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Tuesday, January 18, 2022

Silvia Pareschi e l'arte del tradurre: cinque domande che avrei voluto farle a suo tempo.

Sono passati oramai più di 6 anni dall'intervista che feci a Silvia Pareschi, traduttrice dall’inglese all’italiano di grandissimi autori – da Jonathan Frazen a Zadie Smith, da Junot Díaz a Julie Otsuka, da Nancy Mitford a Don DeLillo (e molti altri ancora), e autrice di una raccolta di racconti dal titolo I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, Giunti, 2016.

L'ho ricontattata di recente, per porle alcune domande che non le avevo fatto allora, oltre ad altre che avrei voluto farle adesso. Ne è venuta fuori una breve chiacchierata che spero vada a completare quella, più corposa, fatta nel  2015.

Dunque, Silvia, quello del traduttore è un viaggio nella mente e nella sensibilità di un altro scrittore, prima ancora che nelle sue storie, al punto che, forse, ci si potrebbe spingere a dire che chi traduce finisca per arrivare a conoscere aspetti di un autore che sfuggono all’autore stesso. Dal 1992 al 2021 hai tradotto cinque romanzi di Jonathan Franzen (l’ultimo, “Crossroads”, è uscito quest’anno per Einaudi). Cosa ci puoi dire di Franzen e del mondo che racconta?

Il mondo di Franzen, lo sappiamo, è la famiglia. La famiglia che viene analizzata, dissezionata, sviscerata, della quale vengono mostrati i meccanismi distorti, ma alla quale si ritorna sempre come nucleo fondante della società e delle storie. Dalla famiglia si partiva per un viaggio nei temi della contemporaneità: nelle Correzioni il passaggio della società americana da un’economia industriale a un’economia basata sul