La mia psicologa mi ha detto di immaginarmi in una determinata scena, che io le ho descritto nei dettagli. Mi ha detto di associare alla sensazione che provavo un colore: ho risposto il rosso. Io indosso spesso il rosso quando voglio dimostrarmi sicura di me.
Poi mi ha chiesto di associare il rosso a un'altra immagine e io ho pensato ai papaveri. Ma, invece di intristirmi, ho capito che stavo pensando al punto da cui dovevo ripartire.
Quella primavera in cui faceva così caldo che ad aprile sono fioriti i papaveri. I papaveri che erano dappertutto quando è morta la Compagna Collega.
I papaveri di quando un'astronave aliena mi ha portato via, restituendomi qualche settimana dopo in uno stato pietoso. I papaveri di quando la mia vita si è rotta.
Devo ripartire da lì.
Oggi ho fatto domanda di trasferimento.
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lunedì 20 aprile 2020
sabato 18 agosto 2018
Il fiore del cardo
Io me lo ricordo, di avere collegato le incredibili, bellissime strutture triangolari sotto cui passavamo ogni venerdì e ogni domenica all'immagine sul pacchetto dei ciungai preferiti di mia madre, che ce li aveva sempre in borsa, probabilmente per non fumare, o per non mangiare. Mi ricordo di avere chiesto qualcosa su questo collegamento, e di aver sentito mia madre rispondere dal sedile davanti che il ponte disegnato sul pacchetto non era quello, ma quello in America. Comunque per spiegare a chiunque, genovese o frequentatore occasionale di Genova, di che viadotto si parlasse quando si parlava di quello sul Polcevera, tutti noi dicevamo "il ponte di Brooklyn" e la gente capiva, anche se ci era passata una volta sola.
Molti anni dopo, quando da Genova Ovest imboccavo lo svincolo e mi immettevo sul ponte, non mi lasciavo alle spalle solo il centro, ma anche tutta la mia vita di albarina, per correre tra le braccia del mio amore in quel di Sestri. Facevo solo quel tratto, Genova Ovest - Genova Aeroporto, che praticamente coincide quasi per intero col ponte, ma intanto ogni volta smettevo di essere figlia, ragazza, studentessa, man mano diventavo adulta, donna, moglie.
Mia figlia, che non ha mai vissuto a Genova, quando percorrevamo il ponte in arrivo dal Piemonte cambiava posizione sul sedile, come me, e come me prendeva un respiro, perché il ponte voleva dire essere arrivati.
Credo che dovrò andare a guardare coi miei occhi le macerie, il moncone, per rendermi conto che non c'è davvero più. E' inconcepibile. Come era inconcepibile guardare due, tre vigili del fuoco alla volta arrampicarsi con movimenti che sembravano lentissimi sulle gigantesche porzioni di cemento, come formichine disorientate. Come è inconcepibile che qualcuno sia sopravvissuto, che qualcuno sia volato giù e si sia polverizzato senza il tempo di formulare un pensiero, che qualcuno sia rimasto ore vivo e ferito, in mezzo a quella specie di mostruosa torre di cubi buttati giù dalla manata di un bambino smisurato. Come è inconcepibile che la gente domani, ai funerali, non prenda a sassate gli stronzi che pontificano, che parlano di soldi e che rimpallano le responsabilità. Come è inconcepibile che non ci mettano in fila tutti i pompieri, i medici, i sommozzatori, i poliziotti, gli infermieri, i vari membri dei reparti speciali, che in queste ore hanno fatto le veci di Dio, il quale, come è evidente, non esiste o se esiste è girato di là, per permetterci di abbracciarli tutti uno per uno, di dire grazie, cazzo sì persino gli sbirri, anche se forse solo per stavolta, vorrei abbracciare, solo per non essersi messi a correre lontano inorriditi e avere avuto il fegato e lo stomaco di rimanere lì a lavorare in quell'apocalisse. Come è inconcepibile che non lo ricostruiscano lì, il ponte.
Se fosse per me, idealmente, lo ricostruirei davvero proprio lì. Nello stesso punto, con un progetto migliore, facendo venire, cazzo ne so, l'architetto giapponese che se ne capisce di antisismica e di strutture che sfidano la gravità, molto simile esteticamente però. Vietato ai mezzi pesanti. E colorato. Costruito coi nostri soldi, coi soldi della gente, da non dover dire grazie a nessuno, che si fottano i politici e i Benetton e tutti i palazzinari che se la ridono quando crolla qualcosa in Italia. Un ponte su cui ogni Genovese possa scoppiare in lacrime di tristezza e di orgoglio la prima volta che ci passa. Un ponte per la gente, perché i Genovesi se lo meritano. I Genovesi come quello che ha portato, alle tre e mezza di mattina, la focaccia a quanti scavavano e rimuovevano blocchi di calcestruzzo e indagavano con le sonde nelle voragini. Un ristoratore di Albaro, c'è scritto, quindi uno che avrebbe potuto portare qualsiasi cosa, della pasta, dei dolci, un intero menu, e invece ha portato otto teglie di focaccia profumata, perché quello che bisognava nutrire non era il corpo, era il senso di appartenenza, la simpatia, la condivisione, che uno che ha vissuto a Genova può identificare al primo colpo in una striscia di focaccia tiepida, unta il giusto, salata il giusto, morbida il giusto, sbocconcellata in piedi sorridendo. Quando l'Uomo mi ha fatto vedere questo tweet, eravamo in mezzo a un reparto dell'Ikea a Collegno, ma mi sembrava di sentire l'odore della nostra focaccia, e di vedere nella luce dei fari delle ruspe l'espressione di gioia sul viso delle persone accaldate e stanche.
Noi intanto eravamo alle prese con diverse cose nostre, minori per impatto ma molto serie da dove le vedo io. Mentre ancora il camioncino verde del Basko stava lì fermo, sopra quell'orrendo trampolino di asfalto a strapiombo sulla morte, io e mia madre, in montagna, aspettavamo in silenzio, con tutto il paese, l'arrivo del carro funebre che portava alla chiesetta un uomo da tutti molto amato e con tutti molto affettuoso. Aveva una trentina d'anni quando ho iniziato, col gruppo di amici di allora, a cenare nella sua pizzeria l'ultima sera prima delle partenze di fine vacanza, e neanche sessanta ora che gestiva un ristorante prestigioso, dal clima accogliente, dove il rapporto coi clienti era tutto basato sulla sua cortesia e il suo modo di fare accattivante. Uno di quei posti dove la gente andava con regolarità a festeggiare compleanni e anniversari sapendo di avere la giusta atmosfera, anche noi ci abbiamo fatto il settantesimo della Mater. Da tempo, l'Uomo aveva legato con lui e anche col fratello, nel cui bar andavamo a esercitare il nostro inglese, guardare il campionato britannico e sorseggiare strepitosi Irish coffee.
Non credevo di piangere, invece l'ho fatto, perchè quando ho visto arrivare la bara mi ha colpito un dettaglio, i fiori. Che da lontano sembravano, per forma e colore, un mazzo di erbe di prato, di quelle che crescono lì intorno e profumano il paese fin nel suo centro. Infatti, visti da vicino, erano fiori coltivati, ma comprendevano margheritoni bianchi e tanti, tanti fiori di cardo. Il nostro amico era inglese, non scozzese, quindi il cardo poteva voler significare solo una cosa, non il richiamo alla terra natia, ma l'omaggio alla montagna tanto amata. Ho pianto. Perché io capivo molto bene cosa legava al paese il nostro amico nato oltre la Manica, e perché ero sicura di non essere la sola a notarlo. L'Uomo è arrivato in ritardo, mia madre lo guardava abbastanza in cagnesco perché sa quanto sono stanca e triste di passare le estati così, e guardava me pensosamente. Lui la bara l'ha vista quando ci è ripassata davanti, perché la chiesa e il sagrato erano stracolmi, e noi la messa in due lingue l'abbiamo intuita vagamente, dai gracidii dell'altoparlante che arrivavano fin sulla piazzetta. E ha detto: "Che bei fiori…" In quel momento avrei voluto dire a mia madre: "Ecco, lo vedi perché? Perché sono ancora con lui, perché alla fine è solo con lui che posso voler stare tutta la vita? Perché lui vede le cose che vedo io." Non avevo dubbi su quel che intendesse con "che belli", ma poi ce lo siamo anche spiegati, quando siamo rimasti soli. Era appunto quel che avevo pensato io. Che poi, nella mia mente, qualche ora dopo ho collegato la bellezza ruvida del cardo alla focaccia delle tre di notte ai piedi del disastro, al sorriso della mia gente coraggiosa, al ricoprirsi di spine per andare avanti, al mettere fuori un fiore tutto spettinato e strano mentre si resiste al vento.
Molti anni dopo, quando da Genova Ovest imboccavo lo svincolo e mi immettevo sul ponte, non mi lasciavo alle spalle solo il centro, ma anche tutta la mia vita di albarina, per correre tra le braccia del mio amore in quel di Sestri. Facevo solo quel tratto, Genova Ovest - Genova Aeroporto, che praticamente coincide quasi per intero col ponte, ma intanto ogni volta smettevo di essere figlia, ragazza, studentessa, man mano diventavo adulta, donna, moglie.
Mia figlia, che non ha mai vissuto a Genova, quando percorrevamo il ponte in arrivo dal Piemonte cambiava posizione sul sedile, come me, e come me prendeva un respiro, perché il ponte voleva dire essere arrivati.
Credo che dovrò andare a guardare coi miei occhi le macerie, il moncone, per rendermi conto che non c'è davvero più. E' inconcepibile. Come era inconcepibile guardare due, tre vigili del fuoco alla volta arrampicarsi con movimenti che sembravano lentissimi sulle gigantesche porzioni di cemento, come formichine disorientate. Come è inconcepibile che qualcuno sia sopravvissuto, che qualcuno sia volato giù e si sia polverizzato senza il tempo di formulare un pensiero, che qualcuno sia rimasto ore vivo e ferito, in mezzo a quella specie di mostruosa torre di cubi buttati giù dalla manata di un bambino smisurato. Come è inconcepibile che la gente domani, ai funerali, non prenda a sassate gli stronzi che pontificano, che parlano di soldi e che rimpallano le responsabilità. Come è inconcepibile che non ci mettano in fila tutti i pompieri, i medici, i sommozzatori, i poliziotti, gli infermieri, i vari membri dei reparti speciali, che in queste ore hanno fatto le veci di Dio, il quale, come è evidente, non esiste o se esiste è girato di là, per permetterci di abbracciarli tutti uno per uno, di dire grazie, cazzo sì persino gli sbirri, anche se forse solo per stavolta, vorrei abbracciare, solo per non essersi messi a correre lontano inorriditi e avere avuto il fegato e lo stomaco di rimanere lì a lavorare in quell'apocalisse. Come è inconcepibile che non lo ricostruiscano lì, il ponte.
Se fosse per me, idealmente, lo ricostruirei davvero proprio lì. Nello stesso punto, con un progetto migliore, facendo venire, cazzo ne so, l'architetto giapponese che se ne capisce di antisismica e di strutture che sfidano la gravità, molto simile esteticamente però. Vietato ai mezzi pesanti. E colorato. Costruito coi nostri soldi, coi soldi della gente, da non dover dire grazie a nessuno, che si fottano i politici e i Benetton e tutti i palazzinari che se la ridono quando crolla qualcosa in Italia. Un ponte su cui ogni Genovese possa scoppiare in lacrime di tristezza e di orgoglio la prima volta che ci passa. Un ponte per la gente, perché i Genovesi se lo meritano. I Genovesi come quello che ha portato, alle tre e mezza di mattina, la focaccia a quanti scavavano e rimuovevano blocchi di calcestruzzo e indagavano con le sonde nelle voragini. Un ristoratore di Albaro, c'è scritto, quindi uno che avrebbe potuto portare qualsiasi cosa, della pasta, dei dolci, un intero menu, e invece ha portato otto teglie di focaccia profumata, perché quello che bisognava nutrire non era il corpo, era il senso di appartenenza, la simpatia, la condivisione, che uno che ha vissuto a Genova può identificare al primo colpo in una striscia di focaccia tiepida, unta il giusto, salata il giusto, morbida il giusto, sbocconcellata in piedi sorridendo. Quando l'Uomo mi ha fatto vedere questo tweet, eravamo in mezzo a un reparto dell'Ikea a Collegno, ma mi sembrava di sentire l'odore della nostra focaccia, e di vedere nella luce dei fari delle ruspe l'espressione di gioia sul viso delle persone accaldate e stanche.
Noi intanto eravamo alle prese con diverse cose nostre, minori per impatto ma molto serie da dove le vedo io. Mentre ancora il camioncino verde del Basko stava lì fermo, sopra quell'orrendo trampolino di asfalto a strapiombo sulla morte, io e mia madre, in montagna, aspettavamo in silenzio, con tutto il paese, l'arrivo del carro funebre che portava alla chiesetta un uomo da tutti molto amato e con tutti molto affettuoso. Aveva una trentina d'anni quando ho iniziato, col gruppo di amici di allora, a cenare nella sua pizzeria l'ultima sera prima delle partenze di fine vacanza, e neanche sessanta ora che gestiva un ristorante prestigioso, dal clima accogliente, dove il rapporto coi clienti era tutto basato sulla sua cortesia e il suo modo di fare accattivante. Uno di quei posti dove la gente andava con regolarità a festeggiare compleanni e anniversari sapendo di avere la giusta atmosfera, anche noi ci abbiamo fatto il settantesimo della Mater. Da tempo, l'Uomo aveva legato con lui e anche col fratello, nel cui bar andavamo a esercitare il nostro inglese, guardare il campionato britannico e sorseggiare strepitosi Irish coffee.
Non credevo di piangere, invece l'ho fatto, perchè quando ho visto arrivare la bara mi ha colpito un dettaglio, i fiori. Che da lontano sembravano, per forma e colore, un mazzo di erbe di prato, di quelle che crescono lì intorno e profumano il paese fin nel suo centro. Infatti, visti da vicino, erano fiori coltivati, ma comprendevano margheritoni bianchi e tanti, tanti fiori di cardo. Il nostro amico era inglese, non scozzese, quindi il cardo poteva voler significare solo una cosa, non il richiamo alla terra natia, ma l'omaggio alla montagna tanto amata. Ho pianto. Perché io capivo molto bene cosa legava al paese il nostro amico nato oltre la Manica, e perché ero sicura di non essere la sola a notarlo. L'Uomo è arrivato in ritardo, mia madre lo guardava abbastanza in cagnesco perché sa quanto sono stanca e triste di passare le estati così, e guardava me pensosamente. Lui la bara l'ha vista quando ci è ripassata davanti, perché la chiesa e il sagrato erano stracolmi, e noi la messa in due lingue l'abbiamo intuita vagamente, dai gracidii dell'altoparlante che arrivavano fin sulla piazzetta. E ha detto: "Che bei fiori…" In quel momento avrei voluto dire a mia madre: "Ecco, lo vedi perché? Perché sono ancora con lui, perché alla fine è solo con lui che posso voler stare tutta la vita? Perché lui vede le cose che vedo io." Non avevo dubbi su quel che intendesse con "che belli", ma poi ce lo siamo anche spiegati, quando siamo rimasti soli. Era appunto quel che avevo pensato io. Che poi, nella mia mente, qualche ora dopo ho collegato la bellezza ruvida del cardo alla focaccia delle tre di notte ai piedi del disastro, al sorriso della mia gente coraggiosa, al ricoprirsi di spine per andare avanti, al mettere fuori un fiore tutto spettinato e strano mentre si resiste al vento.
mercoledì 27 luglio 2016
Zone d'ombra: alcune delle cose che non vi ho raccontato - Intro
Stamattina mi sento di dirvi delle cose. Un po' si deve al fatto che ieri ne ho parlato con la mia psicologa, la Fata Bionda.
La Fata Bionda mi ha chiesto di cosa sono stufa, e io sono stufa delle zone d'ombra delle persone, o meglio, sono stufa di avere a che fare con persone che hanno zone d'ombra grandi come il Baden-Württemberg.
Poi in realtà questo post lo scrivo perché mi stavo alzando da letto, dopo aver letto le ultime di Zerocalcare, e pensavo che mi sarei messa a lavorare subito, perché il mio corso online alla Macquarie University ha una scadenza il primo agosto, e io già so che non riuscirò a rispettarla se non mi ci metto immediatamente. Ci sono 13 consegne da preparare. E domani finalmente rientra l'Uomo. A questo punto, ho pensato, adesso lo racconto ai miei blogamici che seguo questi corsi da due anni, tanto lo sanno già che sono una secchiona di merda, e allora mi sono resa conto che tutte le volte che leggo l'icona di Coursera sulla mia bacheca, sulla copertina del mio tablet o sul desktop del mio computer, penso sempre alla stessa scena e penso che quella scena, in qualche modo, sia l'origine del male che è successo in questi mesi nella mia vita. La piega quantica che ha risucchiato via la luce.
Per scrivere questo post devo parlare male di una persona, anzi di molte persone, e siccome sono tutte persone che hanno a che fare con me, alla fine devo parlare male di me stessa. Come sempre succede quando uno si espone su Internet a raccontare i cazzi suoi.
D'altra parte per parlare davvero male di qualcuno bisogna conoscerlo. E e si dà il caso che le persone di cui parlo qui siano tra le persone che io più amo, a cui più tengo sulla faccia della terra. E quando dico amo, non intendo ci sono stata bene in vacanza, ci ho scopato bene un paio di volte, sono stata contenta di farci un viaggio in treno insieme. Intendo sono stata al loro fianco per anni e anni, ho visto i loro momenti bui, condiviso tutte le loro fatiche. Sono stata lì anche a prezzo di grandi sacrifici, a costo di grandi litigi. Io c'ero e questo mi dà il diritto di dire quello che penso, così come loro hanno diritto di dire quello che pensano di me che mi sono a mia volta esposta.
Diciamo che nella mia concezione dell'amore questi sono quei rapporti in cui io metto veramente alla prova quello che sento per qualcuno e dopo, una volta che ne sono sicura, non posso più usare il passato, dire l'ho amato, siamo stati amici, ci siamo voluti bene.
Nel momento in cui il mio rapporto con qualcuno arriva a farmi conoscere i suoi punti bui i suoi difetti i suoi problemi e io resto, quello per me è l'Amore definitivo. Per gli altri invece un motivo per allontanarsi, forse. Ma non per quelli che mi scelgo io. Quelli restano, di solito. Perché ognuno, diceva Montale, riconosce i suoi. E qualcuno se ne è andato, lo stesso: ma a me non frega un cazzo. Io amo così, mi metto in gioco così. Io sono fatta così. E non dimentico.
Ma andiamo con ordine, perché questo è un post che fa soffrire. Ho perso l'abitudine a scrivere fluentemente e con belle parole su cazzate di cui alla fin fine non importa niente a nessuno.
Gli argomenti che sto affrontando nella mia vita sono talmente grossi che la maggior parte delle volte, qui, non ne riesco nemmeno a dire due parole. Perché il buio e il dolore creano confusione ed è nella confusione che io vivo (vivo è un po' eccessivo: diciamo respiro) da mesi.
La scena che si ripresenta alla mia mente ha una data precisa. Una luce precisa. E la voce della Frenci. La Frenci, sì. Mai più sentita nominare qui, giusto? Qualcuno di voi legge e commenta ancora i suoi articoli in rete. Qualcuno la vede e la frequenta. Io non più. Non è una scelta mia. E non era una blogamica. Era mia sorella. Gemella.
Dalle versioni di greco all'atrio di un pronto soccorso. Dal testo di linguistica al pentolino del Nescafè. Dal muretto di Vernazzola all'altare di un santuario.
Quel giorno la Frenci mi parla di Coursera. Siamo sedute allo spazio bimbi dell'Ikea di Torino. I suoi due giocano lì sotto. Noi sorseggiamo caffè. Uno dei milioni di caffè americani che le ho visto bere. E parliamo fitto fitto. Come abbiamo parlato sempre. Per VENTICINQUE anni.
Quel giorno lei mi apre per l'ennesima volta una strada. Come io a lei avevo aperto Lettere. Lei a me aveva aperto il commercio equo. Io a lei lo yoga. Mi racconta della piattaforma che offre corsi delle migliori università del mondo, con o senza attestazione di svolgimento, GRATIS.
Sorridiamo. Sento il suo odore di spezie e stoffe tinte a mano. Ce la ridiamo come al solito. C'è luce.
Poi io dico: "Ecco vedi. Proprio questo mi serviva. Togliermi delle soddisfazioni senza rincorrere col tempo e i soldi una seconda laurea, e soprattutto i voti. Basta, ormai, essere valutati. Io so cosa valgo. Voglio studiare. Voglio una cosa bella gratis."
La mia voce dice: "Voglio una cosa bella gratis".
E in quel momento gli dèi mi ascoltano. E puniscono la mia hybris. Dandomi quel che chiedo, o peggio, facendomi credere di ottenerlo.
Dopo pochissimi giorni da quel dialogo, alla mia porta si presenta, del tutto spontaneamente, una cosa bella. Bellissima. E inaspettata. Ma non era gratis. E da quell'istante le zone d'ombra hanno preso il potere tutto intorno a me. Quel giorno all'Ikea è stata probabilmente l'ultima volta che ho sorriso immersa nella luce.
La Fata Bionda mi ha chiesto di cosa sono stufa, e io sono stufa delle zone d'ombra delle persone, o meglio, sono stufa di avere a che fare con persone che hanno zone d'ombra grandi come il Baden-Württemberg.
Poi in realtà questo post lo scrivo perché mi stavo alzando da letto, dopo aver letto le ultime di Zerocalcare, e pensavo che mi sarei messa a lavorare subito, perché il mio corso online alla Macquarie University ha una scadenza il primo agosto, e io già so che non riuscirò a rispettarla se non mi ci metto immediatamente. Ci sono 13 consegne da preparare. E domani finalmente rientra l'Uomo. A questo punto, ho pensato, adesso lo racconto ai miei blogamici che seguo questi corsi da due anni, tanto lo sanno già che sono una secchiona di merda, e allora mi sono resa conto che tutte le volte che leggo l'icona di Coursera sulla mia bacheca, sulla copertina del mio tablet o sul desktop del mio computer, penso sempre alla stessa scena e penso che quella scena, in qualche modo, sia l'origine del male che è successo in questi mesi nella mia vita. La piega quantica che ha risucchiato via la luce.
Per scrivere questo post devo parlare male di una persona, anzi di molte persone, e siccome sono tutte persone che hanno a che fare con me, alla fine devo parlare male di me stessa. Come sempre succede quando uno si espone su Internet a raccontare i cazzi suoi.
D'altra parte per parlare davvero male di qualcuno bisogna conoscerlo. E e si dà il caso che le persone di cui parlo qui siano tra le persone che io più amo, a cui più tengo sulla faccia della terra. E quando dico amo, non intendo ci sono stata bene in vacanza, ci ho scopato bene un paio di volte, sono stata contenta di farci un viaggio in treno insieme. Intendo sono stata al loro fianco per anni e anni, ho visto i loro momenti bui, condiviso tutte le loro fatiche. Sono stata lì anche a prezzo di grandi sacrifici, a costo di grandi litigi. Io c'ero e questo mi dà il diritto di dire quello che penso, così come loro hanno diritto di dire quello che pensano di me che mi sono a mia volta esposta.
Diciamo che nella mia concezione dell'amore questi sono quei rapporti in cui io metto veramente alla prova quello che sento per qualcuno e dopo, una volta che ne sono sicura, non posso più usare il passato, dire l'ho amato, siamo stati amici, ci siamo voluti bene.
Nel momento in cui il mio rapporto con qualcuno arriva a farmi conoscere i suoi punti bui i suoi difetti i suoi problemi e io resto, quello per me è l'Amore definitivo. Per gli altri invece un motivo per allontanarsi, forse. Ma non per quelli che mi scelgo io. Quelli restano, di solito. Perché ognuno, diceva Montale, riconosce i suoi. E qualcuno se ne è andato, lo stesso: ma a me non frega un cazzo. Io amo così, mi metto in gioco così. Io sono fatta così. E non dimentico.
Ma andiamo con ordine, perché questo è un post che fa soffrire. Ho perso l'abitudine a scrivere fluentemente e con belle parole su cazzate di cui alla fin fine non importa niente a nessuno.
Gli argomenti che sto affrontando nella mia vita sono talmente grossi che la maggior parte delle volte, qui, non ne riesco nemmeno a dire due parole. Perché il buio e il dolore creano confusione ed è nella confusione che io vivo (vivo è un po' eccessivo: diciamo respiro) da mesi.
La scena che si ripresenta alla mia mente ha una data precisa. Una luce precisa. E la voce della Frenci. La Frenci, sì. Mai più sentita nominare qui, giusto? Qualcuno di voi legge e commenta ancora i suoi articoli in rete. Qualcuno la vede e la frequenta. Io non più. Non è una scelta mia. E non era una blogamica. Era mia sorella. Gemella.
Dalle versioni di greco all'atrio di un pronto soccorso. Dal testo di linguistica al pentolino del Nescafè. Dal muretto di Vernazzola all'altare di un santuario.
Quel giorno la Frenci mi parla di Coursera. Siamo sedute allo spazio bimbi dell'Ikea di Torino. I suoi due giocano lì sotto. Noi sorseggiamo caffè. Uno dei milioni di caffè americani che le ho visto bere. E parliamo fitto fitto. Come abbiamo parlato sempre. Per VENTICINQUE anni.
Quel giorno lei mi apre per l'ennesima volta una strada. Come io a lei avevo aperto Lettere. Lei a me aveva aperto il commercio equo. Io a lei lo yoga. Mi racconta della piattaforma che offre corsi delle migliori università del mondo, con o senza attestazione di svolgimento, GRATIS.
Sorridiamo. Sento il suo odore di spezie e stoffe tinte a mano. Ce la ridiamo come al solito. C'è luce.
Poi io dico: "Ecco vedi. Proprio questo mi serviva. Togliermi delle soddisfazioni senza rincorrere col tempo e i soldi una seconda laurea, e soprattutto i voti. Basta, ormai, essere valutati. Io so cosa valgo. Voglio studiare. Voglio una cosa bella gratis."
La mia voce dice: "Voglio una cosa bella gratis".
E in quel momento gli dèi mi ascoltano. E puniscono la mia hybris. Dandomi quel che chiedo, o peggio, facendomi credere di ottenerlo.
Dopo pochissimi giorni da quel dialogo, alla mia porta si presenta, del tutto spontaneamente, una cosa bella. Bellissima. E inaspettata. Ma non era gratis. E da quell'istante le zone d'ombra hanno preso il potere tutto intorno a me. Quel giorno all'Ikea è stata probabilmente l'ultima volta che ho sorriso immersa nella luce.
mercoledì 19 novembre 2014
Inaspettati viaggi, vedi che nella vita non sai mai
Prendiamo un mercoledì, ma di trent'anni fa.
Ci sono una bambina e una donna.
La bambina è incazzata nera perché la mamma le ha fatto tagliare i suoi lunghi e bellissimi capelli castani alla maschietta. Poi è sfigata, e poi è imbranata, e poi è anche con lo scazzo perché deve andare a danza.
La donna è alta, con i capelli lunghi lunghi lunghi tirati su in una crocchia, e ha le parole incrociate in borsa, perchè starà fuori dalla sala di danza tutta l'ora e mezza che ci vorrà, perché è più semplice che andare e tornare dal teatro a casa, e perché la bambina è imparanoiata, ha l'ansia dell'abbandono.
E ogni tanto, d'accordo con la severissima maestra Rossana, che tutte le volte la guarda schifata, la bambina durante l'ora di danza andrà ad aprire la porticina che dà sul teatro, e la donna sarà lì seduta con la schiena ben dritta, a portata d'occhio: la volta che non ce la trovasse, scoppierebbe la tragedia, e poi magari, povera santa, era solo nell'atrio che si faceva fare un caffè, o in bagno. Ma la donna, 99 volte su 100, c'è. La saluta. La bimba la guarda, annuisce, e saperla lì le permette di tornare all'odiata sbarra senza impanicarsi.
Dopo, la donna porterà la bambina a prendere una bella cioccolata calda. E poi a casa a fare i compiti.
Prendiamo un mercoledì, ma della settimana prossima.
Ci saranno un donna e una vecchietta.
La donna avrà i capelli lunghi e una borsa con il lavoro a maglia e un sorriso felice sulla faccia.
La vecchietta avrà i capelli candidi lunghi lunghi legati in una coda o in una treccia come una nativa americana, e si muoverà piano piano con un girello, o verrà spinta in sedia a rotelle.
La donna arriverà dal corridoio, vedrà la vecchietta illuminarsi in viso quando entrerà nella stanza, e la riempirà di baci. E poi cercheranno un posto dove sedersi, nella nuova casa, quella a tre minuti di macchina, finalmente, da casa della donna. E la donna tirerà fuori il lavoro a maglia o una rivista o degli oggetti da guardare con la vecchietta, oppure non farà niente di tutto questo, perché parleranno e si terranno le mani, perché una ravvierà i capelli all'altra e si sorrideranno. Forse berranno anche la cioccolata calda.
Poi la donna saluterà la vecchietta e andrà a casa a far fare i compiti a sua figlia.
Certe cose, tra zia e nipote, non cambiano mai. E di sicuro il fatto che fuori dalla finestra la zia non veda più il mare, ma la neve, sarà secondario rispetto al fatto che i suoi occhi si tuffino ancora nei miei con la stessa gioia.
Ci sono una bambina e una donna.
La bambina è incazzata nera perché la mamma le ha fatto tagliare i suoi lunghi e bellissimi capelli castani alla maschietta. Poi è sfigata, e poi è imbranata, e poi è anche con lo scazzo perché deve andare a danza.
La donna è alta, con i capelli lunghi lunghi lunghi tirati su in una crocchia, e ha le parole incrociate in borsa, perchè starà fuori dalla sala di danza tutta l'ora e mezza che ci vorrà, perché è più semplice che andare e tornare dal teatro a casa, e perché la bambina è imparanoiata, ha l'ansia dell'abbandono.
E ogni tanto, d'accordo con la severissima maestra Rossana, che tutte le volte la guarda schifata, la bambina durante l'ora di danza andrà ad aprire la porticina che dà sul teatro, e la donna sarà lì seduta con la schiena ben dritta, a portata d'occhio: la volta che non ce la trovasse, scoppierebbe la tragedia, e poi magari, povera santa, era solo nell'atrio che si faceva fare un caffè, o in bagno. Ma la donna, 99 volte su 100, c'è. La saluta. La bimba la guarda, annuisce, e saperla lì le permette di tornare all'odiata sbarra senza impanicarsi.
Dopo, la donna porterà la bambina a prendere una bella cioccolata calda. E poi a casa a fare i compiti.
Prendiamo un mercoledì, ma della settimana prossima.
Ci saranno un donna e una vecchietta.
La donna avrà i capelli lunghi e una borsa con il lavoro a maglia e un sorriso felice sulla faccia.
La vecchietta avrà i capelli candidi lunghi lunghi legati in una coda o in una treccia come una nativa americana, e si muoverà piano piano con un girello, o verrà spinta in sedia a rotelle.
La donna arriverà dal corridoio, vedrà la vecchietta illuminarsi in viso quando entrerà nella stanza, e la riempirà di baci. E poi cercheranno un posto dove sedersi, nella nuova casa, quella a tre minuti di macchina, finalmente, da casa della donna. E la donna tirerà fuori il lavoro a maglia o una rivista o degli oggetti da guardare con la vecchietta, oppure non farà niente di tutto questo, perché parleranno e si terranno le mani, perché una ravvierà i capelli all'altra e si sorrideranno. Forse berranno anche la cioccolata calda.
Poi la donna saluterà la vecchietta e andrà a casa a far fare i compiti a sua figlia.
Certe cose, tra zia e nipote, non cambiano mai. E di sicuro il fatto che fuori dalla finestra la zia non veda più il mare, ma la neve, sarà secondario rispetto al fatto che i suoi occhi si tuffino ancora nei miei con la stessa gioia.
mercoledì 22 ottobre 2014
Fino a noi
Ha attraversato il deserto a piedi.
E' alto, secco e legnoso come un albero bruciato.
Non ha ancora compiuto quindici anni.
Per questo è qui, e non con gli altri. E' il più piccolo del gruppo. E' solo.
Sto guardando un pezzo terribile della storia del XXI secolo, arrivato fino a noi, in un paesino della Valle delle Meraviglie. Non è il primo rifugiato che incontro, ma sicuramente è il più giovane. E il primo con cui avrò a che fare di persona.
Scusate se ve lo dico così come mi viene. Cercate di capire. Lo so che a Lampedusa e in parecchi altri posti lo sapevano da una vita. Ma io lavoro in mezzo alle colline in Piemonte.
La prima cosa che ho pensato guardando Wanaagsan è: DIO, ALLORA ESISTONO VERAMENTE.
Non sono solo un'immagine bidimensionale alla tv. Questo qua è vero. Ce l'ha davvero, la storia addosso. Ed è una storia di cui, anche fosse solo uno, solo lui, con quel buio negli occhi alla sua età, ci dovremmo vergognare tutti.
E' alto, secco e legnoso come un albero bruciato.
Non ha ancora compiuto quindici anni.
Per questo è qui, e non con gli altri. E' il più piccolo del gruppo. E' solo.
Sto guardando un pezzo terribile della storia del XXI secolo, arrivato fino a noi, in un paesino della Valle delle Meraviglie. Non è il primo rifugiato che incontro, ma sicuramente è il più giovane. E il primo con cui avrò a che fare di persona.
Scusate se ve lo dico così come mi viene. Cercate di capire. Lo so che a Lampedusa e in parecchi altri posti lo sapevano da una vita. Ma io lavoro in mezzo alle colline in Piemonte.
La prima cosa che ho pensato guardando Wanaagsan è: DIO, ALLORA ESISTONO VERAMENTE.
Non sono solo un'immagine bidimensionale alla tv. Questo qua è vero. Ce l'ha davvero, la storia addosso. Ed è una storia di cui, anche fosse solo uno, solo lui, con quel buio negli occhi alla sua età, ci dovremmo vergognare tutti.
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sabato 12 luglio 2014
Quando una stella muore
E così io mi sono fatta coraggio e ho detto addio.
E non è facile, quando in realtà è più di un mese che lui è ripartito per il suo lontano pianeta.
Ma mi scriveva, da là. Rispondeva ai miei messaggi. Mi scriveva di notte, mi scriveva spesso, e a volte sembrava riaprire discorsi, ferite, desideri. A volte sembrava dire che era preoccupato per me. A volte sembrava buttare lì una mezza idea di riprovarci.
Poi allora una dice okay, ho capito tutto, non sto a dire e a fare niente di che, ma per scriverci così, vediamoci, no?
No.
E invece, molte frasi cosmiche.
Molto, moltissimo dolore causato dalle frasi cosmiche.
Troppi pensieri.
Notti troppo lunghe, giorni di stordimento, il sole che mi scalda la pelle ma non il petto, che è sempre pietrificato, freddo, morto.
Finisce che faccio prima a salutarlo io, prima che mi lasci precipitare lui nel vuoto interstellare, senza una meta.
Così lo saluto, o almeno ci provo, a calibrare le parole che possano rendere l'idea di cosa è stato, senza però rendermi ridicola. A trasmettere come mi sento, senza però suscitare pietà. A omettere cosa devo fare adesso per riprendere il filo della mia vita, senza tacergli che non posso e non voglio scordare niente.
E menomale che leggo e scrivo per mestiere: comunque non esiste una lingua in cui certe cose si possano davvero dire.
Poi per fortuna gli uomini, soprattutto quelli che hanno bevuto, sanno smontare qualsiasi concetto e ridurlo ai minimi termini. E le parole, allora, le ho trovate eccome.
Okay. Capitolo chiuso.
Ciao, alieno. Stattene sulla tua stella, viviti la tua vita, e quando guarderai giù e vedrai un piccolo pianeta azzurro molto lontano, pensa che potevi uscirne con una figura di gran lunga migliore, visto che ai miei occhi eri sceso dal cielo come un dio.
Oggi a un certo punto ero a Genova da sola. C'era un bel sole ma non faceva caldo. La Zia Buona non rispondeva al citofono, essendo sorda. Mia madre non rispondeva al telefono. Sanguedelmiosangue lo avevo appena visto. Con l'Uomo avevo avuto un chiarimento in after hour fino alle due di notte, con corollario, e finalmente qualche risultato, dolorosissimo, stamattina. Ero tranquilla su dove fosse la Princi. Con la bellissima e inutilissima forma di vita proveniente da altro sistema solare non c'era più niente da dire. Il mare profumava. Mi sono venuti in mente mio padre e la Zia Bella, che stanno sempre lì nel punto dove l'onda si frange e torna indietro, con un bel rumore di sassolini.
Ho respirato.
C'è rimasta ancora vita su questo pianeta.
E non è facile, quando in realtà è più di un mese che lui è ripartito per il suo lontano pianeta.
Ma mi scriveva, da là. Rispondeva ai miei messaggi. Mi scriveva di notte, mi scriveva spesso, e a volte sembrava riaprire discorsi, ferite, desideri. A volte sembrava dire che era preoccupato per me. A volte sembrava buttare lì una mezza idea di riprovarci.
Poi allora una dice okay, ho capito tutto, non sto a dire e a fare niente di che, ma per scriverci così, vediamoci, no?
No.
E invece, molte frasi cosmiche.
Molto, moltissimo dolore causato dalle frasi cosmiche.
Troppi pensieri.
Notti troppo lunghe, giorni di stordimento, il sole che mi scalda la pelle ma non il petto, che è sempre pietrificato, freddo, morto.
Finisce che faccio prima a salutarlo io, prima che mi lasci precipitare lui nel vuoto interstellare, senza una meta.
Così lo saluto, o almeno ci provo, a calibrare le parole che possano rendere l'idea di cosa è stato, senza però rendermi ridicola. A trasmettere come mi sento, senza però suscitare pietà. A omettere cosa devo fare adesso per riprendere il filo della mia vita, senza tacergli che non posso e non voglio scordare niente.
E menomale che leggo e scrivo per mestiere: comunque non esiste una lingua in cui certe cose si possano davvero dire.
Poi per fortuna gli uomini, soprattutto quelli che hanno bevuto, sanno smontare qualsiasi concetto e ridurlo ai minimi termini. E le parole, allora, le ho trovate eccome.
Okay. Capitolo chiuso.
Ciao, alieno. Stattene sulla tua stella, viviti la tua vita, e quando guarderai giù e vedrai un piccolo pianeta azzurro molto lontano, pensa che potevi uscirne con una figura di gran lunga migliore, visto che ai miei occhi eri sceso dal cielo come un dio.
Oggi a un certo punto ero a Genova da sola. C'era un bel sole ma non faceva caldo. La Zia Buona non rispondeva al citofono, essendo sorda. Mia madre non rispondeva al telefono. Sanguedelmiosangue lo avevo appena visto. Con l'Uomo avevo avuto un chiarimento in after hour fino alle due di notte, con corollario, e finalmente qualche risultato, dolorosissimo, stamattina. Ero tranquilla su dove fosse la Princi. Con la bellissima e inutilissima forma di vita proveniente da altro sistema solare non c'era più niente da dire. Il mare profumava. Mi sono venuti in mente mio padre e la Zia Bella, che stanno sempre lì nel punto dove l'onda si frange e torna indietro, con un bel rumore di sassolini.
Ho respirato.
C'è rimasta ancora vita su questo pianeta.
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mercoledì 29 gennaio 2014
Una tacca sul fucile, duramente guadagnata peraltro
"Professoressa... mi può aiutare, per favore?"
Questi sono quei momenti in cui so perchè mi sbatto da undici anni per il dannato Stato italiano nella maledetta istruzione pubblica o paritaria, sotto il fottuto ministero, e sotto qualunque governo ladro e condizione contrattuale di merda.
Perchè quando a dire questa frase è Atreiu, l'Irriducibile, che ha due note per la stessa cosa, prese venerdì da due prof diversi nessuno dei quali sei tu
... e ti aspetta per dirtela, alla fine della mattinata, quando sono usciti gli altri, tutto ossuto e un po' storto, ma così alto ormai che ti sovrasta, con la voce seria da ragazzo grande, dopo che tu gli hai con la massima calma e fermezza annunciato che riproporrai la sua sospensione in consiglio di classe "perchè bisogna mettere un punto a questa situazione, e poi ricominciare da capo", e lui invece di stringere i pugni, sbuffare e prendere a manate il banco ti ha guardato in faccia, e ha pensato...
... e ti aspetta per dirtela, alla fine della mattinata, quando sono usciti gli altri, tutto ossuto e un po' storto, ma così alto ormai che ti sovrasta, con la voce seria da ragazzo grande, dopo che tu gli hai con la massima calma e fermezza annunciato che riproporrai la sua sospensione in consiglio di classe "perchè bisogna mettere un punto a questa situazione, e poi ricominciare da capo", e lui invece di stringere i pugni, sbuffare e prendere a manate il banco ti ha guardato in faccia, e ha pensato...
...vuol dire che non hai, come a volte ti era sembrato, buttato nel cesso due anni e mezzo di tentativi, sgridate, discorsi seri, discorsi scherzosi, baruffe, consigli, sorrisi, sopracciglia inarcate, occhi stretti, occhi rivolti al cielo, sguardi affettuosi, segnacci sul foglio, manate sul banco e qualche stretta affettuosa alla spalla, nè tutti quei fazzoletti quella volta famosa.
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giovedì 10 ottobre 2013
Ho fatto il salto
Oggi sono entrata nella scuola.
Ho salutato il segretario che usciva.
Ho fatto un cenno a una collega, che si è liberata di quel che stava facendo per venirmi a parlare.
E abbiamo parlato.
Di:
giustificazioni
firme
autorizzazioni alle uscite
spese per le uscite
orari di rientro
libri di testo
rendimento scolastico
Poi me ne sono andata, dicendo: "La ringrazio, professoressa" e pensavo che è strano: io non mi rivolgo a nessuno chiamandolo professore o professoressa.
Ma non posso dare del tu alla coordinatrice del corso di mia figlia, nemmeno se insegna la mia stessa materia ed è più giovane di me.
Ho salutato il segretario che usciva.
Ho fatto un cenno a una collega, che si è liberata di quel che stava facendo per venirmi a parlare.
E abbiamo parlato.
Di:
giustificazioni
firme
autorizzazioni alle uscite
spese per le uscite
orari di rientro
libri di testo
rendimento scolastico
Poi me ne sono andata, dicendo: "La ringrazio, professoressa" e pensavo che è strano: io non mi rivolgo a nessuno chiamandolo professore o professoressa.
Ma non posso dare del tu alla coordinatrice del corso di mia figlia, nemmeno se insegna la mia stessa materia ed è più giovane di me.
venerdì 4 ottobre 2013
auleintempesta e i cinquantaquattro minuti
Il minuto di silenzio lo abbiamo fatto.
Ma sono gli altri cinquantaquattro minuti di spiegazioni, domande e riflessioni quelli in cui gli insegnanti oggi si sono sforzati di gettare i semi che faranno, forse, un giorno, la differenza in questo Paese.
La terza A è stata molto attenta.
Ma sotto il mare ci sono lo stesso gli altri, e loro a scuola non ci sono mai andati e non ci andranno, anche se erano intelligenti come Winnie Pooh, riflessivi come Momo Docteur, brillanti come la Verace, curiosi come Microlord, vivaci come Dylan McKay, determinati come Tostissima, luminosi come Huck Finn, buffi come Atreiu, spiritosi come il Malinconelfo.
E qualcuno, che voleva soccorrerli, anche stavolta ha dovuto girarsi di là. Io dico che anche per queste persone dovrebbero intervenire gli organismi internazionali che difendono i diritti umani. Avere una coscienza, ma non poterla usare senza macchiarsi la fedina penale, è una violenza atroce.
Ma sono gli altri cinquantaquattro minuti di spiegazioni, domande e riflessioni quelli in cui gli insegnanti oggi si sono sforzati di gettare i semi che faranno, forse, un giorno, la differenza in questo Paese.
La terza A è stata molto attenta.
Ma sotto il mare ci sono lo stesso gli altri, e loro a scuola non ci sono mai andati e non ci andranno, anche se erano intelligenti come Winnie Pooh, riflessivi come Momo Docteur, brillanti come la Verace, curiosi come Microlord, vivaci come Dylan McKay, determinati come Tostissima, luminosi come Huck Finn, buffi come Atreiu, spiritosi come il Malinconelfo.
E qualcuno, che voleva soccorrerli, anche stavolta ha dovuto girarsi di là. Io dico che anche per queste persone dovrebbero intervenire gli organismi internazionali che difendono i diritti umani. Avere una coscienza, ma non poterla usare senza macchiarsi la fedina penale, è una violenza atroce.
giovedì 23 maggio 2013
venerdì 12 aprile 2013
Cambiamenti
Eccoci qua.
Dall'ultima volta che ci siamo sentiti, annoveriamo qualche novità. Niente di che. Diciamo che questa settimana passerà solo alla storia di questa famiglia come una delle più significative, in fatto di cambiamenti.
Per esempio, mio padre da ieri abita in un istituto. Mia madre abita da sola. Mia zia insiste per andare nello stesso istituto pure lei. Io ho avuto un gran bel tracollo psicofisico, pur essendo d'accordissimo con questi cambiamenti, ma ora che è finita la fase tremenda dell'accudimento a casa... diciamo, per tagliarla corta, che sono impegnatissima a non svenire e a non piangere nei luoghi meno opportuni. Pazienza, passerà. Ci sta, che una abbia un momento di down dopo tutta 'sta tensione. L'importante è aver adottato la soluzione giusta. Speriamo, dai, che vada tutto nel migliore dei modi.
Mio cugino forse trova un accordo con suo padre e va a lavorare e a vivere da solo. E anche questa non è poca cosa, no?
E se non vi sembra abbastanza... noi, invece, di vivere da soli eravamo stufi. Da un sacco di tempo, come alcuni di voi ben sanno. E siccome la vita è proprio pazzesca, proprio adesso, proprio in questi giornate campali, beh, ne capita un'altra e cioè, bravi, avete indovinato, capita che si allarga la famiglia. Tranquilli eh, il ciclo ce l'ho regolarmente. Sapete che noi siamo gente complicata. Questa retorica dell'utero, questo culto dell'ecografia, a quasi quarant'anni... no dai, è inutile che faccia la sostenuta, l'idea di figli nostri non è che ci lasci ormai indifferenti, anzi. Ma insomma, è passato veramente tanto tempo da quando abbiamo cominciato a sostenere che famiglia non vuole per forza dire genetica. Per dire la verità eravamo sposati da nemmeno sei mesi e parlavamo di figli naturali, affidatari e adottivi con grande disponibilità, e, se volete proprio saperlo, avessimo colto la prima mela che ci era stata offerta, adesso avremmo un figlio affidatario già maggiorenne. Ma si vede che la vita doveva fare tutti i suoi giri, prima, e ne ha fatti, oh se ne ha fatti, prima di arrivare a questa settimana.
Comunque. Poi vi dirò bene, anche perché è tutto all'inizio, ma all'inizio inizio, proprio tanto all'inizio, e queste cose sono di un incasinato... ma insomma, sembra che finalmente un'occasione di provare a essere genitori toccherà anche a noi. Suspense... non sono autorizzata a dire nient'altro.
Mi pare che ve la dovevo, qualche notizia bella, dopo tutti 'sti mesi in cui avete retto le mie sfighe.
Dall'ultima volta che ci siamo sentiti, annoveriamo qualche novità. Niente di che. Diciamo che questa settimana passerà solo alla storia di questa famiglia come una delle più significative, in fatto di cambiamenti.
Per esempio, mio padre da ieri abita in un istituto. Mia madre abita da sola. Mia zia insiste per andare nello stesso istituto pure lei. Io ho avuto un gran bel tracollo psicofisico, pur essendo d'accordissimo con questi cambiamenti, ma ora che è finita la fase tremenda dell'accudimento a casa... diciamo, per tagliarla corta, che sono impegnatissima a non svenire e a non piangere nei luoghi meno opportuni. Pazienza, passerà. Ci sta, che una abbia un momento di down dopo tutta 'sta tensione. L'importante è aver adottato la soluzione giusta. Speriamo, dai, che vada tutto nel migliore dei modi.
Mio cugino forse trova un accordo con suo padre e va a lavorare e a vivere da solo. E anche questa non è poca cosa, no?
E se non vi sembra abbastanza... noi, invece, di vivere da soli eravamo stufi. Da un sacco di tempo, come alcuni di voi ben sanno. E siccome la vita è proprio pazzesca, proprio adesso, proprio in questi giornate campali, beh, ne capita un'altra e cioè, bravi, avete indovinato, capita che si allarga la famiglia. Tranquilli eh, il ciclo ce l'ho regolarmente. Sapete che noi siamo gente complicata. Questa retorica dell'utero, questo culto dell'ecografia, a quasi quarant'anni... no dai, è inutile che faccia la sostenuta, l'idea di figli nostri non è che ci lasci ormai indifferenti, anzi. Ma insomma, è passato veramente tanto tempo da quando abbiamo cominciato a sostenere che famiglia non vuole per forza dire genetica. Per dire la verità eravamo sposati da nemmeno sei mesi e parlavamo di figli naturali, affidatari e adottivi con grande disponibilità, e, se volete proprio saperlo, avessimo colto la prima mela che ci era stata offerta, adesso avremmo un figlio affidatario già maggiorenne. Ma si vede che la vita doveva fare tutti i suoi giri, prima, e ne ha fatti, oh se ne ha fatti, prima di arrivare a questa settimana.
Comunque. Poi vi dirò bene, anche perché è tutto all'inizio, ma all'inizio inizio, proprio tanto all'inizio, e queste cose sono di un incasinato... ma insomma, sembra che finalmente un'occasione di provare a essere genitori toccherà anche a noi. Suspense... non sono autorizzata a dire nient'altro.
Mi pare che ve la dovevo, qualche notizia bella, dopo tutti 'sti mesi in cui avete retto le mie sfighe.
mercoledì 17 ottobre 2012
Pocahontas e l'Arcangelo
La mamma di Pocahontas mi avvicina dopo la riunione per l'elezione dei rappresentanti dei genitori.
"Professoressa, volevo chiederle come va mia figlia...". Sguardo teso.
"Bene, come al solito, è una brava studentessa. Anche se devo dire che, quest'anno, è un po' più distratta..."
"Ecco, appunto, sì, volevo dirglielo io..."
"Va beh, sa, crescono, cambiano... per un periodo, ultimamente, aveva anche un fidanzatino..."
"Infatti, ne parlavo con la prof di matematica ora!!! Ah ma io le ho detto subito di levarselo dalla testa eh??? Ma figuriamoci..."
"Eh, sa com'è, è l'età; poi per carità, niente di che, gironzolavano insieme all'intervallo... La collega li ha sgridati perchè una volta li ha visti sbaciucchiarsi, ma a me per esempio non è mai capitato di vedere niente del genere."
"Ma la sua collega ha fatto benissimo, scherziamo?"
"D'accordo, noi li sgridiamo se danno spettacolo, perchè capisce bene che sono 170 ragazzi, se tutti si sbaciucchiassero nei corridoi, allora... Però, a dire il vero, qui a scuola non credo possa succedere niente di male... Spero!"
"Ma vede il problema è che sono dello stesso paese!!!Guardi, sono rimasta malissimo, quest'estate, e anche all'inizio della scuola quando c'erano pochi compiti, la lasciavo uscire, credevo in buona fede di fare bene... quando ho scoperto che si vedevano coi ragazzi, le ho detto ora basta, ora scuola, casa, esci solo il sabato per andare a catechismo, domenica la messa e fine!"
Mi deve essere scappato un fumetto sopra la testa con scritto: "euh!!! Bum!!!" o forse ho mosso un sopracciglio... Fatto sta che la madre si è un po' ricomposta, dicendo:
"Cioè, ora, non è che io voglia proibirle tutto... però, professoressa" (e qui ha ingoiato qualcosa che poteva essere un grosso ragno, e le tremavano le labbra) "E' GIOVANE! E' COSI' GIOVANE! HA DODICI ANNI!!!"
Ho cercato di confortarla: e lo so e lo so, i ragazzi sono diversi da come eravamo noi, che ci arrivavamo più avanti, mio marito mi diceva che a sedici anni lui era ancora un patatone che pensava solo al calcio... questi sono decisamente più svegli (eh sì, in questa terza proprio sì) ma insomma, poi basta che uno ci metta un po' di cervello in quel che fa... basta che abbia chiare due o tre cose base, tanto da fermarsi a farsi due domande (neh, Occhioni?) prima di ficcarsi nei guai... Peraltro cosa possiamo farci, crescono...
Però continuo a sentirmi in testa la voce rotta di questa degna signora che geme: "E' così giovane!"
E oggi, che ho fatto tre ore con la terza, guardavo di sottecchi il fidanzatino di Pocahontas, ovvero l'Arcangelo Occhiviola. Che, obiettivamente, è bellissimo, anche guardato da adulta. E misterioso, con quell'aria seria; e però quest'anno, invece di essere musone e riservato, è ironico, è tutto un gioco di sopracciglia inarcate e facce buffe, come se avesse trovato un suo modo per comunicare con gli adulti di cui prima sfuggiva lo sguardo, ma sempre prendendo le distanze. E mi dicevo: certo che io, a dodici anni, ai ragazzi ci pensavo, eccome. Se uno così avesse deciso di percorrere il corridoio con me, e non parliamo proprio se avesse cercato di baciarmi, mi sarei letteralmente liquefatta. Avrei riso e pianto come una scema, e riempito quaderni interi di cuoricini poesie e frasi cosmiche, poi mi sarei sfondata le orecchie con il Walkman (il Walkman!!!) a sentire cose tipo Careless Whispers di George Michael, la sigla del Tempo delle Mele, Heaven di Bryan Adams, e tutti quei lentazzi impossibili da riascoltare che andavano nel 1988, tra i quali, per motivi a me sconosciuti, eravamo però in grado di mettere anche un'intramontabile Moonlight Shadow e, di lì a pochissimo, Losing My Religion, che non mi direte mica che non è un capolavoro.
Poi ho pensato a Riccardo. Riccardo veniva con me in piscina in campagna. Stavamo ore sullo stesso asciugamano, seduti a gambe incrociate o sdraiati a pancia sotto, a giocare a carte, a compilare giochi sulle riviste, facevamo il bagno, mangiavamo il gelato. Giocavamo a ping pong, a pallavolo. Passavamo ore e ore a dire cose prive del minimo contenuto, dondolando le gambe da una sedia da giardino, sotto i pioppi. A volte con altri, a volte io e lui da soli. Mi trovava carina, e una volta me l'ha detto. Io non ho raccolto. Mi piaceva suo fratello grande, ma così, solo perchè era grande e, obiettivamente, molto bello. In realtà adoravo proprio stare con Riccardo ed era tanto, tanto carino anche lui. Aveva gli occhi come il cioccolato al latte, una voce bellissima, la pelle abbronzata, e mi faceva ridere di pancia. Ogni tanto,giocavamo a chi dei due riusciva a trascinare l'altro sul bordo della piscina e lanciarlo tutto asciutto dentro l'acqua gelata. Se però lui cercava di tirarmi in acqua, magari alzandomi su di peso, e io facevo l'aria atterrita e dicevo a denti stretti "oggi non posso", la sua presa forte diventava immediatamente delicata, mi lasciava subito con espressione rispettosa, e poi, più tardi, mi chiedeva se avevo caldo, mi lasciava il posto all'ombra, si alzava lui per spostare le sdraio o andare a comprare il gelato della merenda.
Chissà cosa vedeva mia madre, guardandoci. Esistono ancora cose così, credo, e io non vorrei sporcarle mettendoci sopra dei pensieri che non c'entrano niente.
"Professoressa, volevo chiederle come va mia figlia...". Sguardo teso.
"Bene, come al solito, è una brava studentessa. Anche se devo dire che, quest'anno, è un po' più distratta..."
"Ecco, appunto, sì, volevo dirglielo io..."
"Va beh, sa, crescono, cambiano... per un periodo, ultimamente, aveva anche un fidanzatino..."
"Infatti, ne parlavo con la prof di matematica ora!!! Ah ma io le ho detto subito di levarselo dalla testa eh??? Ma figuriamoci..."
"Eh, sa com'è, è l'età; poi per carità, niente di che, gironzolavano insieme all'intervallo... La collega li ha sgridati perchè una volta li ha visti sbaciucchiarsi, ma a me per esempio non è mai capitato di vedere niente del genere."
"Ma la sua collega ha fatto benissimo, scherziamo?"
"D'accordo, noi li sgridiamo se danno spettacolo, perchè capisce bene che sono 170 ragazzi, se tutti si sbaciucchiassero nei corridoi, allora... Però, a dire il vero, qui a scuola non credo possa succedere niente di male... Spero!"
"Ma vede il problema è che sono dello stesso paese!!!Guardi, sono rimasta malissimo, quest'estate, e anche all'inizio della scuola quando c'erano pochi compiti, la lasciavo uscire, credevo in buona fede di fare bene... quando ho scoperto che si vedevano coi ragazzi, le ho detto ora basta, ora scuola, casa, esci solo il sabato per andare a catechismo, domenica la messa e fine!"
Mi deve essere scappato un fumetto sopra la testa con scritto: "euh!!! Bum!!!" o forse ho mosso un sopracciglio... Fatto sta che la madre si è un po' ricomposta, dicendo:
"Cioè, ora, non è che io voglia proibirle tutto... però, professoressa" (e qui ha ingoiato qualcosa che poteva essere un grosso ragno, e le tremavano le labbra) "E' GIOVANE! E' COSI' GIOVANE! HA DODICI ANNI!!!"
Ho cercato di confortarla: e lo so e lo so, i ragazzi sono diversi da come eravamo noi, che ci arrivavamo più avanti, mio marito mi diceva che a sedici anni lui era ancora un patatone che pensava solo al calcio... questi sono decisamente più svegli (eh sì, in questa terza proprio sì) ma insomma, poi basta che uno ci metta un po' di cervello in quel che fa... basta che abbia chiare due o tre cose base, tanto da fermarsi a farsi due domande (neh, Occhioni?) prima di ficcarsi nei guai... Peraltro cosa possiamo farci, crescono...
Però continuo a sentirmi in testa la voce rotta di questa degna signora che geme: "E' così giovane!"
E oggi, che ho fatto tre ore con la terza, guardavo di sottecchi il fidanzatino di Pocahontas, ovvero l'Arcangelo Occhiviola. Che, obiettivamente, è bellissimo, anche guardato da adulta. E misterioso, con quell'aria seria; e però quest'anno, invece di essere musone e riservato, è ironico, è tutto un gioco di sopracciglia inarcate e facce buffe, come se avesse trovato un suo modo per comunicare con gli adulti di cui prima sfuggiva lo sguardo, ma sempre prendendo le distanze. E mi dicevo: certo che io, a dodici anni, ai ragazzi ci pensavo, eccome. Se uno così avesse deciso di percorrere il corridoio con me, e non parliamo proprio se avesse cercato di baciarmi, mi sarei letteralmente liquefatta. Avrei riso e pianto come una scema, e riempito quaderni interi di cuoricini poesie e frasi cosmiche, poi mi sarei sfondata le orecchie con il Walkman (il Walkman!!!) a sentire cose tipo Careless Whispers di George Michael, la sigla del Tempo delle Mele, Heaven di Bryan Adams, e tutti quei lentazzi impossibili da riascoltare che andavano nel 1988, tra i quali, per motivi a me sconosciuti, eravamo però in grado di mettere anche un'intramontabile Moonlight Shadow e, di lì a pochissimo, Losing My Religion, che non mi direte mica che non è un capolavoro.
Poi ho pensato a Riccardo. Riccardo veniva con me in piscina in campagna. Stavamo ore sullo stesso asciugamano, seduti a gambe incrociate o sdraiati a pancia sotto, a giocare a carte, a compilare giochi sulle riviste, facevamo il bagno, mangiavamo il gelato. Giocavamo a ping pong, a pallavolo. Passavamo ore e ore a dire cose prive del minimo contenuto, dondolando le gambe da una sedia da giardino, sotto i pioppi. A volte con altri, a volte io e lui da soli. Mi trovava carina, e una volta me l'ha detto. Io non ho raccolto. Mi piaceva suo fratello grande, ma così, solo perchè era grande e, obiettivamente, molto bello. In realtà adoravo proprio stare con Riccardo ed era tanto, tanto carino anche lui. Aveva gli occhi come il cioccolato al latte, una voce bellissima, la pelle abbronzata, e mi faceva ridere di pancia. Ogni tanto,giocavamo a chi dei due riusciva a trascinare l'altro sul bordo della piscina e lanciarlo tutto asciutto dentro l'acqua gelata. Se però lui cercava di tirarmi in acqua, magari alzandomi su di peso, e io facevo l'aria atterrita e dicevo a denti stretti "oggi non posso", la sua presa forte diventava immediatamente delicata, mi lasciava subito con espressione rispettosa, e poi, più tardi, mi chiedeva se avevo caldo, mi lasciava il posto all'ombra, si alzava lui per spostare le sdraio o andare a comprare il gelato della merenda.
Chissà cosa vedeva mia madre, guardandoci. Esistono ancora cose così, credo, e io non vorrei sporcarle mettendoci sopra dei pensieri che non c'entrano niente.
venerdì 4 maggio 2012
La goduria del riccio
Pensi che hai tutti i muscoli che ti fanno male e la testa che ti gira e sei tutta sudata.
Attribuiresti la colpa alle quindici precedenti tremende giornate, alle molte ore su una sedia scomoda tra il letto e il muro, o anche solo ai pochi minuti in cui tuo padre, quel vecchietto bianco e fragile che hanno messo al posto del titano che conoscevi, non ha opposto resistenza al farsi trasportare in sedia a rotelle attraverso l'ospedale.
Sei stanca, sì. E triste. Ma non è questo che ti fa dolere i muscoli. E' che da due ore non stai respirando, impegnatissima a seguire.
L'ultima volta che stavi così col fiato sospeso eri una ragazzina, eri a Montecarlo, e stavi guardando una partita di tennis tra Goran Ivanisevic e uno spagnolo, e gli scambi erano lunghissimi.
Stavolta c'è un uomo solo. Che parla con una voce caldissima e potente, con dolcezza e sarcasmo, con sapienza e allegria, con indignazione e poesia.
E la testa ti gira, perchè quell'uomo sta mettendo in scena un secolo di scienza, di storia, di filosofia, di cultura, controcultura, ignoranza, fede, tecnica, curiosità. E la sua voce sta riportando in vita Giordano Bruno, Galilei, Keplero, Campanella, Shakespeare, papi, dogi, cardinali, signori fiorentini, studenti padovani, personaggi uno dentro l'altro, uno sopra l'altro, e sapere, tanto tantissimo sapere, tanto di quel sapere che ti chiedi perchè hai mollato la classe di abilitazione A037 di storia e filosofia, che adesso magari insegneresti al liceo e la sera ti scoperesti a sangue testi come quello sul Seicento di Claudio Costantini o L'etica protestante e lo spirito del capitalismo o il Ginsborg o Il capitale o Seneca o i diari di bordo dei grandi esploratori, per poi, la mattina, cavalcare gloriosamente le idee, le intuizioni e le vicende dei grandi di tutto il mondo davanti a una classe di gente che sa di cosa stai parlando.
E sei tutta sudata perchè Marco Paolini è un tuo mito sovrano, da quando una sera con tuo padre anni fa hai visto in tv lo spettacolo sul Vajont, e questa è la prima volta che lo senti live in un teatro, e la sua voce dal vivo è di più, di più di più di più di quell'esperienza goduriosissima che ti eri prefigurata ascoltandone la registrazione.
Negli ultimi 21 giorni ho vissuto solo ed esclusivamente emozioni enormi, questa è una di quelle positive.
Attribuiresti la colpa alle quindici precedenti tremende giornate, alle molte ore su una sedia scomoda tra il letto e il muro, o anche solo ai pochi minuti in cui tuo padre, quel vecchietto bianco e fragile che hanno messo al posto del titano che conoscevi, non ha opposto resistenza al farsi trasportare in sedia a rotelle attraverso l'ospedale.
Sei stanca, sì. E triste. Ma non è questo che ti fa dolere i muscoli. E' che da due ore non stai respirando, impegnatissima a seguire.
L'ultima volta che stavi così col fiato sospeso eri una ragazzina, eri a Montecarlo, e stavi guardando una partita di tennis tra Goran Ivanisevic e uno spagnolo, e gli scambi erano lunghissimi.
Stavolta c'è un uomo solo. Che parla con una voce caldissima e potente, con dolcezza e sarcasmo, con sapienza e allegria, con indignazione e poesia.
E la testa ti gira, perchè quell'uomo sta mettendo in scena un secolo di scienza, di storia, di filosofia, di cultura, controcultura, ignoranza, fede, tecnica, curiosità. E la sua voce sta riportando in vita Giordano Bruno, Galilei, Keplero, Campanella, Shakespeare, papi, dogi, cardinali, signori fiorentini, studenti padovani, personaggi uno dentro l'altro, uno sopra l'altro, e sapere, tanto tantissimo sapere, tanto di quel sapere che ti chiedi perchè hai mollato la classe di abilitazione A037 di storia e filosofia, che adesso magari insegneresti al liceo e la sera ti scoperesti a sangue testi come quello sul Seicento di Claudio Costantini o L'etica protestante e lo spirito del capitalismo o il Ginsborg o Il capitale o Seneca o i diari di bordo dei grandi esploratori, per poi, la mattina, cavalcare gloriosamente le idee, le intuizioni e le vicende dei grandi di tutto il mondo davanti a una classe di gente che sa di cosa stai parlando.
E sei tutta sudata perchè Marco Paolini è un tuo mito sovrano, da quando una sera con tuo padre anni fa hai visto in tv lo spettacolo sul Vajont, e questa è la prima volta che lo senti live in un teatro, e la sua voce dal vivo è di più, di più di più di più di quell'esperienza goduriosissima che ti eri prefigurata ascoltandone la registrazione.
Negli ultimi 21 giorni ho vissuto solo ed esclusivamente emozioni enormi, questa è una di quelle positive.
lunedì 16 aprile 2012
E questo 2012 che ci piace tanto
...si è portato via anche il mio prof della tesi, al quale non ero molto affezionata, anzi, che rappresentava buona parte di quello che io non volevo diventare nella vita lavorativa. Conoscerlo mi ha chiarito, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la carriera accademica non era proprio la mia strada.
Ma abbiamo collaborato per tre anni, e correggeva con puntualità e attenzione assoluta ogni singola riga dei miei lavori con la biro rossa, come un umile prof delle medie, il che mi ha sempre fatto effetto, in un mondo in cui i tesisti valgono meno di zero e il lavoro di seguirli, se non è svolto svogliatamente e in modo capriccioso, è spesso demandato a assistentelli sottopagati.
Non mi viene, se penso che non c'è più, la stessa voragine nel cuore che ancora mi si apre se solo nomino il professore di Letteratura Italiana I, l'indimenticabile, appassionato Franco Croce Bermondi, che è morto anni fa in un incidente d'auto privandoci per sempre della sua bellissima voce calda, delle sue parole ispirate e delle sue impeRRiose R con cui leggeva "CaRRon dimonio dagl'occhi di bRRagia" o "la baRRba unta e atRRa" di CeRRbeRo. Gli rendo omaggio ogni santa volta che leggo una terzina dantesca. Ma anche Bertini era bravo, ed essere scelta da lui per scrivere una tesi e degli articoli era un grande onore. La facoltà di Lettere di Genova è più povera senza di lui.
Ma abbiamo collaborato per tre anni, e correggeva con puntualità e attenzione assoluta ogni singola riga dei miei lavori con la biro rossa, come un umile prof delle medie, il che mi ha sempre fatto effetto, in un mondo in cui i tesisti valgono meno di zero e il lavoro di seguirli, se non è svolto svogliatamente e in modo capriccioso, è spesso demandato a assistentelli sottopagati.
Non mi viene, se penso che non c'è più, la stessa voragine nel cuore che ancora mi si apre se solo nomino il professore di Letteratura Italiana I, l'indimenticabile, appassionato Franco Croce Bermondi, che è morto anni fa in un incidente d'auto privandoci per sempre della sua bellissima voce calda, delle sue parole ispirate e delle sue impeRRiose R con cui leggeva "CaRRon dimonio dagl'occhi di bRRagia" o "la baRRba unta e atRRa" di CeRRbeRo. Gli rendo omaggio ogni santa volta che leggo una terzina dantesca. Ma anche Bertini era bravo, ed essere scelta da lui per scrivere una tesi e degli articoli era un grande onore. La facoltà di Lettere di Genova è più povera senza di lui.
lunedì 9 aprile 2012
Lo scrigno
Nelle fiabe c'è quel cofanetto il cui contenuto
a) è prezioso e magico
b) è pericoloso
c) è l'unico modo per collegare una persona al suo passato
d) è l'unico luogo dove custodire un segreto
Genova per me sta diventando tutto questo. Ogni volta che sollevo il coperchio dello scrigno per un istante, da dentro filtrano colori, suoni, ricordi, dolori, emozioni.
Oggi, chissà perchè, un rapido passaggio in macchina lungo una delle solite vie mi ha improvvisamente proiettato indietro in un punto a random del mio passato, e ho fatto una cosa mai vista prima, ho svoltato profittando dell'assenza di traffico della sera di Pasquetta e mi sono infilata lungo le impervie stradine in salita, in curva, strette, cieche, praticamente impercorribili, che portano alla facoltà di Ingegneria. Non l'avevo mai fatto, l'ultima volta che sono passata di lì deve essere stato quando si è laureata la Tipa.
E intanto tornava uno spezzone del mio vissuto, i miei passi lungo quella stessa salita, l'elasticità dei miei muscoli di ventenne che camminava ogni giorno per le strade di città, i miei braccialetti tintinnanti al polso, la borsa coi libri, e il suo odore, le sue mani, la stoffa dei suoi abiti. Le pause pranzo nei giardini del conservatorio,il sole che ci scaldava la pelle. Il giorno che s'è laureato, la folla di ragazzi eleganti, io con il vestitino blu, i capelli lunghissimi, una gigantesca scatola infiocchettata da regalargli. Il suo letto stretto e le luci della città viste dalla sua finestra, l'odore polveroso del divano nella casa di campagna, il suo braccialetto d'oro.
Per la prima volta ho pensato che, a parte la certezza che non saremmo mai andati oltre quel che eravamo allora, praticamente non ho brutti ricordi di lui. Peccato che lui non possa dire altrettanto di me. Per la prima volta ho pensato che mi dispiace che lui non abbia visto cosa potevo diventare. Si è preso la parte peggiore, eppure se potessi parlargliene so che mi direbbe che non me ne vuole. Io non posso avercela con lui per com'è finita, non dopo aver visto cosa c'era dietro quell'angolo che ho svoltato di malavoglia. A volte mi chiedo cosa direi, cosa farei, se una volta davvero ci potesse succedere di vederci da soli e fare il punto di quel che è stato, prima e dopo. Penso che sarebbe strano ancora adesso parlare di questioni personali senza rannicchiarmi tra le sue braccia. Eppure il regalo migliore che mi ha fatto è stato andarsene mentre all'orizzonte appariva il mio vero futuro, il treno che non potevo perdere, l'inizio della mia vita. Io credo che le cose migliori di me che ha avuto siano state la dolcezza, l'affetto e il rispetto con cui gli ho parlato o scritto dopo, la gratitudine eterna che gli porto per quel che ha accettato di vivere al mio fianco, e questi ricordi luminosi, pieni di vita, che stanno qua e là in agguato negli angoli di Genova. Chissà in quale punto della città lui qualche volta rivede il mio fantasma all'improvviso, e se sorride.
a) è prezioso e magico
b) è pericoloso
c) è l'unico modo per collegare una persona al suo passato
d) è l'unico luogo dove custodire un segreto
Genova per me sta diventando tutto questo. Ogni volta che sollevo il coperchio dello scrigno per un istante, da dentro filtrano colori, suoni, ricordi, dolori, emozioni.
Oggi, chissà perchè, un rapido passaggio in macchina lungo una delle solite vie mi ha improvvisamente proiettato indietro in un punto a random del mio passato, e ho fatto una cosa mai vista prima, ho svoltato profittando dell'assenza di traffico della sera di Pasquetta e mi sono infilata lungo le impervie stradine in salita, in curva, strette, cieche, praticamente impercorribili, che portano alla facoltà di Ingegneria. Non l'avevo mai fatto, l'ultima volta che sono passata di lì deve essere stato quando si è laureata la Tipa.
E intanto tornava uno spezzone del mio vissuto, i miei passi lungo quella stessa salita, l'elasticità dei miei muscoli di ventenne che camminava ogni giorno per le strade di città, i miei braccialetti tintinnanti al polso, la borsa coi libri, e il suo odore, le sue mani, la stoffa dei suoi abiti. Le pause pranzo nei giardini del conservatorio,il sole che ci scaldava la pelle. Il giorno che s'è laureato, la folla di ragazzi eleganti, io con il vestitino blu, i capelli lunghissimi, una gigantesca scatola infiocchettata da regalargli. Il suo letto stretto e le luci della città viste dalla sua finestra, l'odore polveroso del divano nella casa di campagna, il suo braccialetto d'oro.
Per la prima volta ho pensato che, a parte la certezza che non saremmo mai andati oltre quel che eravamo allora, praticamente non ho brutti ricordi di lui. Peccato che lui non possa dire altrettanto di me. Per la prima volta ho pensato che mi dispiace che lui non abbia visto cosa potevo diventare. Si è preso la parte peggiore, eppure se potessi parlargliene so che mi direbbe che non me ne vuole. Io non posso avercela con lui per com'è finita, non dopo aver visto cosa c'era dietro quell'angolo che ho svoltato di malavoglia. A volte mi chiedo cosa direi, cosa farei, se una volta davvero ci potesse succedere di vederci da soli e fare il punto di quel che è stato, prima e dopo. Penso che sarebbe strano ancora adesso parlare di questioni personali senza rannicchiarmi tra le sue braccia. Eppure il regalo migliore che mi ha fatto è stato andarsene mentre all'orizzonte appariva il mio vero futuro, il treno che non potevo perdere, l'inizio della mia vita. Io credo che le cose migliori di me che ha avuto siano state la dolcezza, l'affetto e il rispetto con cui gli ho parlato o scritto dopo, la gratitudine eterna che gli porto per quel che ha accettato di vivere al mio fianco, e questi ricordi luminosi, pieni di vita, che stanno qua e là in agguato negli angoli di Genova. Chissà in quale punto della città lui qualche volta rivede il mio fantasma all'improvviso, e se sorride.
giovedì 15 marzo 2012
Emanuela
Io avevo ventisette anni e non ho capito.
Io avevo ventisette anni e tanta buona volontà, ma lei ha provato a parlarmi, e io non ho raccolto.
Io avevo ventisette anni e oggi avrei tanti ma tanti strumenti di più per ascoltarla e starle accanto fin dove posso.
Io avevo ventisette anni, lei tredici, mi ha detto in modo praticamente chiaro che pensava di essere omosessuale, e aveva ragione.
Lo ha detto a me e io non ho fatto nè detto niente. Era una bambina pasticciona che si addormentava irrefrenabilmente nella prima mezz'ora di doposcuola, amava visceralmente Eminem e mi voleva un gran bene. Ma chissà che cazzo avevo quel giorno, che non ho decodificato, che non ho reagito, che ho detto "mm-m" e tirato dritto.
Lo splendore dei suoi enormi occhi castani da cerbiatto, gli occhi di Audrey Hepburn, così incongrui nel suo fisico palestrato, dai capelli rasati, con mille piercing e gli abiti maschili, quando l'ho rivista per strada anni dopo e mi ha fermato, si è aperta in un bel sorriso stupito da bambina, dicendo "Professoressa!", e aveva al suo fianco una ragazza. Ed è stato chiaro quel che io, anche se le sue parole erano facili da comprendere, non avevo voluto capire.
Altro tempo dopo l'ho rivista e stavolta con la ragazza di turno giravano abbracciate, era bellissima, ho pensato che ero felice di vederla muoversi serena in un mondo dove poteva mostrarsi per strada con la sua compagna, col gruppo di amici intorno.
Più avanti ancora, ho saputo che la sua vita è stata tanto travagliata, è rimasta indietro con la scuola, la famiglia non ha preso bene le sue scelte, eccetera. Una storia comune per chi prova attrazione e amore per persone del suo stesso sesso.
Ieri sera, uscendo dall'incontro su maltrattamenti e abusi, la storia di Emanuela pulsava dolorosamente nella mia memoria. Perchè a noi capitano, anche più spesso di quanto sembri possibile, le frasi buttate lì da un bambino, a volte frutto di angosciose ricerche di qualcuno che capisca, che non colpevolizzi, che aiuti, e non deve succedere che rispondiamo "mm-m" e tiriamo dritto.
Scusami, Em, per quei minuti del mio tempo che avevi deciso di chiedermi e io non ho saputo darti.
Io avevo ventisette anni e tanta buona volontà, ma lei ha provato a parlarmi, e io non ho raccolto.
Io avevo ventisette anni e oggi avrei tanti ma tanti strumenti di più per ascoltarla e starle accanto fin dove posso.
Io avevo ventisette anni, lei tredici, mi ha detto in modo praticamente chiaro che pensava di essere omosessuale, e aveva ragione.
Lo ha detto a me e io non ho fatto nè detto niente. Era una bambina pasticciona che si addormentava irrefrenabilmente nella prima mezz'ora di doposcuola, amava visceralmente Eminem e mi voleva un gran bene. Ma chissà che cazzo avevo quel giorno, che non ho decodificato, che non ho reagito, che ho detto "mm-m" e tirato dritto.
Lo splendore dei suoi enormi occhi castani da cerbiatto, gli occhi di Audrey Hepburn, così incongrui nel suo fisico palestrato, dai capelli rasati, con mille piercing e gli abiti maschili, quando l'ho rivista per strada anni dopo e mi ha fermato, si è aperta in un bel sorriso stupito da bambina, dicendo "Professoressa!", e aveva al suo fianco una ragazza. Ed è stato chiaro quel che io, anche se le sue parole erano facili da comprendere, non avevo voluto capire.
Altro tempo dopo l'ho rivista e stavolta con la ragazza di turno giravano abbracciate, era bellissima, ho pensato che ero felice di vederla muoversi serena in un mondo dove poteva mostrarsi per strada con la sua compagna, col gruppo di amici intorno.
Più avanti ancora, ho saputo che la sua vita è stata tanto travagliata, è rimasta indietro con la scuola, la famiglia non ha preso bene le sue scelte, eccetera. Una storia comune per chi prova attrazione e amore per persone del suo stesso sesso.
Ieri sera, uscendo dall'incontro su maltrattamenti e abusi, la storia di Emanuela pulsava dolorosamente nella mia memoria. Perchè a noi capitano, anche più spesso di quanto sembri possibile, le frasi buttate lì da un bambino, a volte frutto di angosciose ricerche di qualcuno che capisca, che non colpevolizzi, che aiuti, e non deve succedere che rispondiamo "mm-m" e tiriamo dritto.
Scusami, Em, per quei minuti del mio tempo che avevi deciso di chiedermi e io non ho saputo darti.
lunedì 5 marzo 2012
Le mie materie - Cronistoria
1984 e dintorni
Sono bravissima in storia, in scrittura, studio anche la geografia.
C'è scritto sul quaderno: bravissima. Benissimo.
Studio bene perchè voglio prendere solo dei bravissima e mi piace la storia perchè mio padre mi ha attaccato la fissa e perchè vedo Lady Oscar.
1988 e dintorni
Me ne frega solo dell'italiano, ho incontrato la professoressa che mi cambierà la vita ed è, ovviamente, quella di italiano.
1990 e dintorni
Biennio superiore. Detesto l'insegnante di Lettere ed è un bel problema, perchè mi fa tutto: italiano latino greco storia e geografia. Studio come un animale da soma, sono sfigata, prendo bei voti in una classe di mostri dove i due terzi prendono bei voti, non mi ricordo niente di quel che ho fatto in quei due anni, tranne essere stata innamorata di un paio di persone che vedevo in campagna, aver fatto amicizia con le mie amiche storiche e essermi presa la Cotta delle Cotte per il mio compagno coi ricci biondi.
1993 e dintorni
Triennio superiore. Scopro la filosofia. Studio la letteratura latina con passione. Storia e greco sono mali necessari. Decido che di tema voglio essere la migliore del ristretto gruppo dei migliori (e con questo intendo non poter scendere MAI sotto il 9. Il 10 non veniva assegnato. Forse una volta ho preso 9 e mezzo. Comunque il mio tema DOVEVA essere l'ultimo in fondo al pacco da consegnare, dato che la mia prof li metteva in ordine dal più basso al più alto). Le mie giornate di studio sono così organizzate: matematica e affini fino alle 4 e mezza, perchè nelle materie scientifiche sono lenta e sbaglio molto. Letteratura fino alle sette di sera e poi, di corsa, di notte, all'alba, gli altri compiti. Fanno eccezione solo le giornate in cui devo preparare un'interrogazione di filosofia o di biologia. Imparo a memoria molti più versi del necessario (Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo - il carme Dei sepolcri è di 295 versi, e mica facili come le terzine dantesche che hanno la rima incatenata) e con la docente di Lettere che mi ritrovo, che è di livello schiettamente universitario, studio come una pazza anche diverse letterature straniere (leggendo classici a destra e a manca: e Tolstoj e Zola e Sterne e Goethe... mi ricordo di essermi rovinata parte della vacanza in Scozia perchè in camera eravamo in tre: io, la Tipa e Anna Karenina, che due palle!!! tra l'altro la Tipa, che faceva lo scientifico con ottimi insegnanti di materie umanistiche, doveva leggere Il nome della rosa, che io sapevo a memoria, e non ne aveva voglia, per cui ogni sera la supplicavo di fare cambio, questo prima che ci mettessimo a parlare fitto fitto di ragazzi e finissimo per addormentarci nel suo letto, mescolando le due masse di capelli lunghissimi sullo stesso cuscino.)
16 ottobre 1994
Entro alla mia prima lezione da matricola, in cattedra c'è il professor Claudio Costantini, e dopo soli trentacinque minuti di lezione la storia diventa irreversibilmente la mia materia prediletta.
2000
Mi laureo in Letteratura Latina. Porca vacca, dieci giorni dopo che ho consegnato il titolo della tesi la docente di Storia Contemporanea mi offre di lavorare con lei sulla storia dei medici di bordo durante la grande emigrazione. Mi impiccherei, ma ormai sono fregata.
2002
Inizio a insegnare alle medie e, un bel mattino di settembre, prendo in mano il libro di geografia in seconda pensando che, di insegnare geografia, non me ne può fregar di meno. Un'ora dopo, sono convinta che insegnare geografia alle medie sia bellissimo, divertentissimo e stimolantissimo. Era una gran bella seconda, quella. Sostanzialmente non me ne vado dalle medie per non dover smettere di insegnare geografia.
2012
Lista delle materie da me insegnate che prediligo, in ordine dalla più amata alla più detestata.
Storia (tutta la vita!)
Letteratura (io mi rifiuto di chiamarla epica, il primo anno. Tuttora quelle di Letteratura sono le lezioni che mi riescono meglio, grazie alla prof del liceo e a svariati docenti in gamba incontrati a Lettere)
Geografia (spesso faccio geopolitica, ma mi piacciono anche le ricerche, i grafici, la lettura delle carte. Non mi annoia mai)
Educazione Civica (rendere critiche e consapevoli le piccole menti! un privilegio!)
Metodologia (anche detta corso avanzato di effetti speciali)
Scrittura (dipende dalla classe)
Latino (ma a volte con grosse soddisfazioni)
Grammatica (analisi logica e del periodo, vedi Latino)
Antologia (uff! E' troppa!)
Grammatica (analisi grammaticale... che trituramento di balle...)
Questa cronistoria è di preambolo ad un ripensamento generale sulle materie che insegno, doveroso, al terzo anno di crisi in cui non mi pare di fare bene il mio mestiere.
In loving memory of Claudio Costantini, e pensando con affetto e sempre accresciuta stima a Francesca Gioiella e Maristella Ciappina.
Sono bravissima in storia, in scrittura, studio anche la geografia.
C'è scritto sul quaderno: bravissima. Benissimo.
Studio bene perchè voglio prendere solo dei bravissima e mi piace la storia perchè mio padre mi ha attaccato la fissa e perchè vedo Lady Oscar.
1988 e dintorni
Me ne frega solo dell'italiano, ho incontrato la professoressa che mi cambierà la vita ed è, ovviamente, quella di italiano.
1990 e dintorni
Biennio superiore. Detesto l'insegnante di Lettere ed è un bel problema, perchè mi fa tutto: italiano latino greco storia e geografia. Studio come un animale da soma, sono sfigata, prendo bei voti in una classe di mostri dove i due terzi prendono bei voti, non mi ricordo niente di quel che ho fatto in quei due anni, tranne essere stata innamorata di un paio di persone che vedevo in campagna, aver fatto amicizia con le mie amiche storiche e essermi presa la Cotta delle Cotte per il mio compagno coi ricci biondi.
1993 e dintorni
Triennio superiore. Scopro la filosofia. Studio la letteratura latina con passione. Storia e greco sono mali necessari. Decido che di tema voglio essere la migliore del ristretto gruppo dei migliori (e con questo intendo non poter scendere MAI sotto il 9. Il 10 non veniva assegnato. Forse una volta ho preso 9 e mezzo. Comunque il mio tema DOVEVA essere l'ultimo in fondo al pacco da consegnare, dato che la mia prof li metteva in ordine dal più basso al più alto). Le mie giornate di studio sono così organizzate: matematica e affini fino alle 4 e mezza, perchè nelle materie scientifiche sono lenta e sbaglio molto. Letteratura fino alle sette di sera e poi, di corsa, di notte, all'alba, gli altri compiti. Fanno eccezione solo le giornate in cui devo preparare un'interrogazione di filosofia o di biologia. Imparo a memoria molti più versi del necessario (Dante, Petrarca, Leopardi, Foscolo - il carme Dei sepolcri è di 295 versi, e mica facili come le terzine dantesche che hanno la rima incatenata) e con la docente di Lettere che mi ritrovo, che è di livello schiettamente universitario, studio come una pazza anche diverse letterature straniere (leggendo classici a destra e a manca: e Tolstoj e Zola e Sterne e Goethe... mi ricordo di essermi rovinata parte della vacanza in Scozia perchè in camera eravamo in tre: io, la Tipa e Anna Karenina, che due palle!!! tra l'altro la Tipa, che faceva lo scientifico con ottimi insegnanti di materie umanistiche, doveva leggere Il nome della rosa, che io sapevo a memoria, e non ne aveva voglia, per cui ogni sera la supplicavo di fare cambio, questo prima che ci mettessimo a parlare fitto fitto di ragazzi e finissimo per addormentarci nel suo letto, mescolando le due masse di capelli lunghissimi sullo stesso cuscino.)
16 ottobre 1994
Entro alla mia prima lezione da matricola, in cattedra c'è il professor Claudio Costantini, e dopo soli trentacinque minuti di lezione la storia diventa irreversibilmente la mia materia prediletta.
2000
Mi laureo in Letteratura Latina. Porca vacca, dieci giorni dopo che ho consegnato il titolo della tesi la docente di Storia Contemporanea mi offre di lavorare con lei sulla storia dei medici di bordo durante la grande emigrazione. Mi impiccherei, ma ormai sono fregata.
2002
Inizio a insegnare alle medie e, un bel mattino di settembre, prendo in mano il libro di geografia in seconda pensando che, di insegnare geografia, non me ne può fregar di meno. Un'ora dopo, sono convinta che insegnare geografia alle medie sia bellissimo, divertentissimo e stimolantissimo. Era una gran bella seconda, quella. Sostanzialmente non me ne vado dalle medie per non dover smettere di insegnare geografia.
2012
Lista delle materie da me insegnate che prediligo, in ordine dalla più amata alla più detestata.
Storia (tutta la vita!)
Letteratura (io mi rifiuto di chiamarla epica, il primo anno. Tuttora quelle di Letteratura sono le lezioni che mi riescono meglio, grazie alla prof del liceo e a svariati docenti in gamba incontrati a Lettere)
Geografia (spesso faccio geopolitica, ma mi piacciono anche le ricerche, i grafici, la lettura delle carte. Non mi annoia mai)
Educazione Civica (rendere critiche e consapevoli le piccole menti! un privilegio!)
Metodologia (anche detta corso avanzato di effetti speciali)
Scrittura (dipende dalla classe)
Latino (ma a volte con grosse soddisfazioni)
Grammatica (analisi logica e del periodo, vedi Latino)
Antologia (uff! E' troppa!)
Grammatica (analisi grammaticale... che trituramento di balle...)
Questa cronistoria è di preambolo ad un ripensamento generale sulle materie che insegno, doveroso, al terzo anno di crisi in cui non mi pare di fare bene il mio mestiere.
In loving memory of Claudio Costantini, e pensando con affetto e sempre accresciuta stima a Francesca Gioiella e Maristella Ciappina.
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cerco l'antidoto,
come la vedo io,
pagine storiche
domenica 15 gennaio 2012
Quando non è solo una notizia di cronaca
Su questa nave ho dato il primo bacio.
Su questa ho attraversato tutto l'Atlantico fino al Sudamerica, quando ancora ero nella pancia di mia madre.
Su questa ho visitato il Mediterraneo quando ero alle elementari, e un giorno mi cercavano disperati perchè c'era un mare grosso così e anche mia madre era stesa a vomitare in cabina, e temevano fossi volata in acqua, invece io correvo sui ponti e su e giù per le scalette con altri tre o quattro bambini indistruttibili.
Su questa sono uscita in Atlantico fino al nord del Portogallo.
Su questa ho solcato il Bosforo a diciassette anni, guardando le luci di Istanbul di notte, mentre stavo abbracciata al diciottenne romano che normalmente definisco col soprannome di Jon Bonjovi.
Di tutte io conoscevo gli ingressi "crew only" e i corridoi interni, vietati ai passeggeri. Mio padre girava in uniforme bianca ed aveva uno sguardo di felicità assoluta, che gli ho visto poche volte nella vita. Tutti gli sorridevano, perchè è sempre bello avere a che fare con un medico capace, simpatico e gentile, quando hai la sfortuna di stare male o di avere un piccolo incidente durante una vacanza. E le signore andavano in visibilio per quest'uomo distinto, cui la divisa cadeva d'incanto sulle spalle forti.
Dai ponti della Linea C ho visto il tramonto sui faraglioni di Capri, l'alba sulle isole greche, le calette delle Baleari, le coste africane, Genova che si allontanava, la laguna di Venezia, le coste verdeggianti della Crimea. Ho respirato l'odore di sale, carburante e vernice di tutti i ponti, passeggiato lungo le fiancate di un ex incrociatore trasformate in verande con eleganti jardins d'hiver, e ballato sotto la cupola di vetro a poppa di due ex traghetti.
Se avessi uno scanner vi metterei la foto di mio padre appoggiato alla murata, con il Vesuvio alle spalle,che ho scattato a quindici anni. E quella di mia madre con il foulard sui capelli e il vestitino verde teso sul pancione.
Ma c'è una foto che non posso comunque mettere. Lo scorcio dei cantieri navali visto dalla finestra della casa di Sestri, con le luci accese a qualunque ora della notte, mentre dozzine di persone, proprio nel settore che vedevo io, lavoravano per costruire le navi Costa, tra cui anche quella che ora è ribaltata su un fianco al Giglio. Era l'ultima cosa che guardavo quando chiudevo fuori il gatto prima di andare a dormire, e la prima che vedevo al mattino, arrivando in cucina quando era ancora tutto buio. Facevo colazione guardando crescere i ponti, le murate e i fumaioli di navi sempre più grandi. Se il vento girava, in lontananza di notte si sentivano anche i rumori sordi del cantiere.
Mi spiace per le persone, ovviamente. Ma sono cresciuta distribuendo il mio amore tra cinque categorie: persone, animali, case, libri e quelle navi. Guardare la Costa Concordia arenata e mezza sprofondata è doloroso come veder sparare a un cavallo, non so se riesco a spiegarmi.
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martedì 20 dicembre 2011
Cerchi di corteccia
Oggi, come varie altre volte, guardavo dalla finestra della scuola gli alberelli del parcheggio. Uno è da anni la mia iconcina in questo blog: l'ho fotografato dalla III B una mattina di galaverna. Era il secondo anno che passavo a Paesino di Sogno, il 2008/2009.
L'arboscello candido della foto, così fragile nel suo abito di ghiaccio, ora fa ombra a tutta la mia auto, se ce la parcheggio sotto.
Così, guardando gli alberi attorno a me, ho passato finora la maggior parte dei miei incarichi nella scuola.
Ho ricordi affettuosi dei pini fuori da Scuolafica dei Quartieri Alti, così scuri, che ci proteggevano dal presente lasciandoci nel nostro mito di studi di eccellenza. E dei tigli grandi e profumati del cortile del liceo privato di Torino. Una cosa che mi affascina delle città piemontesi è questo: poter entrare in un cortile interno di un edificio e trovarci alberi vecchi cinquant'anni che dalla strada non si riescono a scorgere.
Poi avevo un bel rapporto col frutteto sulla collina di fronte all'aula di Scuolina Bianca, a Paesino Blu, e le sue oche, che, per inciso, se voi vivete in città non potete immaginarlo, non fanno "qua qua" ma fanno "AAAAAAKKK AAAAAAAAAKKKK", e lo fanno fortissimo. Tipo che la prima volta credevo fosse il Tremendo Paulista della III A, le cui urla selvagge solitamente passavano i muri.
Comunque la mia faticosa scalata alla graduatoria e il susseguirsi di tempeste addensatesi sulla mia cattedra traballante hanno, per il quinto anno ormai, come scenario la piccola scuola immersa nel ghiaccio e i suoi teneri alberelli che crescono di pari passo con le mie assegnazioni provvisorie. Parentesi, non so che alberi siano, ciò è vergognoso, domani chiedo.
Pensavo, stasera, complici una botta di nausea prima di cena risolta con una Cocacola e una botta di tosse dopo cena risolta con uno zuccherino al génépy (quindi con una strana sensazione allo stomaco), a quanto diverse sono state queste cinque annate.
Nel 2006/2007 arrivo, sono giovanissima, soprattutto di testa, e lavoro come una pazza fino a guadagnarmi i complimenti dei colleghi per lo sbattone. Mi hanno dato una terza di svogliati e alla fine sono il mio risultato più brillante. Poi ho i germoglietti di prima ed è amore eterno, con loro.
E' stato l'anno della morte di mia zia e di mia nonna, del lungo ricovero dell'altra zia, della crisi coniugale, dell'Amore Sbagliato, della prima tiroidite, eppure sul lavoro ero una star, facevo cose che oggi non saprei ripetere, forse proprio per tutto quel che andava storto a casa.
Quando finisce l'anno sento che qualcosa mi lega al posto, al paesaggio, alla strada che percorro ogni mattina. Vivo un po' come un esilio l'anno successivo, a sua volta molto pieno, con due terze, due scuole di cui una affidatami come "facente all'incirca funzione diciamo di vicepreside", incarico peraltro mai assegnato sulla carta ma, a fine anno, visto che l'avevo svolto, pagatomi a sorpresa con una specie di quattordicesima, come a una vera "funzione obiettivo".
E poi rieccomi a casa, in ruolo, e da allora non me ne sono più andata, sia pure con angosce estive e riassegnazioni autunnali. Da allora, duole dirlo ma sono molti mesi che ci penso, mi sono francamente seduta.
Prima perchè andava tutto bene: mi ero ripresa in terza i miei germoglietti amatissimi della prima e avevo i nuovi, la cucciolata, quelli che promettevano così bene e che ho licenziato con tanti rimpianti l'anno scorso.
Poi perchè andava malissimo, con il mio ingresso nella sezione C su un'orribile terza, di cui poi alla fine non serbo nemmeno un brutto ricordo, considerando quante me ne hanno combinate.
Infine perchè l'anno scorso avevo la testa dietro alle grane di salute di mio padre ed è andata com'è andata, con prove non consegnate e lavoro male organizzato, stanchezza cronica, sbadataggini varie.
Così, questo è l'anno della riscossa, o almeno vorrei che lo fosse.
Anche se nelle ultime tre settimane, devo dire, proprio non sembra.
L'arboscello candido della foto, così fragile nel suo abito di ghiaccio, ora fa ombra a tutta la mia auto, se ce la parcheggio sotto.
Così, guardando gli alberi attorno a me, ho passato finora la maggior parte dei miei incarichi nella scuola.
Ho ricordi affettuosi dei pini fuori da Scuolafica dei Quartieri Alti, così scuri, che ci proteggevano dal presente lasciandoci nel nostro mito di studi di eccellenza. E dei tigli grandi e profumati del cortile del liceo privato di Torino. Una cosa che mi affascina delle città piemontesi è questo: poter entrare in un cortile interno di un edificio e trovarci alberi vecchi cinquant'anni che dalla strada non si riescono a scorgere.
Poi avevo un bel rapporto col frutteto sulla collina di fronte all'aula di Scuolina Bianca, a Paesino Blu, e le sue oche, che, per inciso, se voi vivete in città non potete immaginarlo, non fanno "qua qua" ma fanno "AAAAAAKKK AAAAAAAAAKKKK", e lo fanno fortissimo. Tipo che la prima volta credevo fosse il Tremendo Paulista della III A, le cui urla selvagge solitamente passavano i muri.
Comunque la mia faticosa scalata alla graduatoria e il susseguirsi di tempeste addensatesi sulla mia cattedra traballante hanno, per il quinto anno ormai, come scenario la piccola scuola immersa nel ghiaccio e i suoi teneri alberelli che crescono di pari passo con le mie assegnazioni provvisorie. Parentesi, non so che alberi siano, ciò è vergognoso, domani chiedo.
Pensavo, stasera, complici una botta di nausea prima di cena risolta con una Cocacola e una botta di tosse dopo cena risolta con uno zuccherino al génépy (quindi con una strana sensazione allo stomaco), a quanto diverse sono state queste cinque annate.
Nel 2006/2007 arrivo, sono giovanissima, soprattutto di testa, e lavoro come una pazza fino a guadagnarmi i complimenti dei colleghi per lo sbattone. Mi hanno dato una terza di svogliati e alla fine sono il mio risultato più brillante. Poi ho i germoglietti di prima ed è amore eterno, con loro.
E' stato l'anno della morte di mia zia e di mia nonna, del lungo ricovero dell'altra zia, della crisi coniugale, dell'Amore Sbagliato, della prima tiroidite, eppure sul lavoro ero una star, facevo cose che oggi non saprei ripetere, forse proprio per tutto quel che andava storto a casa.
Quando finisce l'anno sento che qualcosa mi lega al posto, al paesaggio, alla strada che percorro ogni mattina. Vivo un po' come un esilio l'anno successivo, a sua volta molto pieno, con due terze, due scuole di cui una affidatami come "facente all'incirca funzione diciamo di vicepreside", incarico peraltro mai assegnato sulla carta ma, a fine anno, visto che l'avevo svolto, pagatomi a sorpresa con una specie di quattordicesima, come a una vera "funzione obiettivo".
E poi rieccomi a casa, in ruolo, e da allora non me ne sono più andata, sia pure con angosce estive e riassegnazioni autunnali. Da allora, duole dirlo ma sono molti mesi che ci penso, mi sono francamente seduta.
Prima perchè andava tutto bene: mi ero ripresa in terza i miei germoglietti amatissimi della prima e avevo i nuovi, la cucciolata, quelli che promettevano così bene e che ho licenziato con tanti rimpianti l'anno scorso.
Poi perchè andava malissimo, con il mio ingresso nella sezione C su un'orribile terza, di cui poi alla fine non serbo nemmeno un brutto ricordo, considerando quante me ne hanno combinate.
Infine perchè l'anno scorso avevo la testa dietro alle grane di salute di mio padre ed è andata com'è andata, con prove non consegnate e lavoro male organizzato, stanchezza cronica, sbadataggini varie.
Così, questo è l'anno della riscossa, o almeno vorrei che lo fosse.
Anche se nelle ultime tre settimane, devo dire, proprio non sembra.
domenica 11 dicembre 2011
Dopo il festival - 2
A una settimana dalla fine del festival, penso di poter tirare qualche somma, anche considerando che pian piano mi si sta ristabilendo l'umore che è stato pessimo per giorni.
Ho capito che l'unico modo per raccontare come realmente è andata e come l'ho vissuta è abbandonarsi al bipolarismo più spinto e dichiarare, senza filtri e senza pretendere di essere coerente, tutte le emozioni e i ragionamenti assolutamente contrastanti che mi hanno attraversato la mente in queste settimane.
Per semplicità, userò la dicotomia mi piace / non mi piace che la venerabile Angela, dolcissima monaca e ottima insegnante del mio amato istituto buddhista, ci ha sottoposto come il peggior difetto dell'atteggiamento umano nei confronti della vita.
Ma in certi casi, come questo, probabilmente è l'unico atteggiamento che si può tenere.
Allora.
Mi è piaciuto conoscere tanta gente interessante.
Non mi è piaciuto che mio marito da solo organizzasse questa cosa e da luglio a dicembre in casa mia non si parlasse d'altro.
Mi è piaciuto scoprire che registi e attori pluripremiati attraversano volentieri l'Italia o l'Europa per venire a partecipare con passione e impegno a un microfestival di sconosciuti, che può vantare solo una bella location, e dove non guadagnano una lira.
Non mi è piaciuto litigare a sangue con l'Uomo per settimane perchè era talmente preso da questa cosa che trascurava tutto il resto e non gli si poteva parlare.
Mi è piaciuto rendermi conto che sono stata infinitamente a mio agio con gente mai vista prima che lavora con l'anima e il corpo a un progetto culturale, anche se io di mestiere faccio tutt'altra cosa.
Non mi è piaciuto che il nome di mio marito non uscisse sul giornale neanche una volta fino alla conclusione del festival e che invece ci fosse quello di Movie Man, che è il presidente dell'associazione sì, ma non ha fatto quasi niente per questo evento.
Mi è piaciuto girare per ristoranti con personaggi famosi e coccolarli a botte di specialità locali, vedendoli rilassarsi ed aprirsi nel contesto di accoglienza caldo e semplice che abbiamo cercato, anche e soprattutto grazie all'attenzione femminile che ci ho messo, di curare nei dettagli.
Non mi è piaciuto che ci abbiano giustamente dato dei poveri ingenui struttati per aver tirato su un festival con registi italiani e non, e con personalità come Cosimo Cinieri, Filippo Mazzarella e Giuseppe Battiston, con quattro soldi e tanta buona volontà, e senza neanche pretendere che il Comune ci sovvenzionasse in anticipo.
Mi è piaciuto che la sera del gran finale con premiazione tutti abbiano collaborato con impegno ed entusiasmo, dai ragazzi che fanno le maschere in teatro agli stessi attori e registi coinvolti, per far filare dritto un meccanismo complicatissimo e mantenere un clima di allegria in un contesto di grande tensione.
Non mi è piaciuto avere delle botte di adrenalina ogni tre minuti scoprendo che n cose restavano da finire all'ultimo minuto per non fare delle figuracce.
Mi è piaciuto che Giacomo Rebuzzi e Cristian Benaglio, che ora sono giovani e ancora poco conosciuti ma sono sicura che sfonderanno visto cosa hanno saputo fare prima dei trent'anni, siano diventati amici di famiglia con cui ci sentiamo un giorno sì e l'altro no e che siamo invitati da loro a Brescia a mangiare la polenta con lo spiedo.
Non mi è piaciuto che abbiamo sforato dal budget e adesso abbiamo qualche problema con le bollette finchè il Comune non sgancia i suoi bravi eurini.
Mi è piaciuto che alla premiazione dietro di me ci fosse seduta Cinzia Mascoli che piangeva per aver appena finito di vedere l'ultimo splendido film con Battiston e che, a un certo punto, mi ha chiesto se aveva tutto il trucco sciolto, dopo di che è andata a prendere un premio meritatissimo per la sua interpretazione nel cortometraggio di Rebuzzi (sulla violenza familiare sulle donne), e quando è tornata piangeva ancora di più e abbracciava tutti con un sorriso bellissimo visto che non le venivano le parole.
Non mi è piaciuto fare una sera le due, una sera le tre, una sera le due meno un quarto, una sera l'una e una sera le cinque durante la stessa settimana lavorativa. E neanche tanto andare a lavorare la mattina sbandando come un'ubriaca.
Mi è piaciuto che Claudio Cipelletti, regista di un bellissimo documentario sui genitori di omosessuali, abbia vinto due premi, di cui uno tra l'altro è stato assegnato dai voti del pubblico, e abbia detto che non è la prima volta che vince con questo suo lavoro, ma è la prima volta che vince al di fuori di un festival del cinema gay. Lì mi sono messa a piangere io.
Non mi è piaciuto che mio marito si sia scordato di bere e mangiare per giorni e abbia smesso di dormire per la fatica una settimana prima della premiazione.
Mi è piaciuto che quando l'Uomo è salito sul palco a presentare i premiati, senza portarsi dietro neanche un foglietto con la scaletta, a me sia venuto un attacco di terrore al pensiero di tutto quello che poteva andare storto, e dalla fila dietro Eric Alexander mi abbia fatto i grattini su una spalla per tranquillizzarmi.
Non mi è piaciuto che ero così stanca e tesa che ho realizzato solo dopo ventiquattro ore suonate che mi erano stati fatti dei grattini da Eric Alexander.
Mi è piaciuto il fatto che in questo ambiente dello spettacolo evidentemente usa abbracciarsi e baciarsi per salutare: ho baciato più gente nelle ultime settantadue ore di festival che negli ultimi dodici anni della mia vita. Uno era Giuseppe Battiston, ve l'ho già detto.
Non mi è piaciuto che abbiamo perso il conto dei soldi che dobbiamo al tassista che ha portato tutti avanti e indietro dagli aeroporti e in giro per Asti, ma abbiamo capito che ci è costato complessivamente un paio di cornee.
Mi è piaciuto che alcuni degli attori come Andrea Bosca (che è di gran lunga più bravo e intelligente che bello... ed è un gran fico!) abbiano dormito in treno pur di presenziare alla masterclass organizzata per i ragazzi del liceo, aggratis e senza neanche il tempo di fermarsi a pranzo.
Non mi è piaciuto l'attorone, che per dispetto non nomino, che ha voluto essere andato a prendere in macchina fino a Bologna - 400 euro di autista solo per lui - e poi quand'è arrivato ha snobbato l'albergo e si è fatto portare nella migliore camera di quello più famoso.
Mi è piaciuto che tanta gente ci abbia lasciato numero di telefono privato e mail dicendo che dobbiamo risentirci presto e poi abbia richiamato per ringraziare e salutare nei giorni successivi.
Non mi è piaciuto che un ragazzo di ventinove anni che lavora per il teatro mi vedesse, nei giorni precedenti al festival, così trascurata dall'Uomo e così infelice e preoccupata (di come l'Uomo si stava gestendo questo impegno: come un giocatore d'azzardo compulsivo che continua a puntare finchè non si vende macchina, barca, casa e moglie), da decidere che se ci provava con me ci sarei sicuramente stata; e non mi è piaciuto essere presa in contropiede dalle mosse ad alto impatto ormonale di un ventinovenne e fare, per le prime ventiquattro ore, la figura della ragazzina scema.
Mi è piaciuto fare colazione al bar con Giorgio Faletti (che seguo dai tempi del suo primissimo personaggio al Drive In: "credete forse che io - e non vi veda???") e con sua moglie Roberta, che è una donna fine elegante gentile e simpatica come poche altre al mondo.
Non mi è piaciuto bere quattro caffè al giorno per mantenere la lucidità, più una dose massiccia di Pocket Coffee, e rendermi conto che non riesco più a smettere.
Mi è piaciuto che il regista gay mi abbia fatto i complimenti per come ero agghindata la sera della premiazione, e abbia detto che sta girando una cosa su Enrico VIII e io gli sembravo proprio uscita da uno scenario medievale, per via del vestito doppiato con corpetto in due toni di marrone e del pendente d'ambra incastonato in argento antico. Anche perchè, dopo il ventinovenne e le sue avances, la mia femminilità residua (poca) si stava nascondendo in un tombino per non essere vista, ma essendo il regista gay il complimento non poteva essere dovuto alla scollatura.
Non mi è piaciuto non avere più tempo per far conoscere persone piacevoli e interessanti a mia madre, che ha potuto fermarsi solo mezza giornata.
Potrei continuare a lungo.
Come ho detto, le ripercussioni economiche, fisiche e purtroppo anche coniugali di questo evento di per sè bellissimo sono pesanti.
Però certo, ieri sera ero a cena per la laurea di mia cognata e mi sono rilassata e divertita, con una bordata di quasi trentenni milanesi molti dei quali conoscevo già, ma andando via ho commentato con l'Uomo "sono stata molto meglio coi nostri amici della settimana scorsa" ed era vero.
Gli amici di mia cognata, ora che vanno verso i trenta e in parte lavorano, se la tirano moderatamente di meno di quando avevano vent'anni ed erano figlidipapà milanesi, pure di quelli parecchio spandimerda ("i miei amici broker navali" "sono stata da Prada e ho comprato un paio di sandalucci" "trovo che New York negli ultimi anni sia molto cambiata" "quella scema di una filippina mi ha rovinato il vestito di Fendi") e la serata è stata piacevole e allegra.
Ma la settimana prima ho conosciuto gente che ha preso premi dalle mani di Francis Ford Coppola, gente che ha fatto teatro con Carmelo Bene, gente che lavora con personalità che plasmano la cultura e in parte la società italiana con le loro opere, ed erano quasi tutti alla mano, beneducati, spiritosi, simpatici e carini: alla fine, giusto in tre, tra i più vecchi, si sono distinti per essere un po' più spocchiosi, ma, nell'ambiente che si era creato alla festa privata conclusiva, spiccavano come drag queen in seminario.
Ho capito che l'unico modo per raccontare come realmente è andata e come l'ho vissuta è abbandonarsi al bipolarismo più spinto e dichiarare, senza filtri e senza pretendere di essere coerente, tutte le emozioni e i ragionamenti assolutamente contrastanti che mi hanno attraversato la mente in queste settimane.
Per semplicità, userò la dicotomia mi piace / non mi piace che la venerabile Angela, dolcissima monaca e ottima insegnante del mio amato istituto buddhista, ci ha sottoposto come il peggior difetto dell'atteggiamento umano nei confronti della vita.
Ma in certi casi, come questo, probabilmente è l'unico atteggiamento che si può tenere.
Allora.
Mi è piaciuto conoscere tanta gente interessante.
Non mi è piaciuto che mio marito da solo organizzasse questa cosa e da luglio a dicembre in casa mia non si parlasse d'altro.
Mi è piaciuto scoprire che registi e attori pluripremiati attraversano volentieri l'Italia o l'Europa per venire a partecipare con passione e impegno a un microfestival di sconosciuti, che può vantare solo una bella location, e dove non guadagnano una lira.
Non mi è piaciuto litigare a sangue con l'Uomo per settimane perchè era talmente preso da questa cosa che trascurava tutto il resto e non gli si poteva parlare.
Mi è piaciuto rendermi conto che sono stata infinitamente a mio agio con gente mai vista prima che lavora con l'anima e il corpo a un progetto culturale, anche se io di mestiere faccio tutt'altra cosa.
Non mi è piaciuto che il nome di mio marito non uscisse sul giornale neanche una volta fino alla conclusione del festival e che invece ci fosse quello di Movie Man, che è il presidente dell'associazione sì, ma non ha fatto quasi niente per questo evento.
Mi è piaciuto girare per ristoranti con personaggi famosi e coccolarli a botte di specialità locali, vedendoli rilassarsi ed aprirsi nel contesto di accoglienza caldo e semplice che abbiamo cercato, anche e soprattutto grazie all'attenzione femminile che ci ho messo, di curare nei dettagli.
Non mi è piaciuto che ci abbiano giustamente dato dei poveri ingenui struttati per aver tirato su un festival con registi italiani e non, e con personalità come Cosimo Cinieri, Filippo Mazzarella e Giuseppe Battiston, con quattro soldi e tanta buona volontà, e senza neanche pretendere che il Comune ci sovvenzionasse in anticipo.
Mi è piaciuto che la sera del gran finale con premiazione tutti abbiano collaborato con impegno ed entusiasmo, dai ragazzi che fanno le maschere in teatro agli stessi attori e registi coinvolti, per far filare dritto un meccanismo complicatissimo e mantenere un clima di allegria in un contesto di grande tensione.
Non mi è piaciuto avere delle botte di adrenalina ogni tre minuti scoprendo che n cose restavano da finire all'ultimo minuto per non fare delle figuracce.
Mi è piaciuto che Giacomo Rebuzzi e Cristian Benaglio, che ora sono giovani e ancora poco conosciuti ma sono sicura che sfonderanno visto cosa hanno saputo fare prima dei trent'anni, siano diventati amici di famiglia con cui ci sentiamo un giorno sì e l'altro no e che siamo invitati da loro a Brescia a mangiare la polenta con lo spiedo.
Non mi è piaciuto che abbiamo sforato dal budget e adesso abbiamo qualche problema con le bollette finchè il Comune non sgancia i suoi bravi eurini.
Mi è piaciuto che alla premiazione dietro di me ci fosse seduta Cinzia Mascoli che piangeva per aver appena finito di vedere l'ultimo splendido film con Battiston e che, a un certo punto, mi ha chiesto se aveva tutto il trucco sciolto, dopo di che è andata a prendere un premio meritatissimo per la sua interpretazione nel cortometraggio di Rebuzzi (sulla violenza familiare sulle donne), e quando è tornata piangeva ancora di più e abbracciava tutti con un sorriso bellissimo visto che non le venivano le parole.
Non mi è piaciuto fare una sera le due, una sera le tre, una sera le due meno un quarto, una sera l'una e una sera le cinque durante la stessa settimana lavorativa. E neanche tanto andare a lavorare la mattina sbandando come un'ubriaca.
Mi è piaciuto che Claudio Cipelletti, regista di un bellissimo documentario sui genitori di omosessuali, abbia vinto due premi, di cui uno tra l'altro è stato assegnato dai voti del pubblico, e abbia detto che non è la prima volta che vince con questo suo lavoro, ma è la prima volta che vince al di fuori di un festival del cinema gay. Lì mi sono messa a piangere io.
Non mi è piaciuto che mio marito si sia scordato di bere e mangiare per giorni e abbia smesso di dormire per la fatica una settimana prima della premiazione.
Mi è piaciuto che quando l'Uomo è salito sul palco a presentare i premiati, senza portarsi dietro neanche un foglietto con la scaletta, a me sia venuto un attacco di terrore al pensiero di tutto quello che poteva andare storto, e dalla fila dietro Eric Alexander mi abbia fatto i grattini su una spalla per tranquillizzarmi.
Non mi è piaciuto che ero così stanca e tesa che ho realizzato solo dopo ventiquattro ore suonate che mi erano stati fatti dei grattini da Eric Alexander.
Mi è piaciuto il fatto che in questo ambiente dello spettacolo evidentemente usa abbracciarsi e baciarsi per salutare: ho baciato più gente nelle ultime settantadue ore di festival che negli ultimi dodici anni della mia vita. Uno era Giuseppe Battiston, ve l'ho già detto.
Non mi è piaciuto che abbiamo perso il conto dei soldi che dobbiamo al tassista che ha portato tutti avanti e indietro dagli aeroporti e in giro per Asti, ma abbiamo capito che ci è costato complessivamente un paio di cornee.
Mi è piaciuto che alcuni degli attori come Andrea Bosca (che è di gran lunga più bravo e intelligente che bello... ed è un gran fico!) abbiano dormito in treno pur di presenziare alla masterclass organizzata per i ragazzi del liceo, aggratis e senza neanche il tempo di fermarsi a pranzo.
Non mi è piaciuto l'attorone, che per dispetto non nomino, che ha voluto essere andato a prendere in macchina fino a Bologna - 400 euro di autista solo per lui - e poi quand'è arrivato ha snobbato l'albergo e si è fatto portare nella migliore camera di quello più famoso.
Mi è piaciuto che tanta gente ci abbia lasciato numero di telefono privato e mail dicendo che dobbiamo risentirci presto e poi abbia richiamato per ringraziare e salutare nei giorni successivi.
Non mi è piaciuto che un ragazzo di ventinove anni che lavora per il teatro mi vedesse, nei giorni precedenti al festival, così trascurata dall'Uomo e così infelice e preoccupata (di come l'Uomo si stava gestendo questo impegno: come un giocatore d'azzardo compulsivo che continua a puntare finchè non si vende macchina, barca, casa e moglie), da decidere che se ci provava con me ci sarei sicuramente stata; e non mi è piaciuto essere presa in contropiede dalle mosse ad alto impatto ormonale di un ventinovenne e fare, per le prime ventiquattro ore, la figura della ragazzina scema.
Mi è piaciuto fare colazione al bar con Giorgio Faletti (che seguo dai tempi del suo primissimo personaggio al Drive In: "credete forse che io - e non vi veda???") e con sua moglie Roberta, che è una donna fine elegante gentile e simpatica come poche altre al mondo.
Non mi è piaciuto bere quattro caffè al giorno per mantenere la lucidità, più una dose massiccia di Pocket Coffee, e rendermi conto che non riesco più a smettere.
Mi è piaciuto che il regista gay mi abbia fatto i complimenti per come ero agghindata la sera della premiazione, e abbia detto che sta girando una cosa su Enrico VIII e io gli sembravo proprio uscita da uno scenario medievale, per via del vestito doppiato con corpetto in due toni di marrone e del pendente d'ambra incastonato in argento antico. Anche perchè, dopo il ventinovenne e le sue avances, la mia femminilità residua (poca) si stava nascondendo in un tombino per non essere vista, ma essendo il regista gay il complimento non poteva essere dovuto alla scollatura.
Non mi è piaciuto non avere più tempo per far conoscere persone piacevoli e interessanti a mia madre, che ha potuto fermarsi solo mezza giornata.
Potrei continuare a lungo.
Come ho detto, le ripercussioni economiche, fisiche e purtroppo anche coniugali di questo evento di per sè bellissimo sono pesanti.
Però certo, ieri sera ero a cena per la laurea di mia cognata e mi sono rilassata e divertita, con una bordata di quasi trentenni milanesi molti dei quali conoscevo già, ma andando via ho commentato con l'Uomo "sono stata molto meglio coi nostri amici della settimana scorsa" ed era vero.
Gli amici di mia cognata, ora che vanno verso i trenta e in parte lavorano, se la tirano moderatamente di meno di quando avevano vent'anni ed erano figlidipapà milanesi, pure di quelli parecchio spandimerda ("i miei amici broker navali" "sono stata da Prada e ho comprato un paio di sandalucci" "trovo che New York negli ultimi anni sia molto cambiata" "quella scema di una filippina mi ha rovinato il vestito di Fendi") e la serata è stata piacevole e allegra.
Ma la settimana prima ho conosciuto gente che ha preso premi dalle mani di Francis Ford Coppola, gente che ha fatto teatro con Carmelo Bene, gente che lavora con personalità che plasmano la cultura e in parte la società italiana con le loro opere, ed erano quasi tutti alla mano, beneducati, spiritosi, simpatici e carini: alla fine, giusto in tre, tra i più vecchi, si sono distinti per essere un po' più spocchiosi, ma, nell'ambiente che si era creato alla festa privata conclusiva, spiccavano come drag queen in seminario.
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