vacanza che si cerca di rimettere a posto i cassetti, di riordinare gli scaffali delle librerie, e capita a volte di 'riscoprire' veri e propri tesori che avevamo allontanato nella memoria e nel tempo. Così, nei giorni torridi di quest'agosto, mi è tornato a mano il volume che Franco Quadri aveva dedicato, pochi mesi dopo la morte, nel 1987, al teatro di Copi. Ne ho sfogliato l’indice, scorso qualche pagina, spiluccato qua e là dalle introduzioni, e mi sono trovato a rileggermelo e godermelo tutto.


Di Copi (Raul Damonte Taborda, argentino, nato a Buenos Aires nel 1939 e morto a Parigi nel 1987) in questi anni ci si è quasi dimenticati. Qualche apparizione o riapparizione di alcuni dei testi teatrali più significativi e/o trasgressivi, rare, ancorché preziose, ricognizioni critiche, pochissime riproposte della sua opera disegnata, relegata, quest’ultima, ormai nelle vecchie raccolte di Linus o nei pochi, e ormai datatissimi, albi. Anche internet pare si sia dimenticata di Copi; scarsa, addirittura misera, la sua presenza in rete e quasi tutta riduttivamente ospitata in pagine di cultura gay.

Copi (Raul Damonte Taborda)

Il posto di Raul Damonte nella cultura europea della seconda metà del secolo XX è comunque ben più solido e importante. Intellettuale raffinato e coltissimo, cartoonist, commediografo, romanziere, regista, attore (ricordiamo di averlo visto, nell’inverno del 1981, interpretare, accanto ad Adriana Asti e Manuela Kustermann e con la regia di Mario Missiroli, Le serve di Genet, nel ruolo della Signora, presenza en travestì di rara eleganza, alta e dinoccolata giraffa, lui magrissimo, signore/a assoluto/a della scena), la sua parabola artistica si muove tutta nel campo dell’avanguardia humour noir. E nell’interazione dei generi: Copi non dimentica mai, come cartoonist, il Copi teatrante e trasporta nel fumetto i tempi dilatati della scena, con le sue pause, il suo ritmo e le cadenze. I dialoghi tra la donna seduta e i suoi improbabili, molteplici, interlocutori  (polli, topi…) tornano poi, dal fumetto al teatro, con la naturalezza dell’ovvietà.

Copi, Storie puttanesche, Mondadori, 1979


Copi è sempre ironico, macabro, surreale. Nel fumetto rappresenta piccoli drammi di alienazione e spaesamento, fotografa la solitudine, la difficoltà di vivere e il bisogno di relazione in maniera ilare e struggente.





La sua macchina teatrale può essere ambiguamente perversa e allora Copi ci offre, ad esempio, la morte presunta di Eva Peron come l'astuta messinscena della santa dei descamisados per fuggire in Svizzera a godersi in pace il contenuto pingue della sua cassetta di sicurezza. Oppure, suprema eleganza del grande umorista, sbeffeggia la sua stessa propria morte per Aids, mettendola preventivamente in scena con una sorta di definitivo e pirotecnico grand guignol.


Il teatro di Copi non è mai dove si crede che sia in quel momento. È un teatro tragico e comico al tempo stesso, grottesco e surreale, dove l'identità si moltiplica a dismisura fino a perdersi; dove lo spazio (letteralmente) esplode fino all'astrazione assoluta della scena e della parola; dove un personaggio è indifferentemente uomo o donna, vivo o morto; dove accadono le peggiori efferatezze, violenze, stupri, torture, eppure si ride; dove tutto è improntato all'anarchia, anche politica, più sfrenata, ma all'interno di strutture drammaturgiche raffinatissime; dove la morte regna sovrana senza essere mai presa sul serio, perfino quella di Copi stesso che, sul suo letto di morte malato di Aids, ha scritto una commedia in cui si parla di un teatrante sul letto di morte malato di Aids, dimostrando così di saper ridere perfino della propria fine, e obbligando i suoi amici più cari a sbellicarsi dalle risa quando la commedia stessa debuttò in teatro proprio pochi giorni dopo la sua morte." Stefano Casi

In questi testi, come negli altri della sua bibliografia, non è mai lontana la lezione delle avanguardie storiche e vi si legge in modo evidente  la derivazione,  quasi una devozione filiale, da Alfred Jarry.
Eva Peron è infatti gemella siamese della Madre Ubu: come lei è una truffatrice scurrile, ipocrita, contraddittoria. Lamentosa e prepotente, astuta e infantile. O forse è la realtà a somigliare, magari senza nemmeno tanta ironia, al mondo solitario e ambiguo di Copi; è l’Evita Peron della realtà a sembrare quella di carta di Raul Damonte, ed è la morte ad affacciarsi sulla scena e nel fumetto come presenza con cui i conti si devono fare senza inutili drammi: con un sorriso o, come Copi ci ha insegnato, con un perfido, elegantissimo ghigno.

Bibliografia essenziale in lingua italiana:
CopiI polli non hanno sedie, Mondadori, 1967.
Copi, Storie puttanesche, Mondadori, 1979.
Copi, Teatro, a cura di Franco Quadri, Ubulibri, 1988.
Il teatro inopportuno di Copi, a cura di Stefano Casi, Titivillus, 2008, euro 18,00.

domenica 25 settembre 2011

Ubu Re, l'idiota creativo



Andrea Rauch

Chi è Ubu? si chiede nel pezzo che pubblichiamo di seguito Vittoria Ripamonti. Le risposte possono essere tante ma sopratutto Padre Ubu, creatura pata e metafisica, gran dissacratore delle convenzioni, è personaggio 'scandaloso' perché appunto incapace di rispettare quello che il senso comune si aspetta. Non è quindi un caso che sia stato sempre amato dagli 'irregolari' del mondo della grafica e del teatro, a partire dai primi schizzi di Alfred Jarry per risalire addirittura a Joan Mirò, e poi su su, verso Lele Luzzati e Jan Lenica, che dedicò al personaggio di Jarry un introvabile film di animazione, e al patafisico moderno Enrico Baj che a Ubu ha tributato più di un omaggio. La nostra casa editrice ha pronti, in attesa del proprio turno di stampa, i tre libri di Ubu, disegnati da Andrea Rauch. Sarà quella l'occasione per ripercorrere la fortuna di un personaggio tra i fondamentali del teatro moderno.


Alfred Jarry
Il cialtrone divino
Vittoria Ripamonti

Quello che fa ridere i bambini fa paura ai grandi.
Alfred Jarry


Dunque chi è, o cos’è, Padre Ubu? È un manigoldo, un vigliaccone, un subdolo, un violento, un prevaricatore? Uccide il tiranno per farsi lui stesso tiranno, dilapida fortune e ne ammassa altre, distribuisce ai poveri e toglie ai ricchi, ma toglie soprattutto ai poveri, e a tutti, per farsi più ricco. Va alla guerra ma si nasconde. Manda i soldati alla carica ma è il primo a fuggire. Con lui tutti possono cascare nella botola, “nel buco”, o sprofondare nella sua tasca, inghiottiti da quella spirale senza fondo, la sua “giduglia”, che somiglia al vortice incantato dove Alice va a cercare il suo paese meraviglioso.
E basterebbe, in fondo, quest’elenco per far apparire chiaro che Padre Ubu può essere tutto e il contrario di tutto. E quindi “è” tutto!

Il Padre Ubu esiste, – ebbe a scrivere il giornalista Catulle Mendès, nel 1896. – Misto di Pulcinella e Polichenelle, di Punch e di Karagueus, di Mayeux e di Joseph Prud’homme, di Robert Macaire e di M. Thiers, del cattolico Torquemada e dell’ebreo Deutz, di un agente di pubblica sicurezza e dell’anarchico Vaillant, enorme parodia impropria di Macbeth, di Napoleone, di un manutengolo divenuto re, egli esiste, ormai, indimenticabile. Non vi libererete facilmente di lui…

Enrico Baj
Enrico Baj

Enrico Baj
Mendès cercava di fare un ritratto fortemente negativo di Ubu e dell’opera di Jarry; in realtà finì per tracciarne il ritratto assoluto e perfetto, l’identikit, la definizione inevitabile. Perché il Padre Ubu è un ossimoro, ma è anche uno dei grandi archetipi della storia del teatro, capace di raccogliere in sé ogni imprevedibile umore e bassezza, ogni formulazione ed enunciazione idiota o visionaria. E la sua compagna, quella Lady Macbeth in sedicesimo che è la Madre Ubu, è compagna degna (o indegna che è lo stesso) di tanto discutibile, e discusso, personaggio.

(…) Il Padre e la Madre Ubu sono al di là e al di sopra di ogni senso morale e di ogni scrupolo, realmente e perfettamente “patafisici” (essendo la patafisica, secondo Jarry, la “scienza delle soluzioni immaginarie”) come aveva provveduto a disegnarli e renderli vivi il loro autore.
Ubu e la Madre si contraddicono quasi ad ogni frase, si beccano e si ingiuriano, si inventano un mondo di riferimenti trucibaldi, deliranti, improbabili. La loro disputa eterna e ininterrotta è tra dire e disdire, affermare e contraddire. Disputa feroce e insensata, patafisica anch’essa, dove ogni soluzione può essere possibile, anzi sicura, perché immaginaria e quindi intangibile.

Enrico Baj

Joan Mirò
Padre Ubu è una costruzione giocosa e ghignante, scandalosa e infantile. Nasce nel chiacchiericcio pregoliardico di un liceo, a Rennes, nel 1885, e i primi canovacci che lo vedono agire si collocano a cavallo tra la beffa scolastica e la satira d’occasione, con il racconto, epico e rapsodico, delle gesta di un professore di fisica di quel liceo, fortemente indigesto, si suppone, ai suoi studenti.
Il professor Hébert, Ebée, è, in quel liceo, tradizione orale studentesca che passa di classe in classe, di bocca in bocca, di quaderno in quaderno: le sue gesta immaginate diventano quasi leggenda. Ebée, poi Ubu, mantiene il tono di fanciulla e sapida arroganza delle proprie origini occasionali, ne sublima il tono scanzonato e ammiccante, si pone subito, volontariamente e incoscientemente, al di là e al di fuori della società teatrale e civile francese di quella fine secolo. Il Padre Ubu ne può e ne vuol fare a meno. Di quella società intendiamo. Per questo è scandaloso.

Andrea Rauch
Ubu nasce anche come burattino del Théâtre des Phynances e questa sua altra natura drammatica giustifica e stempera gran parte delle sue colossali smargiassate, ci fa pensare a delle teste di legno prontissime a entrare dentro tutti i buchi o le tasche o le ventraglie del mondo, ma altrettanto pronte ad uscirne fuori e a ricominciare dal punto di partenza, a dare e prendere bastonate.
Burattini, dalla parola facile e dal vocabolario limitato e rozzo (ma Ubu parla anche in un bel latinorum e inventa continuamente concetti e parole, merdre, jidouille..., anch’esse del tutto patafisiche, che si vanno a incastonare nel testo apparentemente come deliri verbali, come il farneticare sconnesso di un fuori di testa). In realtà, in moltissimi passi, si tratta di gustosi riferimenti letterari che partono a volte da Gargantua, passano per il liceo di Rennes e approdano spesso alle poetiche dell’avanguardia. (…)


Andrea Rauch
Andrea Rauch

Quando Alfred Jarry mise in scena Ubu roi per burattini (1896), al Théâtre des Pantin, il Pinocchio di Collodi era appena uscito a stampa, nel 1883, e tra i due capolavori ci sono assonanze significative.
Pinocchio e Ubu nascono burattini e da questa evidente natura fiabesca e teatrale derivano una sostanziale alienità dal mondo che li circonda. Entrambi dicono e non dicono, si muovono in maniera sghemba e umorale, sono tutti nervi e sensi, 'drammatici e vegetali', lontani dalla freddezza e dai rigori della ragione. Entrambi mettono costantemente in dubbio, e nei fatti negano, le convenzioni del viver civile, i sentimenti buoni, ogni possibile o ipotizzabile logica di relazione.

Andrea Rauch
Abbiamo prima detto che Ubu è scandaloso: lo è anche Pinocchio, perché non risponde per le rime ma corre via, fugge, esce dalla tangente.
Pinocchio e il Padre Ubu sono figure imprescindibili della letteratura perché seminano e agitano il dubbio. Sono personaggi borderline, a cavallo delle esperienze e delle possibilità.
Secondo una felice definizione di Lewis Hyde ripresa da Antonio Faeti, Pinocchio e Ubu sono “… tricksters, che nascono affamati, ma ben presto diventano padroni di quella forma di inganno creativo che è un prerequisito dell’arte […] Il trikster è l’idiota creativo, il saggio buffone, il bambino dai capelli grigi, il travestito, il dissacratore. Laddove un senso di onesto comportamento impedisce a qualcuno di agire, lì apparirà il trickster pronto a suggerire un’azione amorale, qualcosa di insieme giusto e sbagliato, che permetterà alla vita di continuare.



Emanuele Luzzati

Ubu quindi mette in crisi i valori del suo tempo ma non si ferma a guardare i frutti dell’albero che ha piantato. Distrugge ogni ponte alle sue spalle e fugge lontano. Sempre secondo la lettura di Antonio Faeti, la laidezza, il cinismo, la scurrilità di Ubu lo possono sicuramente far iscrivere nell’elenco, sempre in via di aggiornamento, dei grandi cialtroni. Ma l’importanza di Ubu è, già detto, imprescindibile per il teatro del novecento e la sua ‘lezione’ è quasi ‘divina’.
Padre Ubu, un cialtrone divino, quindi.

martedì 12 luglio 2011

Gigli e Prìncipi a Mercantia


Mercantia è uno dei Festival di Teatro di strada più famosi e consolidati in Italia. Giunto ormai alla ventiquattresima edizione raccoglie, nello straordinario scenario medievale di Certaldo alta, un numero impressionante di teatranti, grandi e piccoli gruppi, canta e contastorie, burattinai, maghi, giocolieri, animatori. Gli spettacoli si inseguono e si scambiano con ritmo forsennato tra le vie e piazze, gli slarghi e i cortili del paese, dalle 8 del pomeriggio fino a notte fonda. E poi mostre, eventi vari e le bancarelle dei 'liberi artigiani' che offrono le loro 'mercantie' al pubblico e ai passanti. Una settimana accaldata (da mercoledi 13 a domenica 17 luglio), fitta di occasioni e appuntamenti: basta dare un'occhiata al programma per selezionare il proprio personale modo di godere il festival.


Due momenti dalle precedenti edizioni di Mercantia

Prìncipi & Princípi sarà presente a Mercantia per presentare la propria proposta editoriale e i suoi illustratori. Un fondo in via della Rena ospiterà i libri e una piccola mostra. Sarà anche l'occasione, e ne daremo conto in dettaglio fotografico nei prossimi giorni, per presentare Di cotte e di crude, un libro di filastrocche, racconti, aforismi, ultima fatica di Alessandro Gigli, contastorie 'storico', animatore instancabile del 'teatro si strada' (che lui comunque chiama ormai 'quarto teatro'), direttore artistico di Mercantia (ma anche di altri storici festival quali La luna è azzurra di San Miniato e Incanti e Banchi di Castelfiorentino).

Crude, cotte, raccontate, disegnate  
Testi di Alessandro Gigli, disegni di Andrea Rauch

Raccontare e disegnare il cibo è esigenza atavica, in certo senso archetipica. Alessandro Gigli racconta il cibo con storie, filastrocche, aforismi. Andrea Rauch le disegna con acquerelli fortemente sottolineati dal tratto nero. Entrambi compiono il gesto antico di esorcizzare la fame, evocano e affrontano lo spettro per rimuoverlo dalla coscienza. L’uomo ha paura della fame e ogni atto diventa quindi, in qualche modo, simbolico e rituale. Come nel sogno dello Zanni o nel paese di Bengodi di Calandrino il cibo è sempre visto, da Alessandro Gigli, in forma di montagna, di elencazione di ingredienti e portate. La fame, nelle sue storie, è spesso compilatoria, eccessiva, smodata.

Andrea Rauch segue il testo secondandone le metafore che, quasi ogni rigo, il testo stesso presenta. Evocazioni e suggestioni, diremmo, ma anche un genuino andamento popolare e ‘plebeo’, disegni ‘semplici’, dai colori squillanti, senza eccessive concessioni elitarie.


Un libro che rinfresca e rinnova l’ormai ventennale collaborazione tra Alessandro Gigli e Andrea Rauch che, agli inizi degli anni '90 avevano preparato, l'uno come fabulatore e burattinaio, l'altro come scenografo e disegnatore, uno dei grandi capolavori del teatro del '900, quell'Ubu Cocu che conclude il ciclo di Alfred Jarry dedicato al Padre Ubu e ai suoi sgangherati comprimari.



Alessandro Gigli anima il teatrino di Ubu cocu, 1990



Alessandro Gigli
Di crude e di cotte
Illustrazioni di Andrea Rauch
Euro 14,00

In libreria dal 28 luglio