Appunto lì troviamo posto. Discendendo una stradina pedonale dai ciottoli tondi, gli dico:
"Ma tu l'hai mai vista la cattedrale?"
Risponde di no.
Gliela mostro. Siamo d'accordo entrambi che, sulla porta, a me si inarcherà all'indietro la spina dorsale, mi si gireranno gli occhi e inizierò a sbavare parlando in una variante dell'aramaico antico, mentre a lui, probabilmente, accadrà che si spacchi un lastrone di pietra sotto i piedi, e ne escano quattro nerborute braccia nere puzzolenti di zolfo, per trascinarlo giù giù tra i violenti contro natura. Ma decidiamo di correre il rischio perché il gotico piemontese vale la pena, e dentro, io lo so, le colonne sembrano alberi, tutte dipinte con serti di vite che si avvolgono delicatamente fin lassù in cima.
Solo che l'antico legno del portale è sbarrato. Guardo l'ora: attenzione, è scoccato mezzogiorno. The calling of the agnolotto. Tutta la città sta per svuotarsi e gli zombie dei paesini stanno per essere risucchiati verso le loro tavole, in un vortice di bagna cauda.
Infatti, quando svoltiamo verso il centro, siamo presenti ormai solo noi e i turisti. Stranieri, perlopiù.
Ma in tutto questo io ho fatto una cosa che ormai faccio di rado, cioè sono passata a piedi sotto la cattedrale.
Dove passavo ogni santa mattina, con sole o nebbia, pioggia o neve, per andare a lavorare a Scuolaprivata Delle Stronze, il primo anno d'insegnamento della mia vita, l'anno in cui ho scoperto Asti. L'anno secondo della mia vita con l'Uomo. La cattedrale l'ho vista in tutte le sfumature di luce, e il laterizio monferrino cambiava colore e quasi consistenza, veniva da pensare che Monet avrebbe saputo cosa fare, se fosse passato di lì tre o quattro giorni di fila.
E non solo lui.
Stamattina svegliandomi da sola (di nuovo... ancora... sempre sola) ho pensato alla ragazza di ventisei anni che arrivava sui ciottoli tondi, carica di quaderni, dal vento di Genova e dalle nebbie argentate della pianura, e a tutto quel sangue giovane e felice che pompava nelle sue arterie. E ho scoperto che so a memoria, senza averla mai studiata, ma dopo averla spiegata a dieci terze, una poesia nella quale mai mi ero riconosciuta e che, oggi, mi sta addosso come un guanto.
"Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!"
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