La mia psicologa mi ha detto di immaginarmi in una determinata scena, che io le ho descritto nei dettagli. Mi ha detto di associare alla sensazione che provavo un colore: ho risposto il rosso. Io indosso spesso il rosso quando voglio dimostrarmi sicura di me.
Poi mi ha chiesto di associare il rosso a un'altra immagine e io ho pensato ai papaveri. Ma, invece di intristirmi, ho capito che stavo pensando al punto da cui dovevo ripartire.
Quella primavera in cui faceva così caldo che ad aprile sono fioriti i papaveri. I papaveri che erano dappertutto quando è morta la Compagna Collega.
I papaveri di quando un'astronave aliena mi ha portato via, restituendomi qualche settimana dopo in uno stato pietoso. I papaveri di quando la mia vita si è rotta.
Devo ripartire da lì.
Oggi ho fatto domanda di trasferimento.
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lunedì 20 aprile 2020
sabato 18 maggio 2019
Quando fioriscono i papaveri
"Prof, ma perché il missile è... così???"
"E non lo so, Gioiello... Dell'Extraterrestre almeno sappiamo che è nato dove è nato..."
Il Missile: "Prof, io sono nato quando è esplosa la cosa nucleare."
"Ah ecco."
"Sì, proprio lì dentro."
"Praticamente sei un Simpson."
"E lei dov'è nata prof?"
"Io? Io sono nata nelle profondità dell'inferno."
Poi loro escono, gli occhi pieni di una gioia senza motivi, tutto un magnifico weekend davanti, la mamma o la nonna che li aspetta a casa con la fettina, WhatsApp e la PlayStation pronti a scattare.
La prof torna in aula lungo un corridoio freddo e, quando entra, investita dall'onda di calore corporeo ancora presente, chiude gli occhi e pensa: che buon odore hanno i miei ragazzi.
Alla professoressa comunque ultimamente gliene è successa una, di quelle che succedono quando fioriscono i papaveri ai bordi delle strade e le persone, in piena notte, lasciano cadere i convenevoli e gli orpelli. E tutto è travolto da un profumo inconfondibile d'estate e di buio, quel buio in cui chiudi gli occhi e annusi, senza paura, e i brividi che hai non sono di freddo.
La professoressa l'ha vista passare, questa cosa, cercando di non forzarla dentro un senso, solo di viverla, e scoprendo che poteva arrivare dall'altra parte con un misto di sensazioni, molte delle quali positive, e senza mai la sensazione di aver perso il contatto con la terra. Le ossa si sono un po' scaldate al tepore della verità, ma non si sono spezzate, o sciolte. Non ci vorranno mesi di riabilitazione, stavolta.
Nei momenti in cui prevalgono le sensazioni negative, lo scazzo o qualche senso di incertezza, la professoressa prende la macchina e fa dei lunghi giri sulle colline o in autostrada, ascoltando suo malgrado cinque sei o diciotto volte Ligabue ribadire dall'autoradio che certe donne bastano e che certe donne restano. E pensando che è assolutamente vero. Qualcuno, a cui pesa ammettere che lei è una di queste donne, le ha però confermato di essere consapevole che le donne lo sanno, lo sanno da sempre di cosa stavamo parlando, e lei ha pensato che Ligabue, che non le è mai piaciuto nel modo di cantare, però nei testi ha spesso ragione.
Lei comunque mantiene la sua incrollabile passione per le rock ballad in inglese e quindi la sua definitiva opinione su questa cosa è che finalmente, dopo anni in cui ci si girava intorno, ha assistito a the moment of truth in your lies e che quindi adesso i puntini sulle i sono tutti al loro posto e non c'è bisogno di dire o fare altro perché ormai I know that you feel me somehow, e quindi, anche se every breath you take every move you make io ci esco scema, posso comunque continuare la mia vita a testa altissima e con un bel sorriso. Soprattutto perché the closest to heaven that I'll ever be non sei tu, ma è qualcun altro, è l'Uomo, per sempre e solo l'Uomo, coi suoi pregi e i suoi difetti, i suoi occhi di due verdi diversi, e il suo peso sul materasso alla mia sinistra, il suo abbraccio caldo e il suono della sua voce sono le uniche cure, che mi calmano qualunque cosa succeda, le uniche certezze che voglio ritrovare alla fine di ogni giornata, papaveri o non papaveri.
"E non lo so, Gioiello... Dell'Extraterrestre almeno sappiamo che è nato dove è nato..."
Il Missile: "Prof, io sono nato quando è esplosa la cosa nucleare."
"Ah ecco."
"Sì, proprio lì dentro."
"Praticamente sei un Simpson."
"E lei dov'è nata prof?"
"Io? Io sono nata nelle profondità dell'inferno."
Poi loro escono, gli occhi pieni di una gioia senza motivi, tutto un magnifico weekend davanti, la mamma o la nonna che li aspetta a casa con la fettina, WhatsApp e la PlayStation pronti a scattare.
La prof torna in aula lungo un corridoio freddo e, quando entra, investita dall'onda di calore corporeo ancora presente, chiude gli occhi e pensa: che buon odore hanno i miei ragazzi.
Alla professoressa comunque ultimamente gliene è successa una, di quelle che succedono quando fioriscono i papaveri ai bordi delle strade e le persone, in piena notte, lasciano cadere i convenevoli e gli orpelli. E tutto è travolto da un profumo inconfondibile d'estate e di buio, quel buio in cui chiudi gli occhi e annusi, senza paura, e i brividi che hai non sono di freddo.
La professoressa l'ha vista passare, questa cosa, cercando di non forzarla dentro un senso, solo di viverla, e scoprendo che poteva arrivare dall'altra parte con un misto di sensazioni, molte delle quali positive, e senza mai la sensazione di aver perso il contatto con la terra. Le ossa si sono un po' scaldate al tepore della verità, ma non si sono spezzate, o sciolte. Non ci vorranno mesi di riabilitazione, stavolta.
Nei momenti in cui prevalgono le sensazioni negative, lo scazzo o qualche senso di incertezza, la professoressa prende la macchina e fa dei lunghi giri sulle colline o in autostrada, ascoltando suo malgrado cinque sei o diciotto volte Ligabue ribadire dall'autoradio che certe donne bastano e che certe donne restano. E pensando che è assolutamente vero. Qualcuno, a cui pesa ammettere che lei è una di queste donne, le ha però confermato di essere consapevole che le donne lo sanno, lo sanno da sempre di cosa stavamo parlando, e lei ha pensato che Ligabue, che non le è mai piaciuto nel modo di cantare, però nei testi ha spesso ragione.
Lei comunque mantiene la sua incrollabile passione per le rock ballad in inglese e quindi la sua definitiva opinione su questa cosa è che finalmente, dopo anni in cui ci si girava intorno, ha assistito a the moment of truth in your lies e che quindi adesso i puntini sulle i sono tutti al loro posto e non c'è bisogno di dire o fare altro perché ormai I know that you feel me somehow, e quindi, anche se every breath you take every move you make io ci esco scema, posso comunque continuare la mia vita a testa altissima e con un bel sorriso. Soprattutto perché the closest to heaven that I'll ever be non sei tu, ma è qualcun altro, è l'Uomo, per sempre e solo l'Uomo, coi suoi pregi e i suoi difetti, i suoi occhi di due verdi diversi, e il suo peso sul materasso alla mia sinistra, il suo abbraccio caldo e il suono della sua voce sono le uniche cure, che mi calmano qualunque cosa succeda, le uniche certezze che voglio ritrovare alla fine di ogni giornata, papaveri o non papaveri.
martedì 24 aprile 2018
Questa parte della mia vita si potrebbe chiamare: casa.
Venerdì
20 aprile
La
professoressa guardò l'ora mentre sfrecciava nel bosco e si disse
che non ce l'avrebbe più fatta ormai a prendere il caffè con
l'Orsone.
Pazienza.
Il
venerdì mattina dell'anno scolastico 2017/2018 è dedicato a
due missioni fondamentali:
1)
sentirsi
una madre meravigliosa, giusto
quei cinque minuti a settimana in cui non si lotta per aggiudicarsi
il Madre di Merda 2018, per il fatto di mettere la sveglia
alle 7 anche se si entra alle 10,45, fare il caffè alla figlia,
darle un bacino e sincerarsi
che abbia quel che le serve per la mattina a scuola, per poi
2)
dire, con
goduria appena celata, "torno ancora un po' di là" e,
mentre la figlia fuma una sigaretta facendo venire l'ora del pullman,
infilarsi a letto per un'altra oretta, in cui si dorme il sonno più
stupendo che ci sia, quello di quando anche l'Uomo non deve alzarsi.
E ricordatevi che io ho sofferto di insonnia a un livello che
clinicamente può bastare per spezzare un fisico, e ho rischiato
seriamente di perdere del tutto e per sempre l'amore della mia vita.
Per cui, ogni minuto che passo serenamente addormentata al suo
fianco, in orari in cui non riuscivo più a dormire da quando avevo
vent'anni, è come un altro giorno che sorge per uno che doveva
finire sulla sedia elettrica e invece è stato graziato. Poi il sonno
viene spesso sostituito, o meglio ancora seguito, dal chiacchierare
sotto le coperte con l'Uomo, e se qualcuno mi ha mai voluto bene e si
è preoccupato per me, dovrebbe origliare e sentire le risate con cui
inizio la giornata. Io amo il venerdì. Se mi dite a chi devo vendere
il mio corpo perchè l'anno prossimo nell'orario di entrambi ricapiti
una mattina così, lo faccio senza pensarci due volte.
Quella mattina, una serie di motivi costringeva a rinunciare al paradisiaco risveglio
del venerdì. Abbassando gli occhi sul telefono, la prof Castagna si
accorse di avere una telefonata del Gigante. Alle otto e cinque di
mattina? Lo richiamò nel primo punto della strada in cui, tra una
coltivazione e un bosco, le tacche del telefono tornavano ad essere
almeno due.
“Scusami,
volevo dirti che la madre di Quantoso'bono è già passata da scuola,
ma le abbiamo detto di tornare dopo, perché tu entravi in servizio
più tardi.”
“Veramente
io sto arrivando, comunque le avevo detto di venire dopo le 9, perché
sapevo che c'eri anche tu.”
“Ah ma io
sono già qua, comunque le ho parlato un po' io, poi però vedila tu,
ha detto di chiamarla al negozio quando siamo pronti.”
“Sono lì
tra 5 minuti.”
Poco dopo, il
Gigante sedeva placidamente tutto solo sulla panchina dell'ingresso.
La Castagna andò a sedersi al suo fianco. Si informarono a vicenda
brevemente su quanto c'era da fare nella mattinata. Poi lui sospirò.
Lei sospirò. Tutti e due sospiravano, per una volta, di
soddisfazione.
“Sono
proprio contenta.”
“Sì,
anch'io, è andata proprio bene.”
”Davvero.”
“Stamattina
sono arrivati, hanno posato le loro cose, quando è suonata la
campanella si sono infilati nelle classi, senza colpo ferire, non li
ho più sentiti, sono a casa loro.” “Meraviglioso.”
“Ora chiama
le mamme.”
“No,
Gigante, fammi aspettare un attimo, volevo salutare i Francesi. Sono
venuta prima anche perché la collega ha detto che mi ha portato un
pensierino che voleva lasciarmi prima di partire.”
Il Gigante
annuì, e restarono lì senza fare assolutamente niente, tutti e due,
per un paio di spettacolari minuti. Poichè entrambi sapevano di
esserselo sudato, questo istante, e sono cose da assaporare, prima di
rimettersi a correre.
3 giorni
prima
La Castagna era
sensualmente immersa in una miriade di temi sparpagliati sul letto
matrimoniale, nella prima giornata veramente calda della stagione
(“Hai presente Demi Moore nelle banconote? Ecco. Io però nei temi”
aveva scherzato con l'Orsone qualche giorno prima, e a lui era andato
di traverso il caffè, si suppone pensando a Demi Moore, comunque
la Castagna si era molto divertita).
Sul gruppo whatsapp di
Scuolina Rosa arrivò un messaggio che diceva: “La ragazzina è in
ambulanza con la sua insegnante, ti raggiunge la Bionda appena l'Inutile
torna da Montechiaro”.
Ovviamente era un errore averlo inviato al gruppo,
ma tutti si agitarono. Venne fuori che la simpatica prova di
resistenza per stroncare i giovani ospiti del gemellaggio (ore di
pullman – pranzo in mensa – salita a piedi al castello con 29
gradi e il sole a picco – discesa nel cuore della collina, a 5
gradi, nel museo ospitato dalle segrete del castello) aveva fatto una
vittima: la piccola R., che avrebbe passato le successive otto ore a
svenire e vomitare a intervalli, per la gioia della sua prof di
italiano e la costernazione dei genitori di Fulminato, che la
aspettavano a casa in quanto famiglia ospitante.
Medico di Paesino di Sogno, pronto soccorso, una notte in pediatria. La prof francese rimase bloccata, dal momento di salire in ambulanza, fino alla mattina dopo, senza vestiti per cambiarsi e senza cena. Mille telefonate e sms dopo, la situazione si presentava così:
Medico di Paesino di Sogno, pronto soccorso, una notte in pediatria. La prof francese rimase bloccata, dal momento di salire in ambulanza, fino alla mattina dopo, senza vestiti per cambiarsi e senza cena. Mille telefonate e sms dopo, la situazione si presentava così:
- bambina francese ricoverata
- prof francese nutrita con panini portati d'urgenza da casa della Brava Crista
- prof Bionda e prof Inutile rientrate a casa dopo aver fatto picchetto in pronto soccorso, sostituite in pediatria da prof Troll e prof Bestia Nera
- prof Castagna che uscendo da yoga va a sua volta a vedere come è finita, trovando i colleghi italiani e francesi finalmente seduti, alle 21,45, davanti a una pizza.
Di lì a poco il commento
della Bestia Nera (della? Bestia Nera? sì...) sarebbe stato “Però
siamo proprio uniti quando c'è bisogno” e, poi, al Gigante, la
medesima Bestia Nera avrebbe detto “Mi pare che abbiamo fatto
proprio bella figura, nell'emergenza, e senza che nessuno ci
coordinasse”.
Due giorni prima
Il Presuntuoso, in giro a
fare danni nell'intervallo, come sempre, con Quantoso'bono e Riace,
pensò bene di insultare la Bidella di Burro, dandole della
passeggiatrice.
Ora. Al Gigante puoi fare
molte cose. Ma è un uomo d'altri tempi. Non toccargli nessuna delle
sue donne: mamma moglie figlia, ça va sans dire, ma nemmeno l'ultima
delle supplenti o la più antipatica delle segretarie. I suoi ruggiti
di quel mercoledì li udirono anche i leoni nello Tsavo National
Park, e si impressionarono. Convocò la Castagna da una parte
all'altra del corridoio sovrastando il caos dell'intervallo, e lei
sentì, più che vedere, la presenza attenta dell'Orsone che si
affiancava per accompagnarla. Solo che anche lei come leonessa non
era male, e quindi in due mosse veloci uncinò il ragazzino, che
cercava di capire da che parte gli convenisse girarsi per non farsi
fare troppi lividi, lo precedette davanti alla porta della sala
musica dove il Gigante si era rintanato tuonando, gli disse gelida:
“Tu aspettami qui, fermo” e andò oltre, lasciandolo lì
impietrito in mezzo a una fiumana di ragazzini che si divertivano.
Arrivò fino alla bidella, le chiese come fosse andata, tornò
indietro: l'Orsone ci aveva rinunciato ed era andato in classe, e il
Presuntuoso non era più lì. Per un attimo lo sguardo di Castagna
divenne quello di Ciclope e aprì un buco fumante nel pavimento, nel
punto in cui doveva trovarsi il ragazzo. Poi la prof vide
l'Impeccabile che fissava con le labbra smorte la porta della sala
musica: “E' lì dentro?” “Sì...”
Castagna entrò e, tra lei
e il Gigante, diedero a due voci al Presuntuoso la migliore anteprima
di un cazziatone delle superiori di cui fossero capaci, per poi
proseguire con nota rossa sul registro, trascrizione su diario e
spargimento della notizia in giro tra colleghi.
Perchè il genio aveva
pensato bene di fare la sua uscita la mattina prima di un consiglio
di classe, aggiungendo immediatamente all'ordine del giorno della
riunione un nuovo punto.
Nel pomeriggio, al
consiglio, la Castagna si schierò dicendo all'Orsone: “Io chiedo
una sospensione di tre giorni, stavolta, stammi dietro” e lui le
confermò che avrebbe sostenuto la sua idea. Non immaginava, la
Castagna, che invece non solo il Gigante avrebbe chiesto cinque
giorni, ma avrebbe strigliato tutti i presenti, compresa e
soprattutto lei, per non essere, a suo dire, abbastanza severi con
quella terza. E voleva le teste anche di Quantoso'bono e di Riace,
magari buttarli fuori dalla gita, etc. “Adesso basta fare tanti
sorrisi”, ringhiava. Tanto che la Castagna, un po' avvilita,
mormorò ai colleghi seduti vicino: “Ma se io mi alzo al mattino e
faccio culi tutto il giorno...”, cosa talmente nota a tutti che si
videro varie teste annuire, e persino lo Stronzo di Sostegno, nei
giorni successivi, si sarebbe premurato di dire a Castagna che, con
lei, la terza era inquadratissima. In ogni caso, l'unanimità dei
presenti chiese un provvedimento più duro del solito e Castagna
promise di parlare con le madri degli altri due moschettieri.
Quella sera, dopo molte ore
di scuola e molti discorsi, una stanca ma risoluta Castagna entrò in
casa alle sette e venti, si sciacquò il sudore, si pettinò i
capelli e si trasferì dentro una camicetta di seta e un tailleur gonna color cioccolato, per poi ripartire alle otto e dieci alla volta del
ristorante sulla famosa Piazza del Peccato, a Paesino di Sogno. Non
era entusiasta di andare a cena: Piazza del Peccato era sempre un
luogo a rischio di incontri ravvicinati del tipo meno indicato, la
Fraulein era malata e aveva dato buca, l'Orsone si era ritirato in
buon ordine, essendo in quanto orso assai poco propenso alle serate
sociali.
Ma la cena fu veramente
piacevole e bella: tutti erano contenti di essere andati d'accordo,
di essersi mossi in squadra, sia con l'emergenza salute della piccola
ospite, sia con la questione disciplinare, sia con l'accoglienza dei
colleghi stranieri. Di cui uno, pur insegnando in Francia, parlava
con lo splendido accento dei dintorni di Siena e soppesò, a lungo e
con soddisfazione, il vino, una Barbera di Vinchio, con cui
Bellissimo Padre, il proprietario dell'enoteca, ci stava facendo fare
ulteriore splendida figura.
Un giro di dessert e caffè
più tardi, Castagna usciva a fumarsi una sigaretta con Bellissimo
Padre sotto il portico, e gli diceva quanto era contenta di come
stava girando giù a Scuolina Rosa, e che lui non avesse venduto il
locale. Bellissimo Padre era ormai un amico e non faceva più il
timido quando gli facevano un complimento, almeno non con lei. Lei
guardava una falce sottile di luna sopra il campanile barocco, e
pensava a quanto amava il suo paesino, quella chiesa, quella piazza,
quella vista, quel locale, ogni pietra, ogni albero, ogni filo di
ragno, ogni pennellata di nebbia che si stendeva sulle colline. A
proposito di godersi ognuna della cose che si è rischiato di
perdere.
Un giorno prima
La mattinata di Castagna
era iniziata con un'ora e mezza di chiacchierata, mezza in italiano
mezza in francese, tra lei, due ragazzine straniere di cui una di
Mayotte (ma esistono veramente, allora, i famosi DOM e TOM!) e tutta
la prima dei Gini, che saranno anche Gini ma come ospiti sono
adorabili.
Ma poi ci fu la madre del
Presuntuoso. Cui il Presuntuoso non aveva mica detto di che natura
fosse l'insulto appioppato a Bidella di Burro. Toccò a Castagna (e
come ti sbagli) riferire le parole esatte e vedere la povera donna
scoppiare in lacrime per la vergogna. Fortuna che il Gigante, essendo
impegnato nell'organizzazione della seconda parte della mattinata per
i Francesini (gita a piedi in aperta campagna e picnic a base di
pizza calda servita sul prato di una chiesetta romanica), aveva
chiesto all'Orsone di accompagnarla. Non che di solito servisse
chiederlo. Quaranta minuti di ramanza al ragazzino, pianto della
signora e ragionamenti severi e pacati dopo, Castagna, stavolta da
sola, andò a convocare al telefono la madre di Quantoso'bono, di
nuovo!, e, ancora!, la madre di Riace. Tra la prima e la seconda
telefonata le era venuto un bel mal di stomaco e alla fine della
seconda una delle segretarie le disse: “Meglio se fai una pausa,
sei tutta rossa a chiazze in faccia”. La Castagna non intendeva
morire di problemi circolatori per la fatica somma di comunicare alle
madri succitate “Si ricorda signora che avevamo detto di sentirci
se c'era qualche problema? Ecco, dovrebbe venire a scuola a
parlarmi...”, ma oggettivamente si sentiva male.
Nella stessa mattinata, il vice aprì la porta della terza mentre lei interrogava per chiederle dove fosse mai Belzebù. Assente, rispose lei, lui le abbaiò “poi ti dico” e richiuse la porta. Gli alunni esterrefatti le videro ingoiare un groppo di pianto: altre grane non le avrebbe proprio rette... Lei cercò di dominarsi e disse con un sorriso amaro una frase da registrare negli annali: “La vostra classe è ...una cosa cardiaca.”
Nella stessa mattinata, il vice aprì la porta della terza mentre lei interrogava per chiederle dove fosse mai Belzebù. Assente, rispose lei, lui le abbaiò “poi ti dico” e richiuse la porta. Gli alunni esterrefatti le videro ingoiare un groppo di pianto: altre grane non le avrebbe proprio rette... Lei cercò di dominarsi e disse con un sorriso amaro una frase da registrare negli annali: “La vostra classe è ...una cosa cardiaca.”
Al pomeriggio saggiamente
Castagna decise di non rimanere a scuola a preparare la festa di
addio, ma di passare un momento a casa a riprendersi. Pronti via,
siccome era sola a pranzo e nessuno le chiedeva niente, si addormentò
secca sul divano. Spaccare culi ai ragazzi è faticoso, dare notizie
di merda alle madri è molto peggio.
Al risveglio, il suo
cervello, che era andato a mille per parecchie ore, aveva rallentato
i giri, e all'improvviso ebbe un flash: cosa le aveva detto l'Orsone,
prendendo un caffè nello stanzino, tra una madre in lacrime e un
vicepreside dai denti sguainati? Che avrebbe chiesto a Preside Chic
se valeva per lui la pena fare domanda a Scuolina Rosa per i prossimi
anni, dato che la sua assunzione dipendeva dalla chiamata diretta. E
la Castagna era talmente suonata, dallo sforzo di far rispettare il
regolamento alla sua terza, che neppure gli aveva gettato le braccia
al collo.
Rinfrancata dalla
prospettiva di non essere mai più sola a fare fronte alle grane,
Castagna si mise un paio di comodi e freschi buddha pants, una
maglietta e i sandali e partì per scuola. Il bidello Guaglione, in
canottiera nera, appendeva festoni e palloncini. La Zuccherina di
Arte e l'Impeccabile preparavano cartelloni e bandierine con un
gruppo di Francesini. Gli altri giocavano a squadre in palestra, sul
prato e sul campo da beach volley (sì lo so, siamo troppo avanti ad
avere un campo da beach volley in mezzo ai vigneti, che volete farci,
è o non è la Valle delle Meraviglie?). Il Gigante preparava la
musica sulla LIM e ordinava pizze al telefono. Castagna e le altre
prof spacchettarono quintali di cibo, comprato o preparato dalle
famiglie, e disposero tutto in bella mostra nell'auditorium.
Arrivarono le famiglie ospitanti, i professori francesi, i colleghi,
e intanto Castagna scomparve in un bagno e ne uscì con vestitino
nero a fiorami, calze a rete e tacco medio, suscitando nel bidello
Guaglione il commento: “Eccallà, agge sbagliate tutte cose,
m'aviva a purtà nu frac”.
Poi ci fu la festa, e a
partire dalla famiglia di Fulminato, che voleva farsi la foto tutta
insieme con le due ragazzine francesi ospiti, tutti si fecero il
servizio fotografico, persino le prof con un gargantuesco carrello di
dolci, e poi sedute tutte in cerchio a finire la serata. Castagna
aveva supervisionato tutta la sera il pc della LIM, sul quale i
ragazzi francesi caricavano da Youtube brutti rap nordafricani,
canzoni semioscene in spagnolo e altra roba poco condivisibile (una
su tutte “Dame tu cosita” e annesso video con mosse trombatorie).
Poi i ragazzi erano quasi tutti usciti sul prato e lei aveva
iniziato a riordinare, mettendosi come soundtrack una più ascoltabile
“Love the way you lie”. Era allora comparso un ragazzino francese
con capelli disordinati e faccina sfigata, che educatamente chiesto
il permesso in italiano aveva digitato una sua scelta. “Revolution”.
Dei Beatles. La mandibola di Castagna si era sfracellata sul
pavimento della sala. Visto che questa prof pareva favorevole a un
po' di revival, il tipetto le aveva subito dopo proposto con mille
erre rotanti: “Questo è mio gRRRRupo pRRRefeRRRRito, eh?” e
aveva caricato i Police. “Message in a bottle”. Veramente. Lacrime. Commossa,
la prof gli aveva alzato il volume. Più tardi era passato ai Led
Zeppelin, ma a quel punto era definitivamente il suo mito.
La serata terminò con
professoresse stanche e felici, che avevano già mangiato la torta
panna pan di Spagna e semifreddo di fragole, ma mentre riordinavano
la cucina si sbafavano facendo le fusa i resti delle leggendarie
quiches della moglie del Gigante. Ore ventidue, cancelli chiusi,
scuola buia. Tutti soddisfatti.
A ciò si deve il fatto
che, la mattina dopo, mezz'ora prima di ripiombare nei casini
disciplinari, la Castagna chiedesse al Gigante un attimo di tregua, e
una meritata degustazione del sapore di cose ben fatte che aleggiava
per la scuola. E poco più tardi si attardasse un momento sulla
porta, insieme al Guaglione che fingeva di essere uscito per spazzare
il marciapiede, a guardare il pullman francese, che faceva manovra
nel piazzale e portava lontano, verso casa loro, trentacinque
ragazzini contenti. E, di nuovo, a pensare a quanto profonde fossero
ormai le sue radici in quella piccola sconosciuta fettina di Paradiso.
Casa.
Casa.
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lunedì 24 luglio 2017
Togliti le scarpe e andiamocene via insieme a piedi nudi
Per un breve periodo questa è stata la frase sul mio profilo Whatsapp.
Mentre la scrivevo, e quando la rileggevo, non sapevo a chi la stessi rivolgendo. Perchè andava bene per molte persone con cui avevo a che fare in quel momento.
Mia figlia così tesa e rabbiosa. Mio marito così complicato e distante. Uno o due uomini e una o due donne con cui interagivo o avrei voluto interagire spesso e con cui, se mi avessero detto “metti due cose in uno zaino, andiamo a fare un viaggio io e te”, sarei partita, perchè avremmo avuto di che parlare per giorni e giorni, in treno, in tenda, in macchina, a cena, per strada e anche a letto, vestiti o meno non era importante, era più importante spogliarsi a livello emotivo. La Tipa, con cui questa primavera andavo a yoga, se gliel'avessero mai detto, allora, a lei super ingegnera che sarebbe finita su un tappetino a visualizzarsi i chakra, mai e poi mai ci avrebbe creduto. Forse mia madre. Una o due delle mie colleghe e compagne dei corsi yoga, particolarmente messe alla prova dalla vita.
Mentre la scrivevo, e quando la rileggevo, non sapevo a chi la stessi rivolgendo. Perchè andava bene per molte persone con cui avevo a che fare in quel momento.
Mia figlia così tesa e rabbiosa. Mio marito così complicato e distante. Uno o due uomini e una o due donne con cui interagivo o avrei voluto interagire spesso e con cui, se mi avessero detto “metti due cose in uno zaino, andiamo a fare un viaggio io e te”, sarei partita, perchè avremmo avuto di che parlare per giorni e giorni, in treno, in tenda, in macchina, a cena, per strada e anche a letto, vestiti o meno non era importante, era più importante spogliarsi a livello emotivo. La Tipa, con cui questa primavera andavo a yoga, se gliel'avessero mai detto, allora, a lei super ingegnera che sarebbe finita su un tappetino a visualizzarsi i chakra, mai e poi mai ci avrebbe creduto. Forse mia madre. Una o due delle mie colleghe e compagne dei corsi yoga, particolarmente messe alla prova dalla vita.
Stanotte sono rientrata alle due,
a piedi nudi, con i sandali in mano. Me li sono sfilati a pianterreno
e li ho tenuti in mano in ascensore. Di ritorno da uno dei molti
paesini dove tutti i ragazzi, ma proprio tutti, sono stati miei
alunni o tra poco lo saranno.
C'era la festa di paese animata da uno
di loro, Mani da Pianista, che adesso collabora con l'Uomo per il
festival e lo aveva invitato. E io ero invitata dai Puccettosi, della
terza C di due anni fa. Poi c'era la Caramella, che a sua volta
incoraggiava la mia partecipazione e doveva narrarmi del suo nuovo uomo.
Mi sono sentita come se fossi
tornata all'età che ha la Princi ora, quando ho iniziato a sforare
dall'orario di rientro stabilito da mio padre, e a rincasare scarpe
in mano, ogni sera dieci minuti dopo. Mi lasciava la luce accesa in
salotto o in ingresso, papà, quando andava a dormire. Io spegnevo
tutto e attraversavo in punta di piedi il grande appartamento, al
buio, con la luce della Lanterna che si proiettava sul muro del
salotto a intervalli fissi. Mi tagliava la strada la gatta, a volte.
C'era un silenzio.
L'Uomo mi aspettava sveglio, stanotte. Non
so dire se nervoso per il mio rientrare tardissimo. So che ieri sera,
invece di uscire, abbiamo fatto aperitivo sul divano davanti a "The
Following", cenetta sul tardi io e lui, e all'ora in cui la Princi
doveva rientrare eravamo sdraiati a letto a sentire musica sul suo
telefono. Solo musica lenta e dolce, dove si scopre che questa ci ha
stregati entrambi.
Io, dopo averla colta come sottofondo in una
puntata di "Justified", l'ho sentita nella testa per giorni.
E ieri
notte l'Uomo mi ha fatto ascoltare questa, che, per carità, è una roba che forse avrei trovato melensa anche a quindici anni (no: ascoltavo Phil Collins e Marco Masini, diciamo le cose come stanno) e lui è insopportabile quanto spesseggia, ma, visto il testo,
magari l'hanno scritta dopo aver letto i mei diari segreti o le mie
conversazioni Whatsapp per gli ultimi due anni.
Ieri, rientrando dai vari giri
per il Nord Italia che avevamo fatto separatamente, non ci siamo più
mollati, nemmeno se c'era da vedere la partitella del Genoa su Sky,
nemmeno se c'erano da fare due commissioni veloci in giro. E non era
quello stare vicini ansioso da “sto perdendoti, ti ho perso e posso
solo succhiare la tua presenza quando passi, ti perderò di nuovo
domani” che spesso ha caratterizzato il nostro tremendo amore
malato. Era più come i primi tempi, quando non sei mai stanco di
allungare il giro di cose da fare per passare più tempo insieme.
Quando nella mia valigetta, oltre agli appunti della
specializzazione, hanno cominciato a esserci spazzolino e biancheria,
perchè ogni sera improvvisavamo, e stava diventando evidente a
chiunque che andavo a lezione coi vestiti del giorno prima. Ma non mi
portavo quasi mai il cambio completo: dormire con la sua tuta o una
sua maglietta, andare in cucina al mattino a piedi nudi, e avere come
unica sicurezza un paio di mutandine pulite nascoste in fondo alla
borsa, era bellissimo. Era appunto essere nudi. Senza altro bisogno
che stare insieme. Di lì a poco ho trasferito direttamente tutto da
lui. Mai passo avventato fu più goduto, e meno rimpianto. No, non è
vero. Goduto ancora di più, e rimpianto ancora di meno,
l'avergli detto, la prima sera, mentre arrivavamo nel cuore della notte
alla sua auto in piazza Colombo, che volevo dormire da lui. Lui che mi
aveva baciato la prima volta mezz'ora prima, dopo un corteggiamento
lungo mesi. Non lo sapevo ancora, ma non separarsi mai più era diventato, da mezz'ora,
l'obiettivo di tutta una vita.
Madonna quanto eravamo belli. La gente
faceva rispettosamente ala, costretta a mettersi gli occhiali da sole per
riuscire a guardarci, facevamo splendere le strade e le stanze in cui
passavamo. Ecco, ieri mentre lui metteva le canzoni sul telefono mi
sentivo di nuovo così. Bella, fresca, a piedi nudi, felice anche di
portare giù la spazzatura insieme, felice di un grissino con la
bresaola mangiato sul divano, felice di sentirlo canticchiare o
parlare con la gatta. Lui e il suo umore impossibile da definire, lui
e i suoi sguardi bicolori, lui e il suo peso sul materasso al mio
fianco.
Lui. Noi. Devo chiudere gli occhi e tenere questo nel cuore,
per tutti i giorni in cui è troppo doloroso, in cui è ingiusto e
malsano, in cui voglio il miracolo e non arriva ancora. Intanto, le ferie vere si avvicinano. Le prime ferie vere di nuovo noi due, da quando c'è anche la Princi. Conto alla rovescia iniziato. Non impazzire nell'attesa. Non sclerare nell'attesa. Se hai aspettato finora... E non piangere. Non piangere più.
domenica 27 novembre 2016
Il guardiano del faro
Quello che si droga, quella che si taglia, quella incinta, abbiamo già visto, sì.
Ma nella stessa classe un bambino malato e una satanista aspirante suicida, no.
Sulla malattia di Belzebù niente possiamo dire o fare. Solo tenerlo con noi e cercare di dargli gioia e forza. E non permettergli di fermarsi a fare il dettato se ha male, ma mandarlo a telefonare, poi correre a cercare il Gigante e il Magnifico e metterglieli alle calcagna, loro due così alti, mentre i compagni gli preparano la roba, e guardarlo andare via con il suo zaino più grosso di lui.
L'Orientale mi preoccupa moltissimo adesso. Stanno per fortuna arrivando, molto più velocemente del previsto, i servizi sociali. Che ovviamente useranno la scuola come base per incontrare la madre. Ma lei nel frattempo è sempre più chiusa e buia e fa tante assenze. E i bambini di lei hanno un pochino paura.
Ha fatto amicizia con la sorella di Dylan McKay, altra personalità chiaramente sciroccata, e con altre due o tre agitate. Dotate, se sono come la McKay, di famiglie che perdono i pezzi.
A proposito di perdere i pezzi, qui ci si dimenticano i testi di matematica (reazione a caldo della docente: 2), gli occhiali al cinema (ritrovati: ma perché tutto 'sto culo, lei? È proprio la nipote di mio papà), la pillola (la prima della scatola).
E non si dorme. Cioè si dorme una notte io una notte lui. Colpa del festival suo (crediamoci) e dell'esame di yoga mio (crediamo pure a questo).
Stamattina ho frenato davanti alla panetteria di Paesotto Sereno, quella che fa la focaccia alle ortiche e menta, in contemporanea con la Folletta, l'altra che, dice Maestro P., nella vita ha il ruolo di guardiano. Così abbiamo preso un caffè insieme.
Dopo le esercitazioni del mattino le ho detto: "Se ci fosse da iscriversi a un corso di yoga con una di voi quattro, io verrei da te. Quando fai lezione tu io chiudo gli occhi e mi lascio portare". Era felice.
Tra quattordici giorni l'esame.
Poi forse l'inizio di qualcosa di nuovo.
Ma nella stessa classe un bambino malato e una satanista aspirante suicida, no.
Sulla malattia di Belzebù niente possiamo dire o fare. Solo tenerlo con noi e cercare di dargli gioia e forza. E non permettergli di fermarsi a fare il dettato se ha male, ma mandarlo a telefonare, poi correre a cercare il Gigante e il Magnifico e metterglieli alle calcagna, loro due così alti, mentre i compagni gli preparano la roba, e guardarlo andare via con il suo zaino più grosso di lui.
L'Orientale mi preoccupa moltissimo adesso. Stanno per fortuna arrivando, molto più velocemente del previsto, i servizi sociali. Che ovviamente useranno la scuola come base per incontrare la madre. Ma lei nel frattempo è sempre più chiusa e buia e fa tante assenze. E i bambini di lei hanno un pochino paura.
Ha fatto amicizia con la sorella di Dylan McKay, altra personalità chiaramente sciroccata, e con altre due o tre agitate. Dotate, se sono come la McKay, di famiglie che perdono i pezzi.
A proposito di perdere i pezzi, qui ci si dimenticano i testi di matematica (reazione a caldo della docente: 2), gli occhiali al cinema (ritrovati: ma perché tutto 'sto culo, lei? È proprio la nipote di mio papà), la pillola (la prima della scatola).
E non si dorme. Cioè si dorme una notte io una notte lui. Colpa del festival suo (crediamoci) e dell'esame di yoga mio (crediamo pure a questo).
Stamattina ho frenato davanti alla panetteria di Paesotto Sereno, quella che fa la focaccia alle ortiche e menta, in contemporanea con la Folletta, l'altra che, dice Maestro P., nella vita ha il ruolo di guardiano. Così abbiamo preso un caffè insieme.
Dopo le esercitazioni del mattino le ho detto: "Se ci fosse da iscriversi a un corso di yoga con una di voi quattro, io verrei da te. Quando fai lezione tu io chiudo gli occhi e mi lascio portare". Era felice.
Tra quattordici giorni l'esame.
Poi forse l'inizio di qualcosa di nuovo.
mercoledì 2 novembre 2016
E se poi fosse proprio questo il nostro modo
Lo so, che dovrei pensare ai terremotati, alla crisi, ai bambini in Siria, al pianeta che implode, agli omicidi-suicidi di Cornigliano o di via Nizza, oppure, almeno, a finire di correggere le prove di Grammatica della seconda.
Intanto però andate al minuto 14 di questa. Che oggi ho corso tutto il giorno e ora per calmarmi ci vuole Roba Bella. Con le maiuscole. E Mozart è bello, anche per un'ignorante come me che ascolta Bon Jovi.
E io me ne sto qui a pensare che forse noi funzioniamo, abbiamo sempre saputo funzionare, sapremo sempre e solo funzionare, così. Così, che non riusciamo a dormire sempre nella stessa casa. Così, che non abbiamo una base, ne abbiamo due, tre, quattro. Che non importa se il letto è un materasso per terra, se manca il gas, se c'è pelo di gatto su ogni abito perché il retro dell'armadio si è gonfiato per l'allagamento e la gatta ci entra comodamente e va a lavarsi in mezzo alla roba pulita. Che non importa se la figlia non è la nostra sul serio, e se trattiamo i cani e i gatti come bambini, e ci spostiamo con due macchine anche se siamo in tre, e lui c'è ma non c'è, e non c'è ma c'è, e io non uscirò mai dal tunnel della studentessa coi bei voti e mi iscriverò sempre a qualcosa e lui avrà sempre un terzo del suo cervello mostruosamente intelligente impegnato a pensare al calcio. Che non importa se a quarant'anni il regalo più gradito è un piccolo peluche dell'Acquario di Genova. Che a stento ci sappiamo vergognare davanti a terzi di tenere gli scontrini dei caffè presi insieme o i biglietti d'ingresso alle mostre o le bustine dello zucchero. Che viviamo male e facciamo vivere male gli altri e magari la sola cosa che sapevamo fare, amarci come due naufraghi appesi l'uno all'altra per non annegare, è stata la distruzione delle vite di entrambi, ma dimmi che torneresti indietro e cambieresti strada, dimmelo. Dimmi che non mi daresti più tutti quei passaggi sulla tua Astra bianca. Dimmi che non ti succede mai di vedermi arrivare e pensare che tutto quest'incubo dal 2014 in avanti non è mai successo, non a noi due, non è possibile.
A me è successo mentre arrivavi in macchina, qualche giorno fa. Ti aspettavo da qualche minuto e ho visto il tuo profilo mentre mi passavi davanti. Come se avessi venticinque anni e stessi aspettandoti per uno dei nostri primi appuntamenti, e di nuovo mi sentissi strana come allora, al pensiero che mi avessi scelta. Proprio tu. Proprio me.
Il movimento del concerto di Mozart non è certo farina del mio sacco. E' che il Dolce Cowboy, quando si ferma a scuola a lavorare al pc dopo pranzo, si mette a sentire su Youtube esecuzioni impeccabili di pezzi di classica, essendo egli in realtà un prof di musica. E l'altro giorno piovigginava, e c'era questo di sottofondo, e gentilmente andando via lui me lo ha lasciato acceso, il pc, per non interrompere il mio ascolto. Io sono scivolata coi miei registri fino al suo computer, quello vicino alla finestra, e mi sono lasciata drogare.
Poi già che c'ero sono tornata su cose più tipiche mie. Anzi, nostre. Per la precisione cose che tu hai fatto conoscere a me.
Ho guardato piovere ascoltando questa e, Uomo, cazzo, se tu potessi percepire come si spacca il mio cuore, come si sfarinano le mie ossa, come si bruciano i miei muscoli ogni volta che ti vorrei vicino con così tanta violenza e tu non ci sei, ti farei paura. Forse te ne faccio già. No, senza forse. Mi faccio paura anche da sola. Non lo sapevo, prima, che potevo essere questo. Non sapevo di poter essere molte cose.
Si impara a credere a forze primordiali, si impara a guardare il proprio sangue scorrere via e non fare niente per trattenerlo, perché di colpo è chiaro quel che si leggeva nei poemi epici, nelle leggende medievali, nei miti orientali, nella Bibbia, si impara a credere che se davvero vale la pena uno ci lascia anche le penne, senza pentirsi.
Suonerà estremamente patetico, a qualcuno. Per carità. Non pretendo di piacere o essere capita da mio marito, figurarsi dagli altri. Io ho sempre avuto una notevole tendenza a conformarmi alla figura tragica, e adesso capisco anche bene perchè. Ma c'è gente che legge qui che sa esattamente di cosa parlo. E sa che non si scherza più, non dopo tutto questo tempo.
Giusto poche ore fa, questo scambio: "tocca uscire o non se ne esce", dice la blogamica. E io ribadisco: "Io ho scelto di restarci dentro."
Poi per sdrammatizzare si sdrammatizza, è ovvio. Per sdrammatizzare ci sono le amiche storiche e quelle recenti. C'è Sanguedelmiosangue ("Lo sai vero di essere una lurida troia?" "No,dai. Sì, va bene. Un pochino, forse." "Ma sì, tanto io ti voglio bene lo stesso." "Lo so che mi vuoi bene, cuore di stracchino, figurati." "E sai cosa mi devi rispondere se io ti do della lurida puttana?" "Cosa?" "Devi dirmi: ADULTERA!!!" "Giusto: ADULTERA!!! Shame! Shame! Shame!!!" "Shame! Shame! Shame!!!"). Ci sono i mille modi di sopravvivere ogni giorno, che vanno dalla brioche con veramente tanta marmellata del baretto vicino alla scuola, alle sigarette sulla panchina con la Fräulein, a guidare cinque ore per passarne una a guardare i melograni a Via del Golf 13, a dire stronzate sul gruppo WhatsApp con la Bottadicoca, la Caramella e la Pallida.
Però mi sveglio al mattino e non mi arrendo. Anche se la corrente è forte, io nuoto ancora.
Un'ultima cosa. Un'altra che mi hai fatto scoprire tu.
Intanto però andate al minuto 14 di questa. Che oggi ho corso tutto il giorno e ora per calmarmi ci vuole Roba Bella. Con le maiuscole. E Mozart è bello, anche per un'ignorante come me che ascolta Bon Jovi.
E io me ne sto qui a pensare che forse noi funzioniamo, abbiamo sempre saputo funzionare, sapremo sempre e solo funzionare, così. Così, che non riusciamo a dormire sempre nella stessa casa. Così, che non abbiamo una base, ne abbiamo due, tre, quattro. Che non importa se il letto è un materasso per terra, se manca il gas, se c'è pelo di gatto su ogni abito perché il retro dell'armadio si è gonfiato per l'allagamento e la gatta ci entra comodamente e va a lavarsi in mezzo alla roba pulita. Che non importa se la figlia non è la nostra sul serio, e se trattiamo i cani e i gatti come bambini, e ci spostiamo con due macchine anche se siamo in tre, e lui c'è ma non c'è, e non c'è ma c'è, e io non uscirò mai dal tunnel della studentessa coi bei voti e mi iscriverò sempre a qualcosa e lui avrà sempre un terzo del suo cervello mostruosamente intelligente impegnato a pensare al calcio. Che non importa se a quarant'anni il regalo più gradito è un piccolo peluche dell'Acquario di Genova. Che a stento ci sappiamo vergognare davanti a terzi di tenere gli scontrini dei caffè presi insieme o i biglietti d'ingresso alle mostre o le bustine dello zucchero. Che viviamo male e facciamo vivere male gli altri e magari la sola cosa che sapevamo fare, amarci come due naufraghi appesi l'uno all'altra per non annegare, è stata la distruzione delle vite di entrambi, ma dimmi che torneresti indietro e cambieresti strada, dimmelo. Dimmi che non mi daresti più tutti quei passaggi sulla tua Astra bianca. Dimmi che non ti succede mai di vedermi arrivare e pensare che tutto quest'incubo dal 2014 in avanti non è mai successo, non a noi due, non è possibile.
A me è successo mentre arrivavi in macchina, qualche giorno fa. Ti aspettavo da qualche minuto e ho visto il tuo profilo mentre mi passavi davanti. Come se avessi venticinque anni e stessi aspettandoti per uno dei nostri primi appuntamenti, e di nuovo mi sentissi strana come allora, al pensiero che mi avessi scelta. Proprio tu. Proprio me.
Il movimento del concerto di Mozart non è certo farina del mio sacco. E' che il Dolce Cowboy, quando si ferma a scuola a lavorare al pc dopo pranzo, si mette a sentire su Youtube esecuzioni impeccabili di pezzi di classica, essendo egli in realtà un prof di musica. E l'altro giorno piovigginava, e c'era questo di sottofondo, e gentilmente andando via lui me lo ha lasciato acceso, il pc, per non interrompere il mio ascolto. Io sono scivolata coi miei registri fino al suo computer, quello vicino alla finestra, e mi sono lasciata drogare.
Poi già che c'ero sono tornata su cose più tipiche mie. Anzi, nostre. Per la precisione cose che tu hai fatto conoscere a me.
Ho guardato piovere ascoltando questa e, Uomo, cazzo, se tu potessi percepire come si spacca il mio cuore, come si sfarinano le mie ossa, come si bruciano i miei muscoli ogni volta che ti vorrei vicino con così tanta violenza e tu non ci sei, ti farei paura. Forse te ne faccio già. No, senza forse. Mi faccio paura anche da sola. Non lo sapevo, prima, che potevo essere questo. Non sapevo di poter essere molte cose.
Si impara a credere a forze primordiali, si impara a guardare il proprio sangue scorrere via e non fare niente per trattenerlo, perché di colpo è chiaro quel che si leggeva nei poemi epici, nelle leggende medievali, nei miti orientali, nella Bibbia, si impara a credere che se davvero vale la pena uno ci lascia anche le penne, senza pentirsi.
Suonerà estremamente patetico, a qualcuno. Per carità. Non pretendo di piacere o essere capita da mio marito, figurarsi dagli altri. Io ho sempre avuto una notevole tendenza a conformarmi alla figura tragica, e adesso capisco anche bene perchè. Ma c'è gente che legge qui che sa esattamente di cosa parlo. E sa che non si scherza più, non dopo tutto questo tempo.
Giusto poche ore fa, questo scambio: "tocca uscire o non se ne esce", dice la blogamica. E io ribadisco: "Io ho scelto di restarci dentro."
Poi per sdrammatizzare si sdrammatizza, è ovvio. Per sdrammatizzare ci sono le amiche storiche e quelle recenti. C'è Sanguedelmiosangue ("Lo sai vero di essere una lurida troia?" "No,dai. Sì, va bene. Un pochino, forse." "Ma sì, tanto io ti voglio bene lo stesso." "Lo so che mi vuoi bene, cuore di stracchino, figurati." "E sai cosa mi devi rispondere se io ti do della lurida puttana?" "Cosa?" "Devi dirmi: ADULTERA!!!" "Giusto: ADULTERA!!! Shame! Shame! Shame!!!" "Shame! Shame! Shame!!!"). Ci sono i mille modi di sopravvivere ogni giorno, che vanno dalla brioche con veramente tanta marmellata del baretto vicino alla scuola, alle sigarette sulla panchina con la Fräulein, a guidare cinque ore per passarne una a guardare i melograni a Via del Golf 13, a dire stronzate sul gruppo WhatsApp con la Bottadicoca, la Caramella e la Pallida.
Però mi sveglio al mattino e non mi arrendo. Anche se la corrente è forte, io nuoto ancora.
Un'ultima cosa. Un'altra che mi hai fatto scoprire tu.
martedì 18 ottobre 2016
Heart keeps beating
Hanno messo il mio cane in una busta con il disegnino del rischio biologico. Una busta bianco crema. Con la cerniera. E giù nella terra. E poi ha piovuto e io ho pensato alla terra bagnata che si assestava intorno alla busta. E alla mia piccola povera mummietta di cane tutta fasciata nelle traversine bianche. Piccolo chien. Che è morto lontano da casa, e io mi sveglio di notte e non mi perdono perché non c'ero.
Io poi non lo so perché i miei animali, così ben tenuti e amati e coccolati, vanno a finire in modi così orrendi, che per guardarli senza svenire ci vuole uno stomaco da chirurgo di guerra, perché proprio loro sviluppano tutti dei tumori strani che i medici vogliono studiare e che guariscono, in modi assurdi, e poi però il mio gatto e il mio cane a conti fatti muoiono lo stesso.
I veterinari geniali, giovani e boriosi, che ho conosciuto curando il cane, mi sono costati una fortuna, mi hanno trattato malissimo, hanno coccolato il mio povero botolo malato in modo commovente e mi sono rimasti in mente tutti, quello figo e impossibile da gestire a livello di maleducazione e asocialità (una sindrome di Asperger?) che era lì quando la Daisy è morta, quello meno figo e gentile che aveva voglia di parlare del suo lavoro e staccava le foglie profumate dell'erba limoncina, per portarsele al naso con le dita lunghe e delicate, quella castana con lo sguardo buono e il sorriso amaro, tutti gli altri. Un giorno, quando sarò meno ammaccata dal dolore, vi racconterò.
Guardo la gatta e non ne ho mai abbastanza di prenderla in braccio e stringere il suo bel corpicino caldo e morbido, e sentirla miagolare. Sta sempre con me quando sono in casa. Si è presa il centro del divano e le ciotole della cucina, si è adattata, ma quando vede uno di noi sulla porta, con una borsa o una valigia in mano, va in ansia. E te credo. Da questa casa sparisce la gente, non si sa mai se chi passa la porta tornerà. Cioè, tranne me. Io è chiaro che torno. Prima o poi. Sempre più stanca, e triste, e sola. Ma torno. E ricomincio da capo. Ogni giorno. Ogni notte.
La figlia è di nuovo fidanzata e sta di nuovo facendo fatica a studiare e dice di nuovo che vuole lasciare il nuoto e andare in palestra a fare pesi. E ci fa sudare e litiga con le sue psicologhe e rompe con la sua migliore amica e adesso mangia solo roba salata a colazione. E io scendo dal letto la mattina, e le preparo la frittata, il toast, la quiche, il panino. Sempre più sfiduciata, e scoglionata, e sola. E ricomincio da capo. Ogni mattina.
Il marito si è finalmente tagliato i riccioli disordinati, è diventato fiduciario del plesso dove insegna, sta lavorando a un progetto per creare un nuovo indirizzo scolastico professionale, dice che qui si sta tanto bene, nell'Astigiano. Era lì quando abbiamo seppellito il cane, è venuto con me a visitare una chiesa romanica dell'undicesimo secolo aperta apposta per noi ed è inorridito di fronte alla pila di scheletri e teschi nel vano sottostante, illuminata con la torcia del cellulare, mentre io mi incantavo all'idea di guardare dei veri corpi di gente morta quattrocento anni fa di peste bubbonica. (Eh, lo so. E' che una che insegna storia, poi, quando queste cose le vede coi suoi occhi, ha un momento profondissimo di quella cosa, quella cosa che succede solo a chi ha la fissa di studiare storia. E poi era molto più macabro il corpo del cane con la testa scalottata per l'esame autoptico, altro che cazzi.) Dopo, l'Uomo è andato via perché doveva andare, che novità, ma io adesso lo guardo andare e riesco a morire un pochino di meno, perché alla sera mi racconta del calcio, del festival, a pranzo ci parla della scuola, e trova buono il cibo e bello il cielo, e c'è, e quando non c'è so sempre quando torna, e allora preparo da mangiare, metto in ordine, mi alleno, lavoro, mi tengo bene e cerco di stare serena. Poi arriva il momento in cui siamo in camera dopo cena insieme e chiudiamo fuori tutto il mondo, e quel momento ripaga di ogni frustrazione e insicurezza e dubbio, pur in questa situazione assolutamente, totalmente di merda, quello permette di farcela, di ricaricare le pile. E ricomincio da capo. Ogni sera.
La Bionda Svampita povera donna ha seppellito il marito a febbraio, e adesso le si è ammalata la mamma. La Fräulein è stata a casa con una brutta influenza. E nella loro classe è arrivato un nuovo tizio di sostegno che sembra una guida del CAI. Barbuto come Babbo Natale, e con lo zaino e la giacca a vento. Forse pensava che Paesino di Sogno fosse in cima al Monviso. Non abbiamo idea da dove venga.
Il Genuino e il Pennellone, i due colleghi nuovi di matematica, si stanno ambientando. Il Pennellone per ora mi sta sulle balle, il Genuino è chiaramente un lavoratore, e un caro ragazzo, ma un po' bisognoso di rassicurazione. La Nuova di Inglese, la Spessa di Tecnica e il Magnifico di Sostegno si muovono con maggiore naturalezza. Sembrano in gamba. La Pianista barcolla, con occhiaie grandi come posti auto. Sono diventata tutor della Secca che è nell'anno di prova. Il Gigante e la Bestia Nera mi stanno mandando al posto loro a trattare con le superiori, in alcuni casi, per il percorso antidispersione.
La Preside Chic mi stordisce sempre con la sublime, ineffabile eleganza dei suoi abbinamenti e sto sviluppando un morboso bisogno di nascondermi nel bagagliaio della sua auto e arrivare di nascosto a casa sua, per andare a godere di intensi momenti di soddisfazione prettamente sessuale davanti al suo armadio delle scarpe. Ha un parco scarpe, fondato su intramontabili pilastri di finezza, che fa scomparire la Preside C., la stragrande maggioranza delle donne eleganti di Asti, tutte le colleghe infighettate di Scuolina Bianca, e darebbe del filo da torcere persino a Noisette. Al primo collegio docenti aveva un tubino e delle décolletées così indiscutibili che Coco Chanel le avrebbe stretto volentieri la mano con un sorriso complice. Poi è in gamba. Tanto in gamba che secondo me i tre quarti dei colleghi non capiscono quel che dice, perché è troppo intelligente e smart. Una femmina alfissima, peraltro. Una Donna di Classe se mai ne ho vista una. Andiamo anche d'accordo, direi. Ora sono curiosa di vederla in consiglio di istituto.
I ragazzi sono storditi. Hanno la testa nel culo, fanno poco e male quello che gli dici, sembra che non ascoltino, prendono iniziative che nessuno ha chiesto, poi però non seguono le istruzioni più semplici. Sto castagnizzando la seconda, che l'anno scorso vedevo per un'ora alla settimana di geografia e ora tartasso di grammatica, letteratura, antologia, scrittura, Invalsi, ortografia, e geografia. Sono dei selvaggi, io li civilizzo a suon di ramanzine feroci e gli faccio fare i balletti quando uno di loro azzecca l'analisi verbale, passo con nonchalance dallo spiegare l'Eneide scrivendo in latino sulla lavagna al ficcare note sul diario perché mangiano in classe, dal tenerli mesmerizzati a sentire per mezz'ora di fila la storia della Politkovskaja al controllare che non abbiano di nuovo pisciato per terra nel bagno dei maschi. Fatica. La terza è pressoché uguale, con la differenza che in seconda fino alla settimana scorsa gridavo, in terza mi basta lo sguardo. Ma non dovrebbero essere così storditi, sono in terza, santiddio, tutto questo lavoro l'avevamo già fatta lo scorso anno. Non lo so. Arrivo al mattino nel parcheggio con gli occhi gonfi di stanchezza, inizio lezione che ho già preso tre volte il caffè e fumato una Marlboro, io che non fumo mai di mattina. Mi scrollo di dosso i pensieri, che restano in macchina a ringhiare, per poi saltarmi addosso quando riapro la portiera alle due meno venti. E ricomincio da capo. Ogni giorno.
Le foglie sono gialle e rosse, le montagne luccicano imponenti sotto il sole che scioglie la neve, e i tre melograni della casa in campagna, che mio padre aveva espressamente proibito al giardiniere di tagliare perché io li adoravo, hanno già i frutti, ancora verdolini. E' di nuovo autunno e io mi stupisco di esserci, quest'anno, a vederlo.
Io poi non lo so perché i miei animali, così ben tenuti e amati e coccolati, vanno a finire in modi così orrendi, che per guardarli senza svenire ci vuole uno stomaco da chirurgo di guerra, perché proprio loro sviluppano tutti dei tumori strani che i medici vogliono studiare e che guariscono, in modi assurdi, e poi però il mio gatto e il mio cane a conti fatti muoiono lo stesso.
I veterinari geniali, giovani e boriosi, che ho conosciuto curando il cane, mi sono costati una fortuna, mi hanno trattato malissimo, hanno coccolato il mio povero botolo malato in modo commovente e mi sono rimasti in mente tutti, quello figo e impossibile da gestire a livello di maleducazione e asocialità (una sindrome di Asperger?) che era lì quando la Daisy è morta, quello meno figo e gentile che aveva voglia di parlare del suo lavoro e staccava le foglie profumate dell'erba limoncina, per portarsele al naso con le dita lunghe e delicate, quella castana con lo sguardo buono e il sorriso amaro, tutti gli altri. Un giorno, quando sarò meno ammaccata dal dolore, vi racconterò.
Guardo la gatta e non ne ho mai abbastanza di prenderla in braccio e stringere il suo bel corpicino caldo e morbido, e sentirla miagolare. Sta sempre con me quando sono in casa. Si è presa il centro del divano e le ciotole della cucina, si è adattata, ma quando vede uno di noi sulla porta, con una borsa o una valigia in mano, va in ansia. E te credo. Da questa casa sparisce la gente, non si sa mai se chi passa la porta tornerà. Cioè, tranne me. Io è chiaro che torno. Prima o poi. Sempre più stanca, e triste, e sola. Ma torno. E ricomincio da capo. Ogni giorno. Ogni notte.
La figlia è di nuovo fidanzata e sta di nuovo facendo fatica a studiare e dice di nuovo che vuole lasciare il nuoto e andare in palestra a fare pesi. E ci fa sudare e litiga con le sue psicologhe e rompe con la sua migliore amica e adesso mangia solo roba salata a colazione. E io scendo dal letto la mattina, e le preparo la frittata, il toast, la quiche, il panino. Sempre più sfiduciata, e scoglionata, e sola. E ricomincio da capo. Ogni mattina.
Il marito si è finalmente tagliato i riccioli disordinati, è diventato fiduciario del plesso dove insegna, sta lavorando a un progetto per creare un nuovo indirizzo scolastico professionale, dice che qui si sta tanto bene, nell'Astigiano. Era lì quando abbiamo seppellito il cane, è venuto con me a visitare una chiesa romanica dell'undicesimo secolo aperta apposta per noi ed è inorridito di fronte alla pila di scheletri e teschi nel vano sottostante, illuminata con la torcia del cellulare, mentre io mi incantavo all'idea di guardare dei veri corpi di gente morta quattrocento anni fa di peste bubbonica. (Eh, lo so. E' che una che insegna storia, poi, quando queste cose le vede coi suoi occhi, ha un momento profondissimo di quella cosa, quella cosa che succede solo a chi ha la fissa di studiare storia. E poi era molto più macabro il corpo del cane con la testa scalottata per l'esame autoptico, altro che cazzi.) Dopo, l'Uomo è andato via perché doveva andare, che novità, ma io adesso lo guardo andare e riesco a morire un pochino di meno, perché alla sera mi racconta del calcio, del festival, a pranzo ci parla della scuola, e trova buono il cibo e bello il cielo, e c'è, e quando non c'è so sempre quando torna, e allora preparo da mangiare, metto in ordine, mi alleno, lavoro, mi tengo bene e cerco di stare serena. Poi arriva il momento in cui siamo in camera dopo cena insieme e chiudiamo fuori tutto il mondo, e quel momento ripaga di ogni frustrazione e insicurezza e dubbio, pur in questa situazione assolutamente, totalmente di merda, quello permette di farcela, di ricaricare le pile. E ricomincio da capo. Ogni sera.
La Bionda Svampita povera donna ha seppellito il marito a febbraio, e adesso le si è ammalata la mamma. La Fräulein è stata a casa con una brutta influenza. E nella loro classe è arrivato un nuovo tizio di sostegno che sembra una guida del CAI. Barbuto come Babbo Natale, e con lo zaino e la giacca a vento. Forse pensava che Paesino di Sogno fosse in cima al Monviso. Non abbiamo idea da dove venga.
Il Genuino e il Pennellone, i due colleghi nuovi di matematica, si stanno ambientando. Il Pennellone per ora mi sta sulle balle, il Genuino è chiaramente un lavoratore, e un caro ragazzo, ma un po' bisognoso di rassicurazione. La Nuova di Inglese, la Spessa di Tecnica e il Magnifico di Sostegno si muovono con maggiore naturalezza. Sembrano in gamba. La Pianista barcolla, con occhiaie grandi come posti auto. Sono diventata tutor della Secca che è nell'anno di prova. Il Gigante e la Bestia Nera mi stanno mandando al posto loro a trattare con le superiori, in alcuni casi, per il percorso antidispersione.
La Preside Chic mi stordisce sempre con la sublime, ineffabile eleganza dei suoi abbinamenti e sto sviluppando un morboso bisogno di nascondermi nel bagagliaio della sua auto e arrivare di nascosto a casa sua, per andare a godere di intensi momenti di soddisfazione prettamente sessuale davanti al suo armadio delle scarpe. Ha un parco scarpe, fondato su intramontabili pilastri di finezza, che fa scomparire la Preside C., la stragrande maggioranza delle donne eleganti di Asti, tutte le colleghe infighettate di Scuolina Bianca, e darebbe del filo da torcere persino a Noisette. Al primo collegio docenti aveva un tubino e delle décolletées così indiscutibili che Coco Chanel le avrebbe stretto volentieri la mano con un sorriso complice. Poi è in gamba. Tanto in gamba che secondo me i tre quarti dei colleghi non capiscono quel che dice, perché è troppo intelligente e smart. Una femmina alfissima, peraltro. Una Donna di Classe se mai ne ho vista una. Andiamo anche d'accordo, direi. Ora sono curiosa di vederla in consiglio di istituto.
I ragazzi sono storditi. Hanno la testa nel culo, fanno poco e male quello che gli dici, sembra che non ascoltino, prendono iniziative che nessuno ha chiesto, poi però non seguono le istruzioni più semplici. Sto castagnizzando la seconda, che l'anno scorso vedevo per un'ora alla settimana di geografia e ora tartasso di grammatica, letteratura, antologia, scrittura, Invalsi, ortografia, e geografia. Sono dei selvaggi, io li civilizzo a suon di ramanzine feroci e gli faccio fare i balletti quando uno di loro azzecca l'analisi verbale, passo con nonchalance dallo spiegare l'Eneide scrivendo in latino sulla lavagna al ficcare note sul diario perché mangiano in classe, dal tenerli mesmerizzati a sentire per mezz'ora di fila la storia della Politkovskaja al controllare che non abbiano di nuovo pisciato per terra nel bagno dei maschi. Fatica. La terza è pressoché uguale, con la differenza che in seconda fino alla settimana scorsa gridavo, in terza mi basta lo sguardo. Ma non dovrebbero essere così storditi, sono in terza, santiddio, tutto questo lavoro l'avevamo già fatta lo scorso anno. Non lo so. Arrivo al mattino nel parcheggio con gli occhi gonfi di stanchezza, inizio lezione che ho già preso tre volte il caffè e fumato una Marlboro, io che non fumo mai di mattina. Mi scrollo di dosso i pensieri, che restano in macchina a ringhiare, per poi saltarmi addosso quando riapro la portiera alle due meno venti. E ricomincio da capo. Ogni giorno.
Le foglie sono gialle e rosse, le montagne luccicano imponenti sotto il sole che scioglie la neve, e i tre melograni della casa in campagna, che mio padre aveva espressamente proibito al giardiniere di tagliare perché io li adoravo, hanno già i frutti, ancora verdolini. E' di nuovo autunno e io mi stupisco di esserci, quest'anno, a vederlo.
mercoledì 6 luglio 2016
My name is Victor Frankenstein
Questa sera sono riuscita nell'intento. Capitemi. Io mi sono laureata a Lettere dando quanti più esami di lingue potevo. Lui si è laureato a Lettere con una tesi su Amleto. Lui mi ha iniziato al genere horror. Io ho iniziato lui al vedere le serie tv inglesi in lingua madre.
Cioè. Vedere insieme Penny Dreadful è inevitabile. L'ho preso in una sera in cui non poteva resistermi, indebolito da un virus, dall'assenza della figlia e dal mio circolare per casa da giorni in pigiamini inesistenti.
Piangere davanti a Penny Dreadful, dopo che io l'ho fatto già da sola davanti alla prima serie (2 volte), alla seconda e a metà della terza, sarà una logica conseguenza. Ma vuoi mettere piangere sola davanti al pc dell'ufficio e piangere sul divano vicino a lui.
In questa settimana così strana, in cui siamo qui di nascosto da tutti. Crede lui, almeno. Invece lo sanno tutti i miei: parenti, amici e la sola collega, la Fraulein, che conosca il macello in cui siamo finiti. Lo sa la figlia. Lo sanno conseguentemente amici, psicologhe, educatrici, parenti di amici della figlia. E la categoria parenti di amici della figlia ha punti di contatto con la categoria amici di lui. Ma lui continua a credere che sia il caso di uniformarsi alle regole di un mondo in cui, se non riesci a lasciare tua moglie, sei strano. Lo stesso mondo che crede che se prendi una sbandata automaticamente manderai in merda un matrimonio. Lo stesso mondo che crede che una ragazzina di neanche 19 anni si faccia fregare dalla vista di un anello e non guardi negli occhi chi glielo regala.
Noi tre siamo strani, forse.
Ma non me ne potrebbe fregare di meno. Del mondo, intendo.
Le cose di cui mi frega sono che ieri notte abbiamo salvato un riccio da morte certa. Che abbiamo mangiato i gofri sul prato. Che lui canticchia. Che io sorrido. Che la figlia, pur nel marasma, tifa ancora per noi. Che c'è una piccola tomba in un prato verde e noi, da quando non c'è più il nostro piccolo genio protettore, dormiamo di nuovo qui insieme, perché questo è stato il suo ultimo regalo. Che c'è una casa in montagna che ha il nostro odore. Che le vacanze sono iniziate il giorno uno in cui è finito il lavoro, perfino per me, quest'anno.
Non fraintendetemi. Non va bene. Non è tutto a posto. Non è come prima e MAI, MAI, dovrà essere come prima, lo so, ne sono convinta e però mentre lo dico so cosa sento, quel dolore sordo lì nel centro. Sto come una profuga che forse un giorno si adatterà al nuovo stato in cui vive, ma mai potrà tornare a casa. Mai. Sono morta a 39 anni e la mia esistenza ora non è più quella, anzi: la mia esistenza non è. Punto.
Ma al livello di questo nuovo piano della sostanza in cui, mio malgrado, mi sono trasferita, io, ectoplasma di quella me che voleva le cose, che decideva, che pensava di sapere, in qualche modo tocco ciò che ancora esiste. Non sono più nessuno. Ma ho rapporti con persone, che non saprei dire se esistano realmente o siano, come me e l'Uomo, entità perse in un limbo, lemuri opachi intinti nel dolore. Cioè, tranne la Princi. Lei è vera. Lei è sangue che pulsa e odore di frutta e pelle fresca contro la mia così accaldata. E pochi altri, direi, esistono concretamente. Il Gigante coi suoi bellissimi occhi scuri. La Fraulein con la sua voce decisa. Mia madre.
Poi gli altri, gli altri non lo so. È come annegare in un'acqua bianco latte, sentendo le alghe sotto le dita dei piedi, vedendo emergere dalla nebbia volti, voci, una mano grande, scura, dolce, che stringe piano la mia (e inevitabilmente: grazie, grazie per questo gesto leggero, per essere stato per l'ennesima volta attento a non rompermi), una voce in lontananza che si incrina capendo che anche questa volta negherò la mia presenza, le facce e le frasi dei miei amici, di Sanguedelmiosangue, delle compagne dei due corsi yoga. Sono persone che come me stanno soffrendo ai punti da chiedersi se possa mai finire, che annaspano sperando di aver capito cosa sia giusto fare. Alla cieca.
A distanza di pochi giorni, una blogamica da poco ritrovata e SDMS mi hanno chiesto se secondo me è la generazione, il momento storico in cui siamo.
Non ho dubbi nel rispondere sì. Ma questo non toglie la responsabilità personale di lottare fino alla fine per quel che è bene. Anche se abbiamo perso in partenza. Penny Dreadful, appunto.
Mio marito, che della nebbia lattiginosa, dell'inconfessabile lato oscuro, dell'attrazione per la morte è in questa temperie il principe e il pontefice, è sempre stato un uomo di una sensibilità immane. E che ora stia facendo carne trita e polvere di ossa delle figure che ha intorno a sé non elimina che sia una persona profonda e intelligente: almeno tanto quanto il suo essere profondo e intelligente non lo giustifica nel momento in cui si guarda allo specchio e si vede coperto di sangue altrui. Mi chiedo se capirà davvero perché io ci tenessi tanto a fargli vedere questa serie tv. Sì beh certo per i poeti sepolcrali e romantici inglesi, e per i costumi di Gabriella Pescucci, isn't it obvious, Mr. Chandler?
E io guardo la lacrima incredula che si stacca dai meravigliosi occhi tormentati di Harry Treadaway, quando il suo personaggio si accorge di essere riuscito nell'intento di fare qualcosa di buono. Che gli è costato anni di duro lavoro, notti bianche e patti col diavolo. Compromessi uno dietro l'altro, cinismo. Sangue. Per un istante di assoluta perfezione di cui nessuno può condividere la gloria, nemmeno la creatura che con le tue stesse mani hai portato in vita.
My name is Victor Frankenstein.
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sabato 4 giugno 2016
Camminare sul fondo in attesa del sole
Succede che prometto a mia madre di tenerle la gatta se va via per una gozzoviglia di crittografie, rebus e sciarade. Tanto mia madre all'ultimo annulla sempre.
E invece parte.
Così io mi ritrovo a dormire nel letto che fu di mio padre, nella stanza che fu di mia nonna, col computer che fu del mio ragazzo, sotto i quadri che furono in casa delle mie zie. Straniamento. Senso di precarietà fra diversi mondi, dei quali molti sono stati casa mia.
Idee confuse.
Beh. Un anno fa a quest'ora ero sicuramente messa peggio, dai.
O no? Beh, sì. Dipende un po' tutto da domani, diciamo. E da dopodomani. E dal resto della mia vita, niente di cui agitarsi, tutto molto lineare, ma scherzi.
Dicevo, le idee sono molto, molto mischiate. Le sensazioni no, sono chiarissime. Anzi, a forza di sfrondare, amputare, rimpicciolire tutto quello che era quell'altra, quella che è morta a 39 anni, le sensazioni sono rimaste poche, ma fortissime ed evidenti.
Io so chi sono. Solo che non mi posso ancora permettere di esserlo.
Va pur detto che un pezzetto di me è rinato a Valloncello Silente, al buio sotto chilometri quadrati di cielo stellato, un pezzo di me è sopravvissuto grazie ai vari trilli dei messaggi di whatsapp delle mie persone, un pezzo di me è sepolto alla Madonna della Neve, un altro è rimasto schiacciato sulla statale, qualcosa di me sta su solo di facciata, per carità sembro la Creatura di Frankenstein, sono tutta cucita.
Sono talmente assuefatta al silenzio, alla solitudine e al dolore che, in questi giorni così simili alla normalità, ho le vertigini. Come uno che non ha più un organo malato e si sveglia la mattina pensando: eccomi, ora mi occupo di te, e poi si ricorda che quel pezzo non ce lo ha più. Come quando è morto mio padre e non c'è più stato da preoccuparsi di lui che era malato. Un vuoto così strano.
Oggi, in una specie di ritiro, con dozzine di fogli da smistare, in questa casa non mia di cui osservo i dettagli noti come fossero flashback di vite precedenti, ho perso diverse volte il senso del luogo e del tempo. Per essere in centro Genova è silenziosissimo, qui, ma ci sono stati tutto il giorno dei gabbiani assordanti, eppure il mare non si vede, non si sente, in questa Carignano che sembra da sempre un antichissimo paese dell'entroterra. Il sole non si è mai visto perché pioveva senza pause, e coi vetri opachi una strana traccia della luminosità esterna ingannava gli orologi.
Ho cercato di non proiettarmi solo su domani, sul rientro a casa, ma non riuscivo a stare qui nel presente: la cena, i registri da chiudere, le ricerche da vistare. Per centrarmi sulla realtà ho ripensato alla sua voce al telefono, alle foto che mi ha mandato, ai messaggi. Lui c'è. Esiste veramente. Il cuore fa delle acrobazie, delle risate isteriche, violente, al pensiero, perché questo sono io adesso: calma come una lady esteriormente, e dentro folle, folle di dolore amore gelosia gioia speranza terrore.
Nemmeno riesco a dire a qualcuno che proprio ora rischio di più, che non sarebbe, no no, il caso di lasciarmi sola con questi pensieri, che ora sì che vedo, come illuminato dai riflettori, l'abisso dove ho camminato per un anno al buio, e tutti i mostri che ci vivevano dentro.
Ma in tutto questo c'è qualcosa, o meglio, qualcuno, che non si è perso. Qualcuno che esiste nelle ore subito prima dell'alba. E che si ricorda tutto. Anche della ragazza castana morta a 39 anni. Una me che non ha più un corpo, fatta solo di luce, di anima, di gioia, che nel sonno, o nel sogno (al mattino non lo so più, perché lei con l'alba torna a nascondersi, nel comodino, in una parete, come le fate), lo abbraccia stretto, tutta arrembata a lui, a cucchiaio, o culo contro culo, come dormivamo d'inverno, e lo ama si spoglia lo spoglia gli sussurra. Stanotte a manate generose lui si prendeva il giusto sotto la maglietta e lei, che guarda caso indossava una t-shirt bianca di lui, sapeva con certezza di essere e di essere sentita e vista bellissima, aveva dimenticato gli anni le rughe le cicatrici il dolore la paura di dire la cosa sbagliata le occhiaie gli spasmi, e rideva, eterna, immortale, per sempre sua. E stanotte era per forza solo l'anima, perché lui era a 100 km. Ma era più reale di qualsiasi altra cosa accaduta durante la settimana.
E questa gioia no, non sfugge al controllo come quella di quando lui telefona, di quando lui c'è. Questa gioia è calma, è sicura. È davvero qualcuno che vede, fuori dal marasma di emozioni che mi porto dentro io. Qualcuno che ha aspettato dentro una parete, sotto a un comodino, perché sapeva.
Ci sono amori che si sanno. Da subito.
E invece parte.
Così io mi ritrovo a dormire nel letto che fu di mio padre, nella stanza che fu di mia nonna, col computer che fu del mio ragazzo, sotto i quadri che furono in casa delle mie zie. Straniamento. Senso di precarietà fra diversi mondi, dei quali molti sono stati casa mia.
Idee confuse.
Beh. Un anno fa a quest'ora ero sicuramente messa peggio, dai.
O no? Beh, sì. Dipende un po' tutto da domani, diciamo. E da dopodomani. E dal resto della mia vita, niente di cui agitarsi, tutto molto lineare, ma scherzi.
Dicevo, le idee sono molto, molto mischiate. Le sensazioni no, sono chiarissime. Anzi, a forza di sfrondare, amputare, rimpicciolire tutto quello che era quell'altra, quella che è morta a 39 anni, le sensazioni sono rimaste poche, ma fortissime ed evidenti.
Io so chi sono. Solo che non mi posso ancora permettere di esserlo.
Va pur detto che un pezzetto di me è rinato a Valloncello Silente, al buio sotto chilometri quadrati di cielo stellato, un pezzo di me è sopravvissuto grazie ai vari trilli dei messaggi di whatsapp delle mie persone, un pezzo di me è sepolto alla Madonna della Neve, un altro è rimasto schiacciato sulla statale, qualcosa di me sta su solo di facciata, per carità sembro la Creatura di Frankenstein, sono tutta cucita.
Sono talmente assuefatta al silenzio, alla solitudine e al dolore che, in questi giorni così simili alla normalità, ho le vertigini. Come uno che non ha più un organo malato e si sveglia la mattina pensando: eccomi, ora mi occupo di te, e poi si ricorda che quel pezzo non ce lo ha più. Come quando è morto mio padre e non c'è più stato da preoccuparsi di lui che era malato. Un vuoto così strano.
Oggi, in una specie di ritiro, con dozzine di fogli da smistare, in questa casa non mia di cui osservo i dettagli noti come fossero flashback di vite precedenti, ho perso diverse volte il senso del luogo e del tempo. Per essere in centro Genova è silenziosissimo, qui, ma ci sono stati tutto il giorno dei gabbiani assordanti, eppure il mare non si vede, non si sente, in questa Carignano che sembra da sempre un antichissimo paese dell'entroterra. Il sole non si è mai visto perché pioveva senza pause, e coi vetri opachi una strana traccia della luminosità esterna ingannava gli orologi.
Ho cercato di non proiettarmi solo su domani, sul rientro a casa, ma non riuscivo a stare qui nel presente: la cena, i registri da chiudere, le ricerche da vistare. Per centrarmi sulla realtà ho ripensato alla sua voce al telefono, alle foto che mi ha mandato, ai messaggi. Lui c'è. Esiste veramente. Il cuore fa delle acrobazie, delle risate isteriche, violente, al pensiero, perché questo sono io adesso: calma come una lady esteriormente, e dentro folle, folle di dolore amore gelosia gioia speranza terrore.
Nemmeno riesco a dire a qualcuno che proprio ora rischio di più, che non sarebbe, no no, il caso di lasciarmi sola con questi pensieri, che ora sì che vedo, come illuminato dai riflettori, l'abisso dove ho camminato per un anno al buio, e tutti i mostri che ci vivevano dentro.
Ma in tutto questo c'è qualcosa, o meglio, qualcuno, che non si è perso. Qualcuno che esiste nelle ore subito prima dell'alba. E che si ricorda tutto. Anche della ragazza castana morta a 39 anni. Una me che non ha più un corpo, fatta solo di luce, di anima, di gioia, che nel sonno, o nel sogno (al mattino non lo so più, perché lei con l'alba torna a nascondersi, nel comodino, in una parete, come le fate), lo abbraccia stretto, tutta arrembata a lui, a cucchiaio, o culo contro culo, come dormivamo d'inverno, e lo ama si spoglia lo spoglia gli sussurra. Stanotte a manate generose lui si prendeva il giusto sotto la maglietta e lei, che guarda caso indossava una t-shirt bianca di lui, sapeva con certezza di essere e di essere sentita e vista bellissima, aveva dimenticato gli anni le rughe le cicatrici il dolore la paura di dire la cosa sbagliata le occhiaie gli spasmi, e rideva, eterna, immortale, per sempre sua. E stanotte era per forza solo l'anima, perché lui era a 100 km. Ma era più reale di qualsiasi altra cosa accaduta durante la settimana.
E questa gioia no, non sfugge al controllo come quella di quando lui telefona, di quando lui c'è. Questa gioia è calma, è sicura. È davvero qualcuno che vede, fuori dal marasma di emozioni che mi porto dentro io. Qualcuno che ha aspettato dentro una parete, sotto a un comodino, perché sapeva.
Ci sono amori che si sanno. Da subito.
lunedì 18 aprile 2016
I just wanted to hold you here in my arms
Ho cercato di ricordarmi un momento della mia vita in cui la sensazione di essere fuggiti fosse così forte.
Fughe nella mia vita: poche. Fughe da brava ragazza.
Non so, forse è la volta in cui invece di andare a scuola io e le mie due inseparabili compagne di classe abbiamo preso il treno e siamo andate a Pisa.
Non era una fuga, lo sapevano tutti e io non stavo
scappando da chissà cosa, anzi stavo andando a vedere la Normale di Pisa, nella speranza di potermi mettere in gabbia per anni in una delle più prestigiose università italiane.
Però prendere il treno, di mattina all'ora in cui avremmo dovuto essere sedute nei banchi, tutte e tre insieme, era bello, era allontanarsi da tutto. Per noi tranquille e noiose liceali bastava poco.
Di certo, da quando avevo 16 anni, la prima presenza che avverto al mio fianco, se penso alla fuga, è quella della Tipa.
In fondo è con lei che sono stata all'estero, davvero lontana da tutto. Se penso alla fuga penso ancora ai prati di Leicester o alle colline della Scozia, ai suoi capelli lunghi e profumati, alle interminabili ore di pullman e aeroporti.
La fuga vera però è cominciata con lui.
Fuga era saltare le ore di latino del venerdì mattina, quando eravamo alla specializzazione, io sveglia dalle sette e mezza, "ho la frequenza obbligatoria...": ma poi lui mi baciava di nuovo, e uscire dal cerchio delle sue braccia era impossibile. Fuga era scegliere l'intervallo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio per andare a sdraiarsi sui prati in mezzo alle ginestre, sotto i forti di Genova (D'Annunzio ci faceva una pippa, a noi due, altro che scrosci di pioggia sulla pineta, un sole così e il mare blu in lontananza, niente sesso no, ché il sentiero era frequentatissimo, ma la sensazione che il mondo fosse ai nostri piedi, che gli dèi non potessero stare meglio, che l'eternità sarebbe stata questo).
Fuga poi, da sposati, era non correggere i compiti quando era tutto fiorito, ma prendere la macchina e andare a vedere una chiesetta in mezzo al verde, un paesino sperduto, qualunque cosa. Lontani da tutto. Pieni di sogni, un po' persi nel mare di colline, mica tanto sicuri di questa emigrazione in terra aleramica, mica tanto sicuri di esserci davvero davvero sul serio veramente sposati e lasciati dietro tutto e tutti, tanto giovani, un po' troppo soli. Noi due.
Ma anche così, anche mettendo insieme tutti questi ricordi diversi, non riesco a rivedere una sola volta in cui mi sia sentita così lontano da tutto, come ieri.
Ieri la fuga era meravigliosa, perché era la fuga da me stessa, da tutto quello che mi è pesato sulla schiena in questi mesi.
Fuga era il sole, la pioggia, la neve sulle montagne, il non dover dare spiegazioni a nessuno per essere sparita per un'estate intera ed essere tornata.
Fuga era tutto, ieri.
L'asfalto, il divano, il non avere bagagli, il potere tornare in qualsiasi momento, il sapere che alla sera c'era un altro impegno completamente diverso e che sarebbe bastato cambiare scarpe, infilare una giacca e rifare il trucco per essere a proprio agio.
Fuga era vedere lui che sorrideva.
Ma molto di più fuga è stato non farsi domande, non volere risposte, non cercare spiegazioni, non farsi paranoie, anche quando lui non sorrideva. Che vacanza, Dio mio, avere per sei o sette ore il cervello FERMO.
Fughe nella mia vita: poche. Fughe da brava ragazza.
Non so, forse è la volta in cui invece di andare a scuola io e le mie due inseparabili compagne di classe abbiamo preso il treno e siamo andate a Pisa.
Non era una fuga, lo sapevano tutti e io non stavo
scappando da chissà cosa, anzi stavo andando a vedere la Normale di Pisa, nella speranza di potermi mettere in gabbia per anni in una delle più prestigiose università italiane.
Però prendere il treno, di mattina all'ora in cui avremmo dovuto essere sedute nei banchi, tutte e tre insieme, era bello, era allontanarsi da tutto. Per noi tranquille e noiose liceali bastava poco.
Di certo, da quando avevo 16 anni, la prima presenza che avverto al mio fianco, se penso alla fuga, è quella della Tipa.
In fondo è con lei che sono stata all'estero, davvero lontana da tutto. Se penso alla fuga penso ancora ai prati di Leicester o alle colline della Scozia, ai suoi capelli lunghi e profumati, alle interminabili ore di pullman e aeroporti.
La fuga vera però è cominciata con lui.
Fuga era saltare le ore di latino del venerdì mattina, quando eravamo alla specializzazione, io sveglia dalle sette e mezza, "ho la frequenza obbligatoria...": ma poi lui mi baciava di nuovo, e uscire dal cerchio delle sue braccia era impossibile. Fuga era scegliere l'intervallo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio per andare a sdraiarsi sui prati in mezzo alle ginestre, sotto i forti di Genova (D'Annunzio ci faceva una pippa, a noi due, altro che scrosci di pioggia sulla pineta, un sole così e il mare blu in lontananza, niente sesso no, ché il sentiero era frequentatissimo, ma la sensazione che il mondo fosse ai nostri piedi, che gli dèi non potessero stare meglio, che l'eternità sarebbe stata questo).
Fuga poi, da sposati, era non correggere i compiti quando era tutto fiorito, ma prendere la macchina e andare a vedere una chiesetta in mezzo al verde, un paesino sperduto, qualunque cosa. Lontani da tutto. Pieni di sogni, un po' persi nel mare di colline, mica tanto sicuri di questa emigrazione in terra aleramica, mica tanto sicuri di esserci davvero davvero sul serio veramente sposati e lasciati dietro tutto e tutti, tanto giovani, un po' troppo soli. Noi due.
Ma anche così, anche mettendo insieme tutti questi ricordi diversi, non riesco a rivedere una sola volta in cui mi sia sentita così lontano da tutto, come ieri.
Ieri la fuga era meravigliosa, perché era la fuga da me stessa, da tutto quello che mi è pesato sulla schiena in questi mesi.
Fuga era il sole, la pioggia, la neve sulle montagne, il non dover dare spiegazioni a nessuno per essere sparita per un'estate intera ed essere tornata.
Fuga era tutto, ieri.
L'asfalto, il divano, il non avere bagagli, il potere tornare in qualsiasi momento, il sapere che alla sera c'era un altro impegno completamente diverso e che sarebbe bastato cambiare scarpe, infilare una giacca e rifare il trucco per essere a proprio agio.
Fuga era vedere lui che sorrideva.
Ma molto di più fuga è stato non farsi domande, non volere risposte, non cercare spiegazioni, non farsi paranoie, anche quando lui non sorrideva. Che vacanza, Dio mio, avere per sei o sette ore il cervello FERMO.
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