Non torno mai volentieri nel quartiere dove vivevo coi miei genitori. Quel luogo ha smesso di appartenermi molto tempo prima che me ne andassi e mi è pesato gravemente addosso negli anni successivi. Prima di Natale sono capitata giù per un compromesso notarile, sto per vendere la casa dove sono andati a convivere i miei nel '74, quella dove sono nata. Poi sono andata alla ricerca di uno sportello bancomat della mia banca, e per non entrare in centro, nel traffico prenatalizio, sono tornata nella zona dove ho fatto base per vent'anni. La banca è proprio sulla curva che percorrevo a piedi per andare a prendere l'autobus e scendere al liceo, o all'università. Però ci sono arrivata dal lato opposto, dalla Val Bisagno. E, proprio prima dell'incrocio in cui mi dovevo fermare, c'è un posto che ogni volta che lo vedo mi fa sorridere. È su una brutta strada molto trafficata, sotto il megastradone rumoroso che porta all'ospedale. Attraversato quello, ci si addentra nella zona residenziale elegante dove abitavamo all'epoca. Ora nelle vetrine su strada ci sono la sede di un franchising immobiliare e un posto che credo venda pollo fritto. Nell'ultimo periodo in cui ho abitato in quella zona, coi miei e poi da sola, invece, lì c'era un piccolo ristorante pizzeria, che faceva una farinata sopportabile, anche se non buona come quella di altri posti a Genova. Aveva il vantaggio di essere vicinissimo a casa dei miei, ed era anche vicino a dove sono poi andata a stare, per qualche mese, per i fatti miei: altro cantuccio del quartiere in collina (il lato popolare della collina, non quello chic) che guardo con affetto. Di solito passo in auto, gettando uno sguardo alla scalinata che scendevo da casa mia per ricongiungermi con l'arteria di traffico che porta in centro. Ma lì spesso i pensieri sono misti, non sempre del tutto felici, a volte soprattutto malinconici pensieri di confronto tra la ragazza vivace in rosso e grigio, che scendeva le scale correndo per andare incontro al suo futuro luminoso, e la donna stanca e angosciata in rosso e nero che sono adesso, ora che quel futuro è il mio passato.
Invece, quando, ormai di rado, mi capita di passare davanti a quella pizzeria, mi illumino come una stella, ogni volta. Quella brutta strada grigia, quel ristorantino senza pretese, sono stati teatro di un grande cambiamento nella mia vita.
Un pomeriggio ero stata con mia madre a vedere "Billy Elliot", al cinemino d'essai del quartiere. Mia madre, vera interprete del messaggio alleniano de "La rosa purpurea del Cairo", sostiene da sempre che un buon film curi da tanti dispiaceri, e quel giorno mi aveva raccolto, con scopa e paletta, dal pavimento dove ero crollata dopo la rottura con l'Ingegnere, e cercava di sottrarmi agli orrori di un pomeriggio festivo, consapevole che, al termine delle lezioni a frequenza obbligatoria e dello studio frenetico per gli esami della specializzazione, ogni fine settimana poteva essere un buco profondissimo in cui perdermi in un fiume di lacrime. Ma non era l'unica ad essere consapevole che il mio weekend rischiava di essere nero. Lo sapevano i miei amici storici, quelli con cui avevo preparato la tesi che frequentavo ancora, e alcuni aspiranti successori al posto dell'Ingegnere, tra cui due o tre miei compagni di corso. In particolare uno, con gli occhi di due verdi diversi, che, da prima di Natale, era onnipresente nelle mie giornate. Dal fatidico 8 marzo in cui l'Ingegnere mi aveva scaricata, "il collega bello", come lo chiamavano le mie coinquiline, non aveva lasciato passare mezza giornata senza propormi qualcosa per tenermi occupata. Anche quel venerdì ero invitata da lui, per il rientro di Babyface, un altro compagno di corso che suonava in un complesso musicale ed era appena arrivato da una tournée all'estero. Babyface abitava vicino a me, sul lato plebeo della collina. Mi aveva proposto di accompagnarmi lui, mi pare, nel quartiere, lontanissimo dal nostro, in cui abitava da solo, anche lui da pochi mesi, "il collega bello". Avevo declinato. Troppo triste, stanca, e imbarazzata dalla continua insistenza di questo ragazzo bellissimo, che lasciava indietro di varie lunghezze altri pretendenti (a 24, 25 anni ho avuto, in effetti, una breve stagione di gloria in cui avrei potuto addirittura scegliere, tra il mio migliore amico, il mio partner di tirocinio, un trio di altri che studiavano con me, tra cui inizialmente figurava lo stesso Babyface, e questo qui, che mi annodava lo stomaco guardandomi fissa con quelle due iridi diverse, che camminava con me di notte nei vicoli, mi portava in libreria o a fare colazione, mi aspettava ore fuori dalle lezioni, insisteva per darmi passaggi in macchina e mi faceva ascoltare Michael Nyman sull'autoradio fino a ipnotizzarmi, e mi sorrideva sempre, sempre). Ero stata in giro con lui e col mio partner di tirocinio quasi tutta la settimana, e non me la sentivo di dire un altro sì. Avevo bisogno di elaborare la perdita, lo smarrimento, il vuoto, dopo sei anni di rapporto, e soprattutto l'incertezza sul futuro.
Così mi ero smarcata. Ma, al pomeriggio, ero al cinema con mia madre e, davanti a "Billy Elliot", precisamente alla scena in cui il padre e il fratello di Billy sono coinvolti negli scioperi e il padre decide di tornare al lavoro per garantire al figlio minore di poter studiare danza, mi si sono aperte le dighe. Sempre stata una che lacrimava molto, io, ma come quella volta ne annovero poche. Ricordo solo che mia madre continuava a passarmi fazzoletti uno via l'altro, mentre versavo fuori, a spruzzo, come se invece di dotti lacrimali avessi delle arterie maggiori, tutto quel che ancora mi restava da piangere per quel lungo fidanzamento conclusosi così male. All'uscita dalla sala avevo gli occhi gonfi come prugne, la gola che scottava e la testa leggera come un palloncino, barcollavo quasi. Mia madre e mio padre quella sera avevano intenzione di cenare in quel ristorantino sfigato che faceva la farinata decente, e mi ci avevano ovviamente invitata. So di aver iniziato la cena con la schiena curva e i postumi di quel pianto ancora visibili. Poi ad un certo punto mi sono sentita di colpo più leggera. Mi è venuto in mente l'invito del pomeriggio. Mi è venuto in mente che avevo voglia di andarci, forse era la prima volta da giorni che avevo in testa di fare qualcosa di mia iniziativa. Mi sono sentita dire, come se non fossi io che parlavo, a mia madre: "Mi puoi dare la macchina stasera? Quasi quasi ci vado, a casa di C., a salutare quel collega che è rientrato." Ora che ho una figlia quasi della stessa età, so cosa hanno provato i miei genitori in quel momento.
Di quella sera ricordo, più ancora del sorriso dell'Uomo, quello di Babyface. Un sorriso che diceva tante cose: che sapeva di aver involontariamente offerto all'Uomo l'ennesimo pretesto per passare una serata con me, che sapeva di non essere ancora di troppo tra noi due, ma al tempo stesso di reggerci la candela, però ci stava, perché era contento per il suo amico, e per me. Probabilmente avevo scritto in fronte che, dopo mesi di corteggiamento, quella sera era la prima vera possibilità che davo all'Uomo, anche se ero rinata da pochi minuti e non avevo fretta, mi muovevo come quando si impara a camminare, a andare in bici o a nuotare, ancora stupita di riuscirci, non del tutto padrona della tecnica, ma già contenta per quel mondo che intuivo mi si spalancasse davanti. Quando passo vicino al punto in cui allora c'era il ristorantino, sorrido ancora alla creatura nuova che si è alzata da dentro di me, lavata da tutte quelle lacrime, mentre cenavo coi miei, e ha chiesto le chiavi della macchina. Io sono ancora quella ragazza, non sono mai più tornata indietro.
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sabato 28 dicembre 2019
domenica 28 aprile 2019
Da sola, alla nota multinazionale svedese dell'arredamento
Ci andavamo insieme. Baciandoci spesso. Guardando le altre coppie come noi, il reparto culle fasciatoi lettini, e poi ci saltava all'occhio, a tutti e due contemporaneamente, il comodino giusto, l'armadio perfetto, la poltrona che avremmo amato entrambi. Non dovevamo quasi mai discutere. Eravamo quelli che non litigano, in mezzo a coppie scoglionate, e avevamo il radar per vedere quelli che come noi si tenevano per mano con lo sguardo pieno di luce, il passo lento ma rilassato, la voce serena.
Andarci da sola è stato atroce, a volte. Adesso capita che ci vada con te, ma anche senza di te, e non mi interessa più il reparto bimbi, lo attraverso senza soffrire, non mi riguarda più.
L'ultima volta ho fotografato le cassettiere che servono a te per la tua nuova stanza in ufficio, ho comprato i fermalibri e i raccoglitori, tre piccoli leggii per il cellulare, uno per ciascuno, e mi sono accorta che, per la legge dell'attenzione selettiva, ho individuato le coppie mature, quelle in cui lei dice a lui: "Questo potremmo prenderlo per Chiara/Francesca/Martina/Giulia/***" e lui risponde: "OK, ma giallo, a lei piace il giallo". Ho pensato a mio padre e mia madre che avevano lo stesso tipo di scambio quando io sono andata a vivere da sola, quando sono venuta a vivere con te. Che strano pensare che adesso siamo noi che scegliamo così oggetti e
mobili per la Princi, e la nota multinazionale svedese col suo odore di trucioli e colla è sempre lì, e anche noi. Che non litighiamo quando ci sono da scegliere gli arredi, perché ci piacciono le stesse cose.
Andarci da sola è stato atroce, a volte. Adesso capita che ci vada con te, ma anche senza di te, e non mi interessa più il reparto bimbi, lo attraverso senza soffrire, non mi riguarda più.
L'ultima volta ho fotografato le cassettiere che servono a te per la tua nuova stanza in ufficio, ho comprato i fermalibri e i raccoglitori, tre piccoli leggii per il cellulare, uno per ciascuno, e mi sono accorta che, per la legge dell'attenzione selettiva, ho individuato le coppie mature, quelle in cui lei dice a lui: "Questo potremmo prenderlo per Chiara/Francesca/Martina/Giulia/***" e lui risponde: "OK, ma giallo, a lei piace il giallo". Ho pensato a mio padre e mia madre che avevano lo stesso tipo di scambio quando io sono andata a vivere da sola, quando sono venuta a vivere con te. Che strano pensare che adesso siamo noi che scegliamo così oggetti e
mobili per la Princi, e la nota multinazionale svedese col suo odore di trucioli e colla è sempre lì, e anche noi. Che non litighiamo quando ci sono da scegliere gli arredi, perché ci piacciono le stesse cose.
sabato 28 luglio 2018
In principio era la confusione... perchè invece adesso no, eh.
Sono
tornata oggi da quella che per il momento mi piace considerare la mia
ultima vacanza da sola. Non credo ne farò altre. Il posto era bello,
per carità. E non è che sia stata via due mesi. Ma insomma, era
fuori tempo, fuori luogo. Non dico che non avrei dovuto partire, solo
che, probabilmente, non partirò più. Intendo per una vacanza che
avrei voluto fare con l'Uomo. Non per un weekend di yoga o un
convegno.
Poi
non mi azzardo a farne un proclama. In fondo, stanotte, che c'era
l'eclissi di luna, eravamo insieme su una strada buia, in mezzo alla
campagna (“C'è odore di piscio di vacca”, dice lui. “E'
l'odore del mais. È dolciastro”, dice lei, che lo associa a quella
tremenda estate di tre anni fa e alle camminate fatte piangendo), e abbiamo
visto una stella cadente. E se circa tre anni fa mi avessero detto:
“Tranquilla, che da qui a trentotto mesi sarete insieme a vedere
una stella cadente”, come cazzo avrei potuto crederci. Cioè, no,
ci credevo, io. Ma ero l'unica, quindi, se tutti ti vengono incontro
sull'autostrada, è ragionevole pensare che sia tu ad averla
imboccata contromano. L'imbarazzo dei miei amici che mi hanno presa,
e ancora mi prendono, per pazza, è quasi bello da vedere, ormai.
Comunque.
E' tempo di bilanci, mi sa. Leggevo stasera il libro della Andreozzi
sulle donne childfree. Non male, come riflessione, né come indagine
sociologica. Un po' contraddittorio qua e là. Pensavo, ma ci penso
da giorni, a tutto quanto, a come è iniziato.
Rivedo
una tizia castana che non sapeva cosa stava facendo, almeno otto
volte su dieci.
Un ragazzo coi ricci che improvvisava, ma
improvvisava da Dio. Ogni suo gesto e ogni sua parola erano quelli
del seduttore consumato, del bastardo per cui le donne si dannano
l'anima, senza che lui lo fosse mai stato. Dell'eterno fanciullo che
però adesso, con questa donna qui, fa sul serio, sul serissimo.
Impossibile, almeno per me, resistere a un tale mix di freschezza
autentica e contraddizioni.
Mio marito è tante cose, un uomo
intelligente, un leader, un cuore tenero, un tipo in gamba, e tante
altre cose, molto meno positive. Io li ho sposati
tutti e guai chi me li tocca, tutti questi Uomo. Diciotto anni che
pendo dalle sue labbra e mi do, e gli do, e do anche a nostra figlia,
il tormento, per conciliare il mio carattere, di merda ma piuttosto
compatto e univoco, con tutte le sue facce. Ma se chiudo gli occhi e
cerco il PERCHE', dell'inizio quantomeno, ma per essere onesti anche di alcune fasi
intermedie, mi ricordo solo che mi ha spianato
completamente con il suo fascino. Di fronte a quel sorriso non avevo
via di scampo. E non mi stupisce di non essere stata l'unica.
Quella
poveretta castana, così, poco dopo aver conosciuto lui, si imbarcava
di slancio, correndo su e giù per le scalinate di Genova e senza
sentire la fatica, in una storia che fin da subito era quella di una
donna molto più grande, molto meno viziata e molto più scafata.
Poverina, la portava avanti, lei, eh. Perdendo pezzi ovunque, ma senza
fermarsi mai. E non si parla solo di aver scelto l'Uomo, ma di tutto
il resto. Fare la pendolare, migliaia di colazioni, pranzi, cene,
notti, viaggi da sola. Non mollare un posto statale di merda.
Scrostarsi da una famiglia che non capiva. Il discorso figli, che qui
non si apre, come non si apre il discorso soldi. Un passaggio da una
chiesa a una filosofia di vita. Case, altre case, alberghi, affitti,
il mutuo. Pasticci sentimentali privi di senso, amicizie interrotte,
rotture gravi con parenti stretti. Tantissime ore di veglia, a crucciarsi mentre
tutti dormivano. Compresa stanotte.
C'è
un unico leitmotiv che si ritrova ovunque, se io guardo questa vita.
Di entrambi, ma per decenza parlerei solo della mia, che già
dell'Uomo mi rendo conto che non so come spiegare i molti mondi, i
molti pregi e gli altrettanti difetti, figuriamoci se dopo gli ultimi
quattro anni posso decifrare io un bilancio della sua vita. Basta
l'evidenza che lo stia facendo lui, che mai come ora sembra volere arrivare a un riassuntivo dei beni e dei mali, alla ricerca di senso.
Comunque
il leitmotiv della tizia castana è la confusione. Non il dubbio, no. La
confusione. Cioè, tuffarsi di testa e poi non capirci niente, perchè
la nuotata non è in piscina, col cloro, senza onde, con le corsie
delimitate dai galleggianti, ma in un mare agitato, che senza
preavviso è un gorgo, una pozza di petrolio, un uragano, una
bonaccia mortifera. E 'sta qui, che nuota, nuota, nuota, tra l'altro nessuno le
dice mai dove sarà poi una boa, dove issarsi su un molo a bere e
riposare, il salvagente spesso si buca, il sale brucia. Poi nuotando vede
anche albe, coralli, delfini, arcobaleni, lune scintillanti, isole
felici, creature oltremondane. Ma otto volte su dieci non ha idea di dove stia andando:
nuota per nuotare, perchè le piace, è il suo mare, se lo è scelto lei, si è tuffata lei, e soprattutto, se si ferma, annega.
Questo era vero anni fa ed è vero oggi.
E
c'è un altro leitmotiv, in effetti. Non sono mai annegata.
domenica 29 ottobre 2017
Posa la zavorra, capitolo terzo. Telemenù!
Mia
madre lavorava, statale, ma statale che la prendeva sul serio, con
l'incubo del cartellino. Al mattino molto presto, poi però finiva
nel pomeriggio in tempo per un sacco di altre cose, quindi correvamo
sempre.
Il
pranzo lo preparava la tata, ma la sera, appena rientrava, lei si
fiondava ai fornelli e, devo dire, soprattutto quando ero bambina, e
quindi la sua giornata, dopo il lavoro, era dedicata a stare con me,
si prodigava parecchio. Ma era stata una ragazza che studiava, poi
una donna che lavorava, e nessuno le aveva insegnato il ragù da
quattro ore, le lasagne tirate a mano, la torta della nonna e tutte
quelle cose lì. Quindi aveva due numi tutelari: Elena Spagnol,
autrice del best seller pluriristampato “Il Contaminuti”, che già
la dice lunga sul tipo di ricette che io stessa ho imparato (“se ci
vogliono più di venti minuti a prepararlo, non ci penso nemmeno” è
stato il mio motto per tanto tempo...) e poi lei: la Julia Child de
noantri.
Con
la sua messa in piega anni Cinquanta, rotondetta, calma e sorridente,
era tutto quello che mia madre non sarebbe mai stata, soprattutto in
cucina. Diciamo che mia madre era senz'altro meglio in fatto di messa
in piega e di girovita. Ma in fatto di calma e sorrisi... Però io ho
questo ricordo bellissimo delle sere invernali: fuori buio, compiti
finiti, papà che ancora doveva arrivare dal lavoro, lei
concentratissima che si scriveva sui foglietti le ricette in brutta,
poi le provava e dopo, se avevano dato buon esito, erano ammesse nel
quaderno storico, quello che per anni e anni ci ha tenuto compagnia
sulle mensole in cucina, e penso che ce l'abbia ancora. Era più
giovane della mia età di ora, si faceva un culo a capanna, non si godeva niente, e a riguardarla da qui mi fa così
tanta tenerezza.
Io
in seguito sono andata oltre, sono passata al timone della mia cucina
e da magra sono passata a grossa e grassa, senza la fase rotondetta,
anche perchè alla Wilma credo di darle venti centimetri di statura.
Messa in piega: nah, direi di nah. E quanto alla calma... Sorrisi,
sì. E baci, fino a un po' di tempo fa, tanti. Io e l'Uomo abbracciati con la schiena di uno dei due appoggiata al bancone di cucina ci stiamo ancora, a volte. Ma calma, all'ora di cucinare...
A
me piacerebbe davvero, davvero tanto, essere un garzone di cucina.
Uno che deve pelare patate e arricciare bucce di mela, creare
fiorellini di zucchero o farcire bignè. A nastro. Tipo compito zen. Obbedendo a indicazioni. Oppure essere il direttore
d'orchestra, come faccio a scuola con il laboratorio dei ragazzi:
pelate, sbucciate, datemi l'olio extravergine, passate una spolverata di
cannella qua, sbattete le uova. Ma NON essere CONTEMPORANEAMENTE colei che
pensa, decide, vede il quadro d'insieme, e anche quella che esegue.
Non sono mai stata brava. Perdo il filo, perdo tempo, sporco,
esagero, ci do giù di piatto, sbaglio le dosi, mi stanco e mi
affanno. Poi alle volte esce una cosa buona, eh. E in generale nel
piatto ce n'è, due volte al giorno, con ragionevole capacità di
variare, sebbene io abbia moltissimi limiti perchè non maneggio
pesce né carni troppo complesse. Datemi quintali di verdura da
pulire, del riso, un po' di uova e della farina, ma non fatemi mai
vedere un pezzo di coniglio che ancora somiglia a un coniglio vivo, o
togliere interiora a chicchessia, mi sono sempre sentita male. Poi,
diventata buddhista e mezza vegetariana, praticamente non posso più
neanche immaginare altri che lo fanno al posto mio.
Però.
C'è un però.
Ho
imparato, da nomade, zingara, disordinata cronica e pigra atavica che
ero, a tenere in ordine la casa (parzialmente e con aiuti), me stessa
(abbastanza bene), i miei abiti e accessori (decentemente), la mia
auto (ok, non sbrodoliamo: quella è una merda. Si ripulisce solo periodicamente, due settimane all'anno, diciamo) e più
in generale a fare un trilione e mezzo di cose con cui non osavo
cimentarmi, soprattutto negli ultimi quattro anni. Cosa può fare la
povera Penelope, nella speranza di sentire di nuovo il passo di
Ulisse sulla soglia. Ma anche cosa si fa per cercare, almeno
pateticamente, di dare un esempio coerente alla figlia. Che pigra è
pigra, ma è più ordinata di me e mi disprezza senza pudore.
Comunque, da quando c'è lei, stare a casa a riordinare, cucinare e
organizzare mi pesa infinitamente meno, è diventato una specie di
secondo lavoro. E poi forse non far più almeno seicento chilometri
la settimana aiuta, eh, a godersi casa propria, intendendo tutta la
casa e non solo il cuscino del divano in cui perdere conoscenza la
sera e la domenica. E poi, ancora: se sono riuscita a fare uscire dalla mia pancia flaccida degli addominali, a far finire le medie a Satana e a diventare maestra di yoga, posso anche volare, trasformare le pietre in oro e civilizzare il terzo figlio che la famiglia di Bambino di Formaggio mi manda (e ce n'è ancora uno... a riprova che lavarsi non è fondamentale per avere una vita sessuale). Dirò di più: posso portare fino in terza la Testata Nucleare, il mio amatodiato biondino pestifero della classe dei Gini. Senza spezzargli un braccino.
Comunque, il però era questo: non basta. Adesso voglio aggiungere alle competenze acquisite, male e
tardi sì, ma comunque abbastanza acquisite da farmi sentire
contenta, e da farmi desiderare di non tornare più indietro, anche
il superamento del senso di profonda impotenza che mi ha sempre dato
il fatto di mettermi ai fornelli. Sono anni che preparo questo
cambiamento, prima nella teoria come tutte le secchione che si
rispettano, e quindi con una capillare organizzazione delle ricette
in quadernoni divisi per settimane (cinque diverse di fila) e per
stagioni, in modo da non dover PENSARE al menu, ma solo procurarmi diligentemente gli ingredienti. Adesso sono pronta
all'azione. Avevo già iniziato, cazzo avevo PERSINO fatto i muffin, la quiche e
la pasta fresca tirata col mattarello: poi la Princi, porca vacca, si fa venire
l'appendicite, l'Uomo decide che è sovrappeso, fa caldo per sei mesi
di fila... e insomma un sabotaggio dietro l'altro arriviamo alla
torta ricotta, limoncello e gocce di cioccolata. Che ho provato
qualche settimana fa, e che l'Uomo ha festeggiato come un popolo
oppresso la liberazione dallo straniero. Allora ho raccolto le forze
e deciso che Wilma de Angelis, Elena Spagnol, lo strudel di mia
madre, il polpettone di patate e fagiolini di mia zia, i friscieu di
mia nonna dovevano incrociare i flussi e la Forza doveva essere con
me. Ma soprattutto, che posare la zavorra non è, ormai lo sappiamo
da anni, fare meno cose, è farne tante, tantissime di più, ma
meglio, e volentieri. Non secondario, il pensiero che l'Uomo mi
risposi. Altre sei o sette volte, diciamo: e magari mi porti in
braccio oltre una soglia nuova, di una casa con una cucina grande e
luminosa come quella di Sestri. Già che stiamo sognando, diciamo pure
quella di Sestri.
Per il momento, dalla cucina viene un delizioso profumo di soffritto, vino che svapora, chiodi di garofano: e infatti io, la neoWilma, sono dall'altra parte della casa ed è lui che stasera prepara il manzo in umido alla romana. Il che, a me, fa stare bene... come a una donna fa stare una vacanza di venti giorni su un'isola tropicale, senza nessun altro che Jake Gyllenhaal, a cui la compagnia di volo ha purtroppo smarrito le valigie, mentre una scimmia dispettosa gli ha rubato l'unica maglietta che aveva. Tanto per rendere la sensazione.
Posa la zavorra, capitolo secondo. Oppure tientela
Il
corso di meditazione l'ho finito, eh. Ha anche abbastanza funzionato.
Poi
ho cercato la leggerezza. Non sempre era possibile trovarla. Ma
alcune cose, sentire sotto i piedi nudi il tappeto nella stanza che
mia madre mi ha assegnato per le due notti a casa sua, un
lunghisssssssssimo bagno in vasca, mangiare fino a scoppiare cose
ipernutrienti con otto uova e etti di fontina e poi andare a smaltire
con una camminata da sola a duemila metri, fare lezione sull'Iliade
ai Gini, capirmi alla prima coi colleghi, fare lezione di yoga,
cucinare un'altra volta la torta ricotta e limoncello per la prima
colazione, la prima torta di zucca alla sestrese sbafata con
entusiasmo da tutti, l'Uomo che vuole fare l'arrosto, insomma,
nonostante una battuta d'arresto pesantissima, ieri, di cui ora conto
i segni (un altro pezzo di dente ricostruito saltato via....), non
potrei dire di non aver portato a casa risultati anche in questi
quindici giorni.
In
particolare si segnalano due cose.
Una
sta nel prossimo post.
L'altra
è di oggi. Avevo paura di veder arrivare l'ora solare mentre fuori
faceva ancora un caldo abnorme. Avevo paura di affrontare il buio
prima di essere pronta a reggere i pomeriggi infiniti dell'inverno.
Avevo uno strano senso di allarme di fronte al fatto che l'autunno,
che notoriamente io amo, non mi rendesse come al solito felice (e
come potrebbe...) ma, più che altro, ero dispiaciuta nel vedere che
non riuscivo ad avere la solita punta di energia positiva che
contraddistingue per me il rientro. Anzi, le batterie andavano a
terra ogni poche ore.
Poi
invece oggi lui ha chiesto di uscire a camminare presto, prima delle
partite, per sfruttare le ore di luce. Pronti via, io che stanotte,
come sempre se lui mi lascia sola, avevo dormito forse quattro ore, e
distribuite in modo folle: 23.30 – 01.30 e 05.00 – 07.00, mi sono
messa su la felpa rossa, che è l'unica cosa dell'Ingegnere che
ancora mi gira attorno, e mi sono fatta i miei bravi chilometri , con
un bel dolore addominale da ciclo, il mio dente rotto, e il respiro
trattenuto di quando ho paura che voglia parlarmi e mi distrugga la
vita con una frase.
Ed
eccolo, il miracolo. Le foglie gialle e rosse, il cielo uggiosetto,
il sole non tanto caldo, il silenzio della domenica. E l'autunno mi
ha reso felice. Eh sì, lo so, non era l'autunno. Era lui, ancora e
sempre e solo lui. Che guardava gli annunci “vendesi” sulle case
nel quartiere nord. E cianciava della qualunque.
Non
la poso, la zavorra, ma è la mia zavorra.
giovedì 3 agosto 2017
Transazione negata
Così
può capitare, un giorno d'estate, che dalla fessura del Bancomat non
escano più soldi e la carta, strisciata in un negozio di intimo, sia
rifiutata dal dispositivo. E guardi partire tua figlia per la sua
prima vera vacanza senza genitori, col Tipello, un'altra coppia
interetnica, interreligiosa e intercontinentale di amici, e i
biglietti del traghetto. Poi a piedi nell'afa di città te ne vai a
fare una mini spesa coi punti rimasti da scalare all'Esselunga, e ti
senti leggera come un palloncino sospeso a un filo. Il filo è
attaccato a una base di piombo che tira verso il centro della terra
con prepotenza. Non vai da nessuna parte. Ma sei vuota. E senza peso.
Torni
a casa con un pacchetto di caffè. Indossi di nuovo il pigiamino di
pochi centimetri quadrati grazie a cui speri di attrarre qualche
coccola. Fai yoga sul pavimento del salotto fino a farti dolere ogni
fibra. E ti imbarchi sulla nave-letto dove tu e l'Uomo passerete i
prossimi giorni, cercando di non sforare dai giga previsti dal piano
tariffario e di finire pazientemente le ultime puntate di due serie
che non vi sono piaciute molto.
Il
quartiere è popolato come al solito, ma passano meno macchine. Le
giornate pigramente si srotolano tra pisolini, scambi di messaggi,
vagabondaggi su Pinterest e Instagram, piccole medicazioni a piccoli
acciacchi, video di yoga, cottura a fuoco lento di verdure e scavo
sistematico di barattolini di gelato.
Stai
lì e lo ascolti. E ti accorgi di come è tutto diverso adesso. Ora
che pian piano vengono fuori le parole, le paure. Una crisi di
adolescenza che è durata trent'anni si sta risolvendo, ora che un
quarantaduenne si affaccia a prendersi le responsabilità: quali
responsabilità? Tutte quelle che toccano tra i trenta e i cinquanta:
essere contemporaneamente figli, genitori, lavoratori, coniugi,
amanti, fratelli, colleghi, cittadini... Lui ci si affaccia, sembra a
volte, con gli occhi di un ventenne stupito che tocchi finalmente a
lui. Altre volte sembra schiacciato come un vecchio pieno di magagne
dal peso di troppe incombenze che non vede l'ora di passare al
prossimo. In mezzo, tu lo sai, c'è l'Uomo generoso e intelligente
che hai amato per diciassette anni, quello che ti ha sostenuto e
protetto, che ha adottato con te la Princi, ma è confuso, agitato,
perso nella nebbia.
Tu
al contrario, perchè avevi una famiglia diversa dalla sua, perchè
avevi un altro carattere, perchè non sei mai stata piccola, forse,
questa fase l'hai già avuta e ti ha incanutito i capelli e distrutto
i denti e la tiroide, ma adesso, a quarantun anni, stai da non molto
tempo guardando la medaglia dall'altro lato: è inutile che tu ti
faccia salire il panico, perchè ormai tutte le grane vengono a te,
quindi o stai in panico sempre, o non ci stai mai. Opti da parecchi
mesi per la seconda, concedendoti solo alcuni strappi alla regola:
quando qualcosa va molto storto con la figlia, o quando capitano
tegole tra capo e collo, per esempio che rischia di saltarti la
cattedra per la terza volta, o che il cane seduto ai tuoi piedi si
ribalta improvvisamente su un lato e si fa venire una crisi
epilettica di quattro minuti.
Così
ascolti l'Uomo, che fa fatica persino a dire ad alta voce in quanti e
quali casini è invischiato al momento. E di alcuni casini non vuoi
proprio sapere, tu, con la tua brava sindrome da stress post
traumatico, tu che hai vissuto come sotto le bombe per troppi mesi,
non hai dormito una notte degna di questo nome per un anno e mezzo e
ancora adesso hai gli incubi tutte, tutte le volte. Gente che muore
incidenti tragedie violenza dolore. Tutte le sere? Tutte. A volte
anche durante il pisolino pomeridiano.
Tranne
in questi dieci giorni. Perchè in questi ultimi dieci giorni tra un
sogno angosciante e l'altro hai sognato, quattro volte, cose di una
bellezza talmente sbalorditiva da lasciarti dolorante tutto il giorno
dopo.
La
prima volta un paperotto ferito da curare. Di cui ti facevi carico
tu, tra altre persone.
Al
risveglio hai pensato: guarigione. Ti è già successo anni fa. Era
un neonato abbandonato, quella volta. E decidere di prenderlo su
significava: ce la faremo.
La
seconda volta che eri nuda davanti a lui e ti lasciavi esplorare
senza fretta e senza paura.
Al
risveglio hai pensato: non ho paura. Poi lui ti ha detto che per
parte della notte era stato sul divano, e hai pensato: ma ci sono
stata davvero sul divano nuda davanti a lui? E glielo hai chiesto. Ha
detto di no e sorrideva.
La
terza volta che tornavi, da sola, dopo dieci anni, alla casa dove
abitavate all'inizio, e c'erano tutti i tuoi libri che non ricordavi
più di avere, anche se la libreria era piena di insetti. C'era una
strana luce e andavi sul terrazzo, da cui non si vedeva più solo uno
spicchio di mare tra i palazzi, ma un'intera distesa di onde composte
e parallele dal colore grigioblu indefinibile, compatta sotto la luce
da fine o inizio di tempesta, niente macchine che passavano sulla
curva ma un silenzio totale increspato appena dal suono dello
sciabordio, e non esisteva più la ringhiera, il terrazzo al quinto
piano dava direttamente a strapiombo sull'acqua. Spettacolare.
Immenso.
Al
risveglio hai pensato: o mio Dio. Perchè quel mare era troppo da
reggere. Troppo grandioso. E gli hai raccontato il sogno nei
dettagli.
La
quarta volta, stanotte, che ritiravate insieme degli esami medici
dell'Uomo, e la dottoressa al bancone del ritiro analisi esordiva
girando verso di te una striscia bianca con un quadrato rosso
luminoso, e dicendo: intanto abbiamo una buona notizia per lei, ed
ecco lì, il quadrato rosso voleva dire incinta. Incinta. Incinta.
Batticuore. Sorriso sconcertato dell'Uomo. Incinta. Incinta adesso?
Mentre va... così? E capivi che però dentro ti stava iniziando a
sgorgare la felicità. E andavate via, scossi, ma tu stavi pensando
che in qualche modo ce l'avreste fatta.
Al
risveglio hai pensato: non posso dirglielo. Invece glielo hai
raccontato. Che avevano fatto degli esami a lui, e avevano trovato
che eri incinta tu. Ha sorriso con un sopracciglio inarcato. Non gli
hai detto cosa avevi pensato nel sogno.
E
ora li metti in fila, questi sogni. E pensi che questo bozzolo di
lenzuola su cui e sotto cui stai trascorrendo l'intero mese di luglio
stia per rompersi e far uscire finalmente una farfalla. E immagini un
enorme orologio a pendolo e te che fermi il moto dell'asticella con
una mano, supplicando gli dei di negarti la transazione ancora per
qualche giorno, per restare qui in questo mondo sospeso, come quel
terrazzo senza ringhiera che dava dritto sull'acqua, in questo
piccolo spazio dove si parla a bassa voce e si respira lentamente,
per non turbare il mistero della trasformazione.
lunedì 24 luglio 2017
Togliti le scarpe e andiamocene via insieme a piedi nudi
Per un breve periodo questa è stata la frase sul mio profilo Whatsapp.
Mentre la scrivevo, e quando la rileggevo, non sapevo a chi la stessi rivolgendo. Perchè andava bene per molte persone con cui avevo a che fare in quel momento.
Mia figlia così tesa e rabbiosa. Mio marito così complicato e distante. Uno o due uomini e una o due donne con cui interagivo o avrei voluto interagire spesso e con cui, se mi avessero detto “metti due cose in uno zaino, andiamo a fare un viaggio io e te”, sarei partita, perchè avremmo avuto di che parlare per giorni e giorni, in treno, in tenda, in macchina, a cena, per strada e anche a letto, vestiti o meno non era importante, era più importante spogliarsi a livello emotivo. La Tipa, con cui questa primavera andavo a yoga, se gliel'avessero mai detto, allora, a lei super ingegnera che sarebbe finita su un tappetino a visualizzarsi i chakra, mai e poi mai ci avrebbe creduto. Forse mia madre. Una o due delle mie colleghe e compagne dei corsi yoga, particolarmente messe alla prova dalla vita.
Mentre la scrivevo, e quando la rileggevo, non sapevo a chi la stessi rivolgendo. Perchè andava bene per molte persone con cui avevo a che fare in quel momento.
Mia figlia così tesa e rabbiosa. Mio marito così complicato e distante. Uno o due uomini e una o due donne con cui interagivo o avrei voluto interagire spesso e con cui, se mi avessero detto “metti due cose in uno zaino, andiamo a fare un viaggio io e te”, sarei partita, perchè avremmo avuto di che parlare per giorni e giorni, in treno, in tenda, in macchina, a cena, per strada e anche a letto, vestiti o meno non era importante, era più importante spogliarsi a livello emotivo. La Tipa, con cui questa primavera andavo a yoga, se gliel'avessero mai detto, allora, a lei super ingegnera che sarebbe finita su un tappetino a visualizzarsi i chakra, mai e poi mai ci avrebbe creduto. Forse mia madre. Una o due delle mie colleghe e compagne dei corsi yoga, particolarmente messe alla prova dalla vita.
Stanotte sono rientrata alle due,
a piedi nudi, con i sandali in mano. Me li sono sfilati a pianterreno
e li ho tenuti in mano in ascensore. Di ritorno da uno dei molti
paesini dove tutti i ragazzi, ma proprio tutti, sono stati miei
alunni o tra poco lo saranno.
C'era la festa di paese animata da uno
di loro, Mani da Pianista, che adesso collabora con l'Uomo per il
festival e lo aveva invitato. E io ero invitata dai Puccettosi, della
terza C di due anni fa. Poi c'era la Caramella, che a sua volta
incoraggiava la mia partecipazione e doveva narrarmi del suo nuovo uomo.
Mi sono sentita come se fossi
tornata all'età che ha la Princi ora, quando ho iniziato a sforare
dall'orario di rientro stabilito da mio padre, e a rincasare scarpe
in mano, ogni sera dieci minuti dopo. Mi lasciava la luce accesa in
salotto o in ingresso, papà, quando andava a dormire. Io spegnevo
tutto e attraversavo in punta di piedi il grande appartamento, al
buio, con la luce della Lanterna che si proiettava sul muro del
salotto a intervalli fissi. Mi tagliava la strada la gatta, a volte.
C'era un silenzio.
L'Uomo mi aspettava sveglio, stanotte. Non
so dire se nervoso per il mio rientrare tardissimo. So che ieri sera,
invece di uscire, abbiamo fatto aperitivo sul divano davanti a "The
Following", cenetta sul tardi io e lui, e all'ora in cui la Princi
doveva rientrare eravamo sdraiati a letto a sentire musica sul suo
telefono. Solo musica lenta e dolce, dove si scopre che questa ci ha
stregati entrambi.
Io, dopo averla colta come sottofondo in una
puntata di "Justified", l'ho sentita nella testa per giorni.
E ieri
notte l'Uomo mi ha fatto ascoltare questa, che, per carità, è una roba che forse avrei trovato melensa anche a quindici anni (no: ascoltavo Phil Collins e Marco Masini, diciamo le cose come stanno) e lui è insopportabile quanto spesseggia, ma, visto il testo,
magari l'hanno scritta dopo aver letto i mei diari segreti o le mie
conversazioni Whatsapp per gli ultimi due anni.
Ieri, rientrando dai vari giri
per il Nord Italia che avevamo fatto separatamente, non ci siamo più
mollati, nemmeno se c'era da vedere la partitella del Genoa su Sky,
nemmeno se c'erano da fare due commissioni veloci in giro. E non era
quello stare vicini ansioso da “sto perdendoti, ti ho perso e posso
solo succhiare la tua presenza quando passi, ti perderò di nuovo
domani” che spesso ha caratterizzato il nostro tremendo amore
malato. Era più come i primi tempi, quando non sei mai stanco di
allungare il giro di cose da fare per passare più tempo insieme.
Quando nella mia valigetta, oltre agli appunti della
specializzazione, hanno cominciato a esserci spazzolino e biancheria,
perchè ogni sera improvvisavamo, e stava diventando evidente a
chiunque che andavo a lezione coi vestiti del giorno prima. Ma non mi
portavo quasi mai il cambio completo: dormire con la sua tuta o una
sua maglietta, andare in cucina al mattino a piedi nudi, e avere come
unica sicurezza un paio di mutandine pulite nascoste in fondo alla
borsa, era bellissimo. Era appunto essere nudi. Senza altro bisogno
che stare insieme. Di lì a poco ho trasferito direttamente tutto da
lui. Mai passo avventato fu più goduto, e meno rimpianto. No, non è
vero. Goduto ancora di più, e rimpianto ancora di meno,
l'avergli detto, la prima sera, mentre arrivavamo nel cuore della notte
alla sua auto in piazza Colombo, che volevo dormire da lui. Lui che mi
aveva baciato la prima volta mezz'ora prima, dopo un corteggiamento
lungo mesi. Non lo sapevo ancora, ma non separarsi mai più era diventato, da mezz'ora,
l'obiettivo di tutta una vita.
Madonna quanto eravamo belli. La gente
faceva rispettosamente ala, costretta a mettersi gli occhiali da sole per
riuscire a guardarci, facevamo splendere le strade e le stanze in cui
passavamo. Ecco, ieri mentre lui metteva le canzoni sul telefono mi
sentivo di nuovo così. Bella, fresca, a piedi nudi, felice anche di
portare giù la spazzatura insieme, felice di un grissino con la
bresaola mangiato sul divano, felice di sentirlo canticchiare o
parlare con la gatta. Lui e il suo umore impossibile da definire, lui
e i suoi sguardi bicolori, lui e il suo peso sul materasso al mio
fianco.
Lui. Noi. Devo chiudere gli occhi e tenere questo nel cuore,
per tutti i giorni in cui è troppo doloroso, in cui è ingiusto e
malsano, in cui voglio il miracolo e non arriva ancora. Intanto, le ferie vere si avvicinano. Le prime ferie vere di nuovo noi due, da quando c'è anche la Princi. Conto alla rovescia iniziato. Non impazzire nell'attesa. Non sclerare nell'attesa. Se hai aspettato finora... E non piangere. Non piangere più.
martedì 27 giugno 2017
Mornie utulie
"A volte mi sembra di vivere una vita intera in un giorno" ha detto l'Uomo qualche tempo fa.
Ma beato lui. Io vivo una vita intera in un'ora, a volte. E il bello è che ognuna di queste vite è fortemente mia, mi interessa, mi affascina, mi delude o mi ferisce, mi fa sentire forte o speciale o sola o strana.
Come quando si scelgono le stanze in cui lavorare o i posti a sedere, e io leggo negli occhi di qualcuno "ci mettiamo vicini?" oppure "peccato, siamo lontani". Sono tornata a venticinque anni, con i colleghi della specializzazione che mi facevano il filo?
Come quando sull'altro lato della piazza si staglia la figura familiare del mio peggior disastro. E io sento il terreno che si squaglia sotto i miei piedi e cerco la più vicina via di fuga. Sono un'adultera con la coscienza sporca?
Come quando mi ustiono versandomi addosso il caffè direttamente dalla moka e mia figlia, seduta lì a un metro, non fa neanche lo sforzo di chiedermi "ti sei fatta male?". Sono meno di una sguattera?
Come quando mi accorgo del buco enorme che può lasciare una vecchina di 94 anni che non poteva nemmeno più parlare. Sono sola al mondo, non c'è più nessuno che mi ami per come sono, indipendentemente dagli errori?
Come quando accetto di tenere lezione di yoga a persone malate o in crisi e mi tocca chiedermi se è davvero questo che voglio e posso fare, e se una con la mia storia alle spalle può davvero essere d'aiuto a qualcuno. Sono una pazza presuntuosa?
Come quando il più timido dei miei tre alunni della comunità mi abbraccia stringendo forte forte, perché sono andata fino alla cascina persa nel bosco a trovarlo, e gli altri due mi fanno sedere a tavola in mezzo a loro tutti felici. Sono una bella persona?
Ma poi sto un attimo con gli occhi chiusi. Sento la musica.
May it be an evening star
Shines down upon you
May it be when darkness falls
Your heart will be true
You walk a lonely road
Oh! How far you are from home
Mornie utulie
Believe and you will find your way
Mornie alantie
A promise lives within you now
Believe and you will find your way
Mornie alantie
A promise lives within you now
May it be the shadow's call
Will fly away
May it be your journey on
To light the day
When the night is overcome
You may rise to find the sun
Will fly away
May it be your journey on
To light the day
When the night is overcome
You may rise to find the sun
Mornie utulie
Believe and you will find your way
Mornie alantie
A promise lives within you now
Believe and you will find your way
Mornie alantie
A promise lives within you now
A promise lives within you now
E vedo, dietro le palpebre chiuse, il riverbero del sole incandescente che batte sulle piastrelle del terrazzo, il chiarore delle lenzuola nuove, i due verdi diversi dei suoi occhi, il suo sorriso. Sono iniziate le vacanze in un caldo torrido e siamo rimasti due giorni soli, senza quasi mettere il naso fuori, in mutande e poco altro, noi due.
Ecco chi sono. Ecco qual è la mia vita. Qui ho diciassette anni e sono invincibile, ne ho venticinque e ho successo, ne ho trentasette e ho in mano la mia vita, ne ho quaranta e sono una madre, una moglie, una donna piena di medaglie, cicatrici e ricordi. E non invecchieremo mai finché staremo vicini, mezzi spogliati, a parlare, sulla nostra isola di cotone, intorno può crollare il mondo, ma l'odore della tua maglietta e della tua pelle sanerà ogni ferita, il tuo abbraccio fermerà la mutazione delle cellule, sentirti ridere mi darà tutto l'ossigeno, l'acqua e la luce di cui necessito, non mi serve altro, mi importa tanto di molte persone e molte cose, ma in fondo...
Castagna: Già detto credo che è una cazzata perdersi la donna della propria vita
Grande Pagliaccio: Più o meno quante volte ti ho detto che è una cazzata perderti la tua vita per un uomo
Castagna: Quante volte ti ho risposto che la mia vita è con quest'uomo?
martedì 30 maggio 2017
Del salutare una zia. E che zia. E di loti, caffè, e ippopotami
Non
mi sono dimenticata che dovevo parlare di grammatica, antologia
(oh!!! antologia!!! ho UN SACCO di cose da dire sull'uso
dell'antologia!!!) e letteratura, e scrittura, e storia...
E'
che ho fatto due cose o tre più urgenti, in questo periodo. Tipo
accudire la Zia Buona. Che è stata davvero Buona con la B maiuscola,
povera donna, fino alla fine. Immaginate una risonanza che mostra un
cervello completamente fuso da molte piccole ischemie. Ce ne resta
forse un trentacinque per cento che non è danneggiato. E quel
trentacinque per cento cosa fa? Riconosce me. Carezza il viso a chi
si avvicina. Stringe la mia mano. Getta baci. E alla fine, dopo aver
perso anche la possibilità di muoversi, riesce a formulare un'unica
parola, con giorni e giorni di esercizio: papà. Intendendo mio
padre, suo fratello. La sola persona che ha invocato sempre, oltre a
me.
Adesso
non è più con me, ma è con lui. Insieme alla Zia Bella e ai loro
genitori, amici, cugini. Tutti vestiti di lino chiaro, al sole, nel
giardino in riviera. Eternamente giovani, elegantissimi,
intelligenti, forti e atletici. Nessun cancro, nessuna ischemia,
nessuna cardiopatia. Un bicchiere in mano, l'ombra degli alberi, il
sorriso degli dèi sul viso abbronzato, come nelle foto della loro
famosa festa in maschera. Sono contenta di averti finalmente
traghettata là, zia, era tempo che andassi a raggiungerli, c'è un
senso di grande pace nell'aver ricomposto la Trimurti, il maschio
creatore e padrone, il fascino distruttivo della sorella più
inquieta e la tua capacità di armonizzare. Spero che ci siano tutti
i più bei gialli in inglese da leggere, là, e i marrons glacès.
Tra
le altre cose urgenti che ho fatto si conta imparare a mettermi nella
posizione del loto, che urgente non era forse, se sono diciannove
anni che frequento i tappetini, però fa brutto un'insegnante di yoga
che non la sa fare, e fa brutto anche che in posizione capovolta si
veda che ho la panza, ma ce la giochiamo: sono aperte le scommesse,
otterremo prima che si sciolga la pasta da pane che mi sta appoggiata
sopra gli addominali o che si allunghino i tendini delle ginocchia?
Non importa. Ci arriveremo. Un anno fa, altro che capovolgersi e
annodarsi.
Altra
cosa urgente fatta, o meglio, impostata, è un po' d'ordine nella mia
vita privata. Dove non succede mai niente, ma c'è spesso motivo di
preoccuparsi, fantasticare, spaventarsi e rimanere comunque confusi e
nervosi. Poi di colpo si parla di bere un caffè; no, due!!! Due
diversi caffè? E con chi!!!
Ed
è allora che scopro che, dopo aver immaginato, per mesi e mesi, come
cosa dove e quando, la sola domanda che conta è perchè. E, a conti
fatti, la risposta non è soddisfacente. La cosa soddisfacente è
farlo, il caffè, con la solita moka, nella solita cucina, e guardare
la bellissima bocca dell'Uomo mentre lo beve. Negli ultimi due anni
ho introdotto litri e litri del terribile veleno dal quale, con una
predisposizione alla pressione intraoculare alta e una storia di
infarti e ictus in famiglia, dovrei stare lontana come dal cianuro.
Ma a parte il fatto che, per starne lontana del tutto, mi
servirebbero i dodici passi e una stanza imbottita per le crisi di
astinenza, c'è questo fatto che la frase “io faccio un caffè”
(mia) e la domanda “vuoi/metti su/metto su un caffè?” (sua) ci
hanno salvato da innumerevoli brutti momenti. E poi ci sono le sue
mani mentre gira il cucchiaino, le sue cosce nel pigiama. I suoi
occhi di due verdi diversi. Le sue ciglia che si muovono lentamente
mentre lo assapora. Nella mia vita di coppia tutta piena di graffi,
tagli mal rimarginati, scottature e cerotti, guardarlo bere il caffè
è arrapante come la prima volta che l'ho visto nudo, che tra
parentesi non mi ricordo, devo aver perso i sensi. Mi ricordo
parecchie di quelle dopo, però. Infatti, se un giorno vorrà
uccidermi, basta che metta dell'arsenico nella mia tazzina, io mica
so cosa bevo quando mi siedo lì di fianco, è il mio momento di
contemplazione, è una roba mistica. Gli altri due caffè che si
potevano bere in queste settimane avrebbero avuto altrettanto da
offrire a livello estetico, forse, ma, come disse Robert Redford in
quella Bibbia della mia generazione che è “Proposta indecente”,
non avrei mai guardato uno degli altri due come guardo lui. E poiché
io, anche se mettendo in fila le foto non si direbbe, non scelgo mai
solo in base alla fisicata, al sorriso fotonico, alle mani eleganti e
agli occhi spettacolari, tutti e due gli altri caffè sarebbero
benissimo in grado di capire che io voglia svegliarmi, ogni mattina
della mia vita, con l'Uomo. Perchè lui, anche se a volte se ne
scorda, è il solo che sarebbe disposto a spendere un milione di
dollari, perchè vuole che io abbia l'ippopotamo.
sabato 4 giugno 2016
Camminare sul fondo in attesa del sole
Succede che prometto a mia madre di tenerle la gatta se va via per una gozzoviglia di crittografie, rebus e sciarade. Tanto mia madre all'ultimo annulla sempre.
E invece parte.
Così io mi ritrovo a dormire nel letto che fu di mio padre, nella stanza che fu di mia nonna, col computer che fu del mio ragazzo, sotto i quadri che furono in casa delle mie zie. Straniamento. Senso di precarietà fra diversi mondi, dei quali molti sono stati casa mia.
Idee confuse.
Beh. Un anno fa a quest'ora ero sicuramente messa peggio, dai.
O no? Beh, sì. Dipende un po' tutto da domani, diciamo. E da dopodomani. E dal resto della mia vita, niente di cui agitarsi, tutto molto lineare, ma scherzi.
Dicevo, le idee sono molto, molto mischiate. Le sensazioni no, sono chiarissime. Anzi, a forza di sfrondare, amputare, rimpicciolire tutto quello che era quell'altra, quella che è morta a 39 anni, le sensazioni sono rimaste poche, ma fortissime ed evidenti.
Io so chi sono. Solo che non mi posso ancora permettere di esserlo.
Va pur detto che un pezzetto di me è rinato a Valloncello Silente, al buio sotto chilometri quadrati di cielo stellato, un pezzo di me è sopravvissuto grazie ai vari trilli dei messaggi di whatsapp delle mie persone, un pezzo di me è sepolto alla Madonna della Neve, un altro è rimasto schiacciato sulla statale, qualcosa di me sta su solo di facciata, per carità sembro la Creatura di Frankenstein, sono tutta cucita.
Sono talmente assuefatta al silenzio, alla solitudine e al dolore che, in questi giorni così simili alla normalità, ho le vertigini. Come uno che non ha più un organo malato e si sveglia la mattina pensando: eccomi, ora mi occupo di te, e poi si ricorda che quel pezzo non ce lo ha più. Come quando è morto mio padre e non c'è più stato da preoccuparsi di lui che era malato. Un vuoto così strano.
Oggi, in una specie di ritiro, con dozzine di fogli da smistare, in questa casa non mia di cui osservo i dettagli noti come fossero flashback di vite precedenti, ho perso diverse volte il senso del luogo e del tempo. Per essere in centro Genova è silenziosissimo, qui, ma ci sono stati tutto il giorno dei gabbiani assordanti, eppure il mare non si vede, non si sente, in questa Carignano che sembra da sempre un antichissimo paese dell'entroterra. Il sole non si è mai visto perché pioveva senza pause, e coi vetri opachi una strana traccia della luminosità esterna ingannava gli orologi.
Ho cercato di non proiettarmi solo su domani, sul rientro a casa, ma non riuscivo a stare qui nel presente: la cena, i registri da chiudere, le ricerche da vistare. Per centrarmi sulla realtà ho ripensato alla sua voce al telefono, alle foto che mi ha mandato, ai messaggi. Lui c'è. Esiste veramente. Il cuore fa delle acrobazie, delle risate isteriche, violente, al pensiero, perché questo sono io adesso: calma come una lady esteriormente, e dentro folle, folle di dolore amore gelosia gioia speranza terrore.
Nemmeno riesco a dire a qualcuno che proprio ora rischio di più, che non sarebbe, no no, il caso di lasciarmi sola con questi pensieri, che ora sì che vedo, come illuminato dai riflettori, l'abisso dove ho camminato per un anno al buio, e tutti i mostri che ci vivevano dentro.
Ma in tutto questo c'è qualcosa, o meglio, qualcuno, che non si è perso. Qualcuno che esiste nelle ore subito prima dell'alba. E che si ricorda tutto. Anche della ragazza castana morta a 39 anni. Una me che non ha più un corpo, fatta solo di luce, di anima, di gioia, che nel sonno, o nel sogno (al mattino non lo so più, perché lei con l'alba torna a nascondersi, nel comodino, in una parete, come le fate), lo abbraccia stretto, tutta arrembata a lui, a cucchiaio, o culo contro culo, come dormivamo d'inverno, e lo ama si spoglia lo spoglia gli sussurra. Stanotte a manate generose lui si prendeva il giusto sotto la maglietta e lei, che guarda caso indossava una t-shirt bianca di lui, sapeva con certezza di essere e di essere sentita e vista bellissima, aveva dimenticato gli anni le rughe le cicatrici il dolore la paura di dire la cosa sbagliata le occhiaie gli spasmi, e rideva, eterna, immortale, per sempre sua. E stanotte era per forza solo l'anima, perché lui era a 100 km. Ma era più reale di qualsiasi altra cosa accaduta durante la settimana.
E questa gioia no, non sfugge al controllo come quella di quando lui telefona, di quando lui c'è. Questa gioia è calma, è sicura. È davvero qualcuno che vede, fuori dal marasma di emozioni che mi porto dentro io. Qualcuno che ha aspettato dentro una parete, sotto a un comodino, perché sapeva.
Ci sono amori che si sanno. Da subito.
E invece parte.
Così io mi ritrovo a dormire nel letto che fu di mio padre, nella stanza che fu di mia nonna, col computer che fu del mio ragazzo, sotto i quadri che furono in casa delle mie zie. Straniamento. Senso di precarietà fra diversi mondi, dei quali molti sono stati casa mia.
Idee confuse.
Beh. Un anno fa a quest'ora ero sicuramente messa peggio, dai.
O no? Beh, sì. Dipende un po' tutto da domani, diciamo. E da dopodomani. E dal resto della mia vita, niente di cui agitarsi, tutto molto lineare, ma scherzi.
Dicevo, le idee sono molto, molto mischiate. Le sensazioni no, sono chiarissime. Anzi, a forza di sfrondare, amputare, rimpicciolire tutto quello che era quell'altra, quella che è morta a 39 anni, le sensazioni sono rimaste poche, ma fortissime ed evidenti.
Io so chi sono. Solo che non mi posso ancora permettere di esserlo.
Va pur detto che un pezzetto di me è rinato a Valloncello Silente, al buio sotto chilometri quadrati di cielo stellato, un pezzo di me è sopravvissuto grazie ai vari trilli dei messaggi di whatsapp delle mie persone, un pezzo di me è sepolto alla Madonna della Neve, un altro è rimasto schiacciato sulla statale, qualcosa di me sta su solo di facciata, per carità sembro la Creatura di Frankenstein, sono tutta cucita.
Sono talmente assuefatta al silenzio, alla solitudine e al dolore che, in questi giorni così simili alla normalità, ho le vertigini. Come uno che non ha più un organo malato e si sveglia la mattina pensando: eccomi, ora mi occupo di te, e poi si ricorda che quel pezzo non ce lo ha più. Come quando è morto mio padre e non c'è più stato da preoccuparsi di lui che era malato. Un vuoto così strano.
Oggi, in una specie di ritiro, con dozzine di fogli da smistare, in questa casa non mia di cui osservo i dettagli noti come fossero flashback di vite precedenti, ho perso diverse volte il senso del luogo e del tempo. Per essere in centro Genova è silenziosissimo, qui, ma ci sono stati tutto il giorno dei gabbiani assordanti, eppure il mare non si vede, non si sente, in questa Carignano che sembra da sempre un antichissimo paese dell'entroterra. Il sole non si è mai visto perché pioveva senza pause, e coi vetri opachi una strana traccia della luminosità esterna ingannava gli orologi.
Ho cercato di non proiettarmi solo su domani, sul rientro a casa, ma non riuscivo a stare qui nel presente: la cena, i registri da chiudere, le ricerche da vistare. Per centrarmi sulla realtà ho ripensato alla sua voce al telefono, alle foto che mi ha mandato, ai messaggi. Lui c'è. Esiste veramente. Il cuore fa delle acrobazie, delle risate isteriche, violente, al pensiero, perché questo sono io adesso: calma come una lady esteriormente, e dentro folle, folle di dolore amore gelosia gioia speranza terrore.
Nemmeno riesco a dire a qualcuno che proprio ora rischio di più, che non sarebbe, no no, il caso di lasciarmi sola con questi pensieri, che ora sì che vedo, come illuminato dai riflettori, l'abisso dove ho camminato per un anno al buio, e tutti i mostri che ci vivevano dentro.
Ma in tutto questo c'è qualcosa, o meglio, qualcuno, che non si è perso. Qualcuno che esiste nelle ore subito prima dell'alba. E che si ricorda tutto. Anche della ragazza castana morta a 39 anni. Una me che non ha più un corpo, fatta solo di luce, di anima, di gioia, che nel sonno, o nel sogno (al mattino non lo so più, perché lei con l'alba torna a nascondersi, nel comodino, in una parete, come le fate), lo abbraccia stretto, tutta arrembata a lui, a cucchiaio, o culo contro culo, come dormivamo d'inverno, e lo ama si spoglia lo spoglia gli sussurra. Stanotte a manate generose lui si prendeva il giusto sotto la maglietta e lei, che guarda caso indossava una t-shirt bianca di lui, sapeva con certezza di essere e di essere sentita e vista bellissima, aveva dimenticato gli anni le rughe le cicatrici il dolore la paura di dire la cosa sbagliata le occhiaie gli spasmi, e rideva, eterna, immortale, per sempre sua. E stanotte era per forza solo l'anima, perché lui era a 100 km. Ma era più reale di qualsiasi altra cosa accaduta durante la settimana.
E questa gioia no, non sfugge al controllo come quella di quando lui telefona, di quando lui c'è. Questa gioia è calma, è sicura. È davvero qualcuno che vede, fuori dal marasma di emozioni che mi porto dentro io. Qualcuno che ha aspettato dentro una parete, sotto a un comodino, perché sapeva.
Ci sono amori che si sanno. Da subito.
domenica 29 maggio 2016
Collage
Volevo riprendere a scrivere.
Non sapevo come fare.
Ho aperto gli appunti sul cellulare e copiato stralci a caso.
Disclaimer: ci sono errori di scrittura, poca punteggiatura e addirittura strafalcioni ortografici, perché a volte dettavo al tablet. Ce li lascio per dispetto, per onestà, per pigrizia, per troppo dolore. Insomma, ci sono. Amen.
Seduta sul prato a Rimini di fronte a uno spettacolare centro congressi elaboro la certezza di dover vi degli aggiornamenti su tutto quello che è cambiato nel frattempo sono stata poco sincera con voi poco aperta ho detto poche cose di alcune continua a non voler parlare di altre invece ho bisogno di voi ho bisogno di condividere ho bisogno di un parere o forse semplicemente di poter dare una testimonianza
Ingredienti per i Fekkas:
500 g di farina
3 uova
40 ml di olio vegetale
60 ml di acqua di fiori d’arancio
1 cucchiaino in lievito in polvere
Un pizzico di sale
I am not to speak to you, I am to think of you when I sit alone or
wake at night alone,
I am to wait, I do not doubt I am to meet you again,
I am to see to it that I do not lose you.
Chi cazzo sei diventato?
Through many dangers, toils and snares
I have already come;
'Tis Grace that brought me safe this far,
And grace will lead me home.
In questa vita non puoi mai dire cosa succede. Per esempio ti trovi alle cinque di mattina no dai cinque e tre quarti per essere precisi, che cammini tranquilla sulle strade deserte del tuo quartiere invece di pensare che stai percorrendo il boulevard of broken dreams come sarebbe anche logico pensare visto tutto stai pensando che sei contenta sei contenta di aver lasciato la tua bambina col suo fidanzato è un sacco di amichetti
Più o meno raccomandabili alla partenza del pullman per Gardaland e sei contenta perché stamattina lui ti ha scritto grazie con la faccina sorridente dopo che tu alle 4:00 lo hai depositato alla partenza del pullman per la gita in Francia e sei contenta perché non hai dormito un c**** ti sei svegliata alle 3:30 ma sei contenta perché dormito luci spente per una volta e perché la prima cosa che ha detto lui al mattino svegliandosi ti ha fatto morire dal ridere e tu pensi come è bello svegliarsi insieme e tu pensi perché perché perché perché perché perché perché quest'anno di m**** eppure non importa è tutto alle spalle davanti non si sa cosa ci sia quello che c'era dietro non tornerà mai più ma intanto questo siamo noi adesso due persone che si conoscono per la prima volta eppure San tuttoE poi pensi al Tanaro alle sue spire verdi che si svolgono in mezzo alla pianura pensi al piccolo Belvedere dietro la chiesa a lui che ti abbraccia e dice è da cartolina epensi noi siamo da cartolina ovunque vada con te valeva il viaggio il viaggio fin qui valeva la pena il viaggio con te vale sempre la pena
Non sapevo come fare.
Ho aperto gli appunti sul cellulare e copiato stralci a caso.
Disclaimer: ci sono errori di scrittura, poca punteggiatura e addirittura strafalcioni ortografici, perché a volte dettavo al tablet. Ce li lascio per dispetto, per onestà, per pigrizia, per troppo dolore. Insomma, ci sono. Amen.
Seduta sul prato a Rimini di fronte a uno spettacolare centro congressi elaboro la certezza di dover vi degli aggiornamenti su tutto quello che è cambiato nel frattempo sono stata poco sincera con voi poco aperta ho detto poche cose di alcune continua a non voler parlare di altre invece ho bisogno di voi ho bisogno di condividere ho bisogno di un parere o forse semplicemente di poter dare una testimonianza
Ingredienti per i Fekkas:
500 g di farina
3 uova
40 ml di olio vegetale
60 ml di acqua di fiori d’arancio
1 cucchiaino in lievito in polvere
Un pizzico di sale
I am not to speak to you, I am to think of you when I sit alone or
wake at night alone,
I am to wait, I do not doubt I am to meet you again,
I am to see to it that I do not lose you.
Chi cazzo sei diventato?
Through many dangers, toils and snares
I have already come;
'Tis Grace that brought me safe this far,
And grace will lead me home.
In questa vita non puoi mai dire cosa succede. Per esempio ti trovi alle cinque di mattina no dai cinque e tre quarti per essere precisi, che cammini tranquilla sulle strade deserte del tuo quartiere invece di pensare che stai percorrendo il boulevard of broken dreams come sarebbe anche logico pensare visto tutto stai pensando che sei contenta sei contenta di aver lasciato la tua bambina col suo fidanzato è un sacco di amichetti
Più o meno raccomandabili alla partenza del pullman per Gardaland e sei contenta perché stamattina lui ti ha scritto grazie con la faccina sorridente dopo che tu alle 4:00 lo hai depositato alla partenza del pullman per la gita in Francia e sei contenta perché non hai dormito un c**** ti sei svegliata alle 3:30 ma sei contenta perché dormito luci spente per una volta e perché la prima cosa che ha detto lui al mattino svegliandosi ti ha fatto morire dal ridere e tu pensi come è bello svegliarsi insieme e tu pensi perché perché perché perché perché perché perché quest'anno di m**** eppure non importa è tutto alle spalle davanti non si sa cosa ci sia quello che c'era dietro non tornerà mai più ma intanto questo siamo noi adesso due persone che si conoscono per la prima volta eppure San tuttoE poi pensi al Tanaro alle sue spire verdi che si svolgono in mezzo alla pianura pensi al piccolo Belvedere dietro la chiesa a lui che ti abbraccia e dice è da cartolina epensi noi siamo da cartolina ovunque vada con te valeva il viaggio il viaggio fin qui valeva la pena il viaggio con te vale sempre la pena
lunedì 18 aprile 2016
I just wanted to hold you here in my arms
Ho cercato di ricordarmi un momento della mia vita in cui la sensazione di essere fuggiti fosse così forte.
Fughe nella mia vita: poche. Fughe da brava ragazza.
Non so, forse è la volta in cui invece di andare a scuola io e le mie due inseparabili compagne di classe abbiamo preso il treno e siamo andate a Pisa.
Non era una fuga, lo sapevano tutti e io non stavo
scappando da chissà cosa, anzi stavo andando a vedere la Normale di Pisa, nella speranza di potermi mettere in gabbia per anni in una delle più prestigiose università italiane.
Però prendere il treno, di mattina all'ora in cui avremmo dovuto essere sedute nei banchi, tutte e tre insieme, era bello, era allontanarsi da tutto. Per noi tranquille e noiose liceali bastava poco.
Di certo, da quando avevo 16 anni, la prima presenza che avverto al mio fianco, se penso alla fuga, è quella della Tipa.
In fondo è con lei che sono stata all'estero, davvero lontana da tutto. Se penso alla fuga penso ancora ai prati di Leicester o alle colline della Scozia, ai suoi capelli lunghi e profumati, alle interminabili ore di pullman e aeroporti.
La fuga vera però è cominciata con lui.
Fuga era saltare le ore di latino del venerdì mattina, quando eravamo alla specializzazione, io sveglia dalle sette e mezza, "ho la frequenza obbligatoria...": ma poi lui mi baciava di nuovo, e uscire dal cerchio delle sue braccia era impossibile. Fuga era scegliere l'intervallo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio per andare a sdraiarsi sui prati in mezzo alle ginestre, sotto i forti di Genova (D'Annunzio ci faceva una pippa, a noi due, altro che scrosci di pioggia sulla pineta, un sole così e il mare blu in lontananza, niente sesso no, ché il sentiero era frequentatissimo, ma la sensazione che il mondo fosse ai nostri piedi, che gli dèi non potessero stare meglio, che l'eternità sarebbe stata questo).
Fuga poi, da sposati, era non correggere i compiti quando era tutto fiorito, ma prendere la macchina e andare a vedere una chiesetta in mezzo al verde, un paesino sperduto, qualunque cosa. Lontani da tutto. Pieni di sogni, un po' persi nel mare di colline, mica tanto sicuri di questa emigrazione in terra aleramica, mica tanto sicuri di esserci davvero davvero sul serio veramente sposati e lasciati dietro tutto e tutti, tanto giovani, un po' troppo soli. Noi due.
Ma anche così, anche mettendo insieme tutti questi ricordi diversi, non riesco a rivedere una sola volta in cui mi sia sentita così lontano da tutto, come ieri.
Ieri la fuga era meravigliosa, perché era la fuga da me stessa, da tutto quello che mi è pesato sulla schiena in questi mesi.
Fuga era il sole, la pioggia, la neve sulle montagne, il non dover dare spiegazioni a nessuno per essere sparita per un'estate intera ed essere tornata.
Fuga era tutto, ieri.
L'asfalto, il divano, il non avere bagagli, il potere tornare in qualsiasi momento, il sapere che alla sera c'era un altro impegno completamente diverso e che sarebbe bastato cambiare scarpe, infilare una giacca e rifare il trucco per essere a proprio agio.
Fuga era vedere lui che sorrideva.
Ma molto di più fuga è stato non farsi domande, non volere risposte, non cercare spiegazioni, non farsi paranoie, anche quando lui non sorrideva. Che vacanza, Dio mio, avere per sei o sette ore il cervello FERMO.
Fughe nella mia vita: poche. Fughe da brava ragazza.
Non so, forse è la volta in cui invece di andare a scuola io e le mie due inseparabili compagne di classe abbiamo preso il treno e siamo andate a Pisa.
Non era una fuga, lo sapevano tutti e io non stavo
scappando da chissà cosa, anzi stavo andando a vedere la Normale di Pisa, nella speranza di potermi mettere in gabbia per anni in una delle più prestigiose università italiane.
Però prendere il treno, di mattina all'ora in cui avremmo dovuto essere sedute nei banchi, tutte e tre insieme, era bello, era allontanarsi da tutto. Per noi tranquille e noiose liceali bastava poco.
Di certo, da quando avevo 16 anni, la prima presenza che avverto al mio fianco, se penso alla fuga, è quella della Tipa.
In fondo è con lei che sono stata all'estero, davvero lontana da tutto. Se penso alla fuga penso ancora ai prati di Leicester o alle colline della Scozia, ai suoi capelli lunghi e profumati, alle interminabili ore di pullman e aeroporti.
La fuga vera però è cominciata con lui.
Fuga era saltare le ore di latino del venerdì mattina, quando eravamo alla specializzazione, io sveglia dalle sette e mezza, "ho la frequenza obbligatoria...": ma poi lui mi baciava di nuovo, e uscire dal cerchio delle sue braccia era impossibile. Fuga era scegliere l'intervallo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio per andare a sdraiarsi sui prati in mezzo alle ginestre, sotto i forti di Genova (D'Annunzio ci faceva una pippa, a noi due, altro che scrosci di pioggia sulla pineta, un sole così e il mare blu in lontananza, niente sesso no, ché il sentiero era frequentatissimo, ma la sensazione che il mondo fosse ai nostri piedi, che gli dèi non potessero stare meglio, che l'eternità sarebbe stata questo).
Fuga poi, da sposati, era non correggere i compiti quando era tutto fiorito, ma prendere la macchina e andare a vedere una chiesetta in mezzo al verde, un paesino sperduto, qualunque cosa. Lontani da tutto. Pieni di sogni, un po' persi nel mare di colline, mica tanto sicuri di questa emigrazione in terra aleramica, mica tanto sicuri di esserci davvero davvero sul serio veramente sposati e lasciati dietro tutto e tutti, tanto giovani, un po' troppo soli. Noi due.
Ma anche così, anche mettendo insieme tutti questi ricordi diversi, non riesco a rivedere una sola volta in cui mi sia sentita così lontano da tutto, come ieri.
Ieri la fuga era meravigliosa, perché era la fuga da me stessa, da tutto quello che mi è pesato sulla schiena in questi mesi.
Fuga era il sole, la pioggia, la neve sulle montagne, il non dover dare spiegazioni a nessuno per essere sparita per un'estate intera ed essere tornata.
Fuga era tutto, ieri.
L'asfalto, il divano, il non avere bagagli, il potere tornare in qualsiasi momento, il sapere che alla sera c'era un altro impegno completamente diverso e che sarebbe bastato cambiare scarpe, infilare una giacca e rifare il trucco per essere a proprio agio.
Fuga era vedere lui che sorrideva.
Ma molto di più fuga è stato non farsi domande, non volere risposte, non cercare spiegazioni, non farsi paranoie, anche quando lui non sorrideva. Che vacanza, Dio mio, avere per sei o sette ore il cervello FERMO.
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