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lunedì 24 luglio 2017

Togliti le scarpe e andiamocene via insieme a piedi nudi

Per un breve periodo questa è stata la frase sul mio profilo Whatsapp.
Mentre la scrivevo, e quando la rileggevo, non sapevo a chi la stessi rivolgendo. Perchè andava bene per molte persone con cui avevo a che fare in quel momento.
Mia figlia così tesa e rabbiosa. Mio marito così complicato e distante. Uno o due uomini e una o due donne con cui interagivo o avrei voluto interagire spesso e con cui, se mi avessero detto “metti due cose in uno zaino, andiamo a fare un viaggio io e te”, sarei partita, perchè avremmo avuto di che parlare per giorni e giorni, in treno, in tenda, in macchina, a cena, per strada e anche a letto, vestiti o meno non era importante, era più importante spogliarsi a livello emotivo. La Tipa, con cui questa primavera andavo a yoga, se gliel'avessero mai detto, allora, a lei super ingegnera che sarebbe finita su un tappetino a visualizzarsi i chakra, mai e poi mai ci avrebbe creduto. Forse mia madre. Una o due delle mie colleghe e compagne dei corsi yoga, particolarmente messe alla prova dalla vita.

Stanotte sono rientrata alle due, a piedi nudi, con i sandali in mano. Me li sono sfilati a pianterreno e li ho tenuti in mano in ascensore. Di ritorno da uno dei molti paesini dove tutti i ragazzi, ma proprio tutti, sono stati miei alunni o tra poco lo saranno.

C'era la festa di paese animata da uno di loro, Mani da Pianista, che adesso collabora con l'Uomo per il festival e lo aveva invitato. E io ero invitata dai Puccettosi, della terza C di due anni fa. Poi c'era la Caramella, che a sua volta incoraggiava la mia partecipazione e doveva narrarmi del suo nuovo uomo.
Mi sono sentita come se fossi tornata all'età che ha la Princi ora, quando ho iniziato a sforare dall'orario di rientro stabilito da mio padre, e a rincasare scarpe in mano, ogni sera dieci minuti dopo. Mi lasciava la luce accesa in salotto o in ingresso, papà, quando andava a dormire. Io spegnevo tutto e attraversavo in punta di piedi il grande appartamento, al buio, con la luce della Lanterna che si proiettava sul muro del salotto a intervalli fissi. Mi tagliava la strada la gatta, a volte. C'era un silenzio.

L'Uomo mi aspettava sveglio, stanotte. Non so dire se nervoso per il mio rientrare tardissimo. So che ieri sera, invece di uscire, abbiamo fatto aperitivo sul divano davanti a "The Following", cenetta sul tardi io e lui, e all'ora in cui la Princi doveva rientrare eravamo sdraiati a letto a sentire musica sul suo telefono. Solo musica lenta e dolce, dove si scopre che questa ci ha stregati entrambi.

Io, dopo averla colta come sottofondo in una puntata di "Justified", l'ho sentita nella testa per giorni.
E ieri notte l'Uomo mi ha fatto ascoltare questa, che, per carità, è una roba che forse avrei trovato melensa anche a quindici anni (no: ascoltavo Phil Collins e Marco Masini, diciamo le cose come stanno) e lui è insopportabile quanto spesseggia, ma, visto il testo, magari l'hanno scritta dopo aver letto i mei diari segreti o le mie conversazioni Whatsapp per gli ultimi due anni.


Ieri, rientrando dai vari giri per il Nord Italia che avevamo fatto separatamente, non ci siamo più mollati, nemmeno se c'era da vedere la partitella del Genoa su Sky, nemmeno se c'erano da fare due commissioni veloci in giro. E non era quello stare vicini ansioso da “sto perdendoti, ti ho perso e posso solo succhiare la tua presenza quando passi, ti perderò di nuovo domani” che spesso ha caratterizzato il nostro tremendo amore malato. Era più come i primi tempi, quando non sei mai stanco di allungare il giro di cose da fare per passare più tempo insieme. Quando nella mia valigetta, oltre agli appunti della specializzazione, hanno cominciato a esserci spazzolino e biancheria, perchè ogni sera improvvisavamo, e stava diventando evidente a chiunque che andavo a lezione coi vestiti del giorno prima. Ma non mi portavo quasi mai il cambio completo: dormire con la sua tuta o una sua maglietta, andare in cucina al mattino a piedi nudi, e avere come unica sicurezza un paio di mutandine pulite nascoste in fondo alla borsa, era bellissimo. Era appunto essere nudi. Senza altro bisogno che stare insieme. Di lì a poco ho trasferito direttamente tutto da lui. Mai passo avventato fu più goduto, e meno rimpianto. No, non è vero. Goduto ancora di più, e rimpianto ancora di meno, l'avergli detto, la prima sera, mentre arrivavamo nel cuore della notte alla sua auto in piazza Colombo, che volevo dormire da lui. Lui che mi aveva baciato la prima volta mezz'ora prima, dopo un corteggiamento lungo mesi. Non lo sapevo ancora, ma non separarsi mai più era diventato, da mezz'ora, l'obiettivo di tutta una vita.
Madonna quanto eravamo belli. La gente faceva rispettosamente ala, costretta a mettersi gli occhiali da sole per riuscire a guardarci, facevamo splendere le strade e le stanze in cui passavamo. Ecco, ieri mentre lui metteva le canzoni sul telefono mi sentivo di nuovo così. Bella, fresca, a piedi nudi, felice anche di portare giù la spazzatura insieme, felice di un grissino con la bresaola mangiato sul divano, felice di sentirlo canticchiare o parlare con la gatta. Lui e il suo umore impossibile da definire, lui e i suoi sguardi bicolori, lui e il suo peso sul materasso al mio fianco.
Lui. Noi. Devo chiudere gli occhi e tenere questo nel cuore, per tutti i giorni in cui è troppo doloroso, in cui è ingiusto e malsano, in cui voglio il miracolo e non arriva ancora. Intanto, le ferie vere si avvicinano. Le prime ferie vere di nuovo noi due, da quando c'è anche la Princi. Conto alla rovescia iniziato. Non impazzire nell'attesa. Non sclerare nell'attesa. Se hai aspettato finora... E non piangere. Non piangere più.




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