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venerdì 5 febbraio 2021

Occhi fissi sul campo (Spalla a spalla, a Italo)

Perdonami. Perdonami figlia mia se nel tuo giorno di festa ho il cuore cupo, striato dal dolore di persone care, che soffrono.
Conoscevo Italo da una quindicina d'anni, da quando tuo fratello Giacomo era voluto andare a giocare a calcio in una categoria superiore, dimostrando già allora un'ambizione insospettabile per quel carattere in apparenza imperturbabile, cheto.
Quel mondo Italo lo frequentava a suo agio, essendosi messo anch'egli alla prova spesso, per decenni, sul campo e in panchina, roccioso e arguto nel contempo.
Entrambi genitori di figli in calzoncini corti e alti poco più di un metro, siamo stati sovente spalla a spalla, due volte la settimana almeno, da settembre a giugno, pioggia o sole o vento, alle partite o di fronte al cancello, terminato l'allenamento.
Ero io ad andare a cercarlo, perché sapevo che mi aspettava volentieri, in tribuna o a bordo campo. Lui conosceva il mio stile garbato, io apprezzavo i suoi lunghi silenzi, concentrato a osservare il gioco, e ancor più le occasioni rare e preziose in cui apriva bocca, per esprimere sottovoce un commento, un giudizio mai banale, lapidario.
I giorni più luminosi erano quelli in cui accanto a noi arrivava un altro padre, Piero: non soltanto il suo migliore amico, ma l'emblema stesso dell'amicizia che può esserci tra due persone, quel miracoloso vincolo che si crea a dispetto delle differenze, anzi, forte in modo direttamente proporzionale alle diversità di stile, di gusto, di carattere, di fisico.
Italo e Piero. Piero e Italo. Massiccio e pratico e interista uno; esile e fantasioso e milanista l'altro. Insieme, uno spettacolo. Di ironia, sarcasmo, soprattutto di bene, stima, affetto.
Italo se n'è andato in questo giorno mite di febbraio, spezzato in nemmeno quattro settimane da quel virus che - sbagliando - credevo avessimo ormai imparato a tenere al guinzaglio, almeno per le persone vicine, per coloro che non penseresti mai possano essere estratte a sorte dal mazzo.
Un lampo di sgomento, che mi ha riportato a dieci mesi fa, al dolore di altre persone care, a Luciano, alla sua famiglia, a quella di molti colleghi bergamaschi, al dramma identico di questa epidemia che non vediamo l'ora sia finita, illudendoci che stia tutto tornando normale, anche se di normale c'è nulla o poco.
Per questo sono così, nel giorno del tuo ventunesimo compleanno, perché non riesco a non pensare a Stefano e Irene e a Rossella, i figli di Italo, che hanno più o meno la tua età e a Giovanna, sua moglie, e a Piero stesso, schiacciati da un vuoto che è come un manto, di piombo.
Un dolore ingiusto, che non ha motivo, mai, per nessun essere umano, da che mondo è mondo.
Un dolore che si unisce all'apprensione di altre persone che mi sono vicine e in questi mesi vivono la morsa di un altro male, combattendo tenacemente ma accusando spesso il colpo, com'è comprensibile, non essendo noi fatti di gomma, avendo crepe pure quando non le mostriamo.
Per questo aspetterò che ti addormenti, Giorgina, per venire a osservarti un minuto, nonostante il buio, ascoltando il tuo respiro, calmo, piano, chiudendo gli occhi, cercando di sentire in quel momento ancora Italo vicino, spalla a spalla, come quando eravamo in tribuna di sperduti campi, e so che non lo guarderò, non riuscirò a guardarlo, continuerò a tenere lo sguardo fisso sul prato, per non commuovermi, e gli dirò quello che non sono mai riuscito a dirgli ma che lui sapeva, perché era un uomo acuto, oltre che buono. Un uomo che sono orgoglioso di avere conosciuto e di considerare per sempre amico.

mercoledì 14 dicembre 2011

Faloppiese bye bye

Giacomo da ieri non è più un giocatore della Faloppiese. Mi spiace, perché per lui era come la Juventus, tre anni fa ha voluto fortissimamente andarci (io ero contrario) e ci ha passato tre stagioni fantastiche.
L'allenatore a un certo punto non ha più puntato su di lui, tutto qui. Ci siamo lasciati di reciproco accordo, noi convinti che le scelte spettano nel bene e nel male a chi guida la squadra, loro abbastanza onesti da non prenderci in giro, trattenendolo per altri mesi e continuando a farlo giocare a spizzichi e bocconi (molti gli spizzichi, rarissimi i bocconi).
Giacomo ha quattordici anni e la cosa peggiore sarebbe che abbandonasse insieme con il calcio anche i sogni. Ciò che gli brucia di più, credo, è lasciare il gruppo, i compagni. L'ho visto con i lacrimoni ieri, sforzandosi di non piangere, per dimostrare che oltre che alto è anche grande.
Come ogni genitore avrei spostato le montagne pur di evitargli un dispiacere, ma la vita è fatta così ed è soprattutto nelle delusioni che si forgia il carattere.
In questi mesi sono stato fiero di lui, assai più che se avesse giocato sempre titolare. Ha tenuto duro, fin dove era ragionevolmente possibile, senza lamentarsi o mollare. Ha dimostrato a me, suo padre, cosa significa esser disciplinati, tosti, costanti. S'è convinto alla fine, quando ha compreso che non dipendeva più da lui bensì dalle scelte di altri.
Nei prossimi giorni decideremo insieme cosa fare, in quale squadra andare, anche se la scelta finale spetterà a lui. Io spero continui e che non perda l'entusiasmo che finora ha dimostrato di avere. Della Faloppiese, oltre a momenti indimenticabili (ne ho parlato anche sul blog, in questo post e poi anche in questo), restano molte occasioni di incontro e le amicizie coltivate, sia tra ragazzi, sia tra i genitori. Spero di non perderli di vista e di aver lasciato, come famiglia, un buon ricordo. A chi resta e alla società auguro le migliori fortune.

P.S. Prima ho citato due post, sulla Faloppiese, ma è questo che mi è più caro di tutti ed è così che questa parentesi la voglio archiviare.

Foto by Leonora

lunedì 19 settembre 2011

Non smettere mai di sognare

Non smettere mai di sognare. L'ho detto ieri, a Giacomo, prima che scendesse dall'auto ed entrasse nello spogliatoio, per la prima partita del campionato (Regionale eccellenza giovanissimi A: Faloppiese contro Insubria).
Non smettere mai di sognare lo diceva sempre mio padre e anch'io - che a volte lo scordo, preso come sono dal caricarmi sulle spalle il contingente - ho sempre avuto cari i sogni, le aspirazioni, i progetti, i desideri, anche quelli immensi, impossibili.
Giacomo, a differenza dell'anno scorso, in campo non è partito titolare.
Giusto così. Di notte evidentemente qualcuno lo tira per i piedi ed è diventato ancora più alto, superando il metro e ottanta nonostante i suoi quattordici anni. Ed è magro. Non magrissimo. Anzi, bello tosto. Ma asciutto. E così alto da sembrarlo ancora di più.
Sta di fatto che rispetto a un paio d'anni fa qualcosa ha perso in smalto e molto altro deve ancora riequilibrarsi, in quel corpo d'albatro che stenta a spiegare le ali.
Comunque sia, ieri è entrato che mancavano dieci minuti, non combinando gran che fino al primo di recupero, quando su un passaggio teso ha stoppato la palla non perfettamente: cinquanta centimetri di troppo verso destra, che sembravano essergli costati il pallone.
Invece no. Con un calcio potente è riuscito a scagliarlo dritto come un fuso nella rete. Un gol spettacolare, che ha consentito alla Faloppiese di pareggiare. Ma la cosa più bella è avvenuta un istante dopo, quando Giacomo, pazzo di felicità, ha cominciato a correre verso il centrocampo cercando lo sguardo dell'allenatore, che a sua volta era scattato dalla panchina, modello Mourinho, con una rapidità che pure Usain Bolt sarebbe stato battuto senza fiatare. Si sono incrociati nel cerchio di centrocampo e abbracciati d'instinto, con una gioia, una foga commovente.
Quell'abbraccio è stato il regalo più bello che Giacomo potesse farmi, perché ha dimostrato di non lasciarsi cadere le braccia, di sapere accettare le scelte di chi è più grande di lui, di essere più intelligente del suo stesso genitore, che come tutti i genitori - anche se non lo dice né lo ammetterebbe, neppure con una pistola puntata sul crapone - pensa di essere lui stesso più bravo, più scaltro, più capace di qualsiasi allenatore.
"Sai papà - mi ha detto Giacomo, quando è salito in macchina e io facevo la faccia seria, di quello che vuol fare intendere che non gliene importa nulla ma ha un sorriso da un orecchio all'altro, difficile da dissimulare - sai papà, sono contento di aver segnato soprattutto per l'allenatore, perché io ero lì, in panchina, e sentivo come ci teneva, come era teso per questa partita, quanto desiderava vincere o almeno non perdere. E' per quello che appena ho visto il pallone entrare sono corso da lui, era quello che se lo meritava di più".
Bravo Giacomo, tuo padre è orgoglioso di te, anche se non te lo dice e preferisce scriverlo qua, senza doverti guardare negli occhi, che se no si imbarazza e imparpaglia pure. Ora sai che non è importante partire titolare, che si può anche stare seduti in panchina per partite e partite e partite, ma basta un minuto per ripagarti di rabbia, sconforto e delusione. Non perdere mai la speranza di trovarlo quel minuto, non smettere mai di sognare.

Foto by Leonora

sabato 12 marzo 2011

Un padre, l'allenatore di calcio e la tentazione malefica

Lavoro un fine settimana sì e uno no. Questo è quello sì e come ogni sabato scalo il Tourmalet, a occhi sbarrati e testa bassa, puntando dritto verso il traguardo della domenica sera. La mazzata è arrivata a metà pomeriggio, quando ho barattato la pausa pranzo per andare a vedere giocare Giacomo. Il fantasma di Giacomo, l'ombra. Un pallido ricordo del ragazzo gioioso che era, quando metteva maglietta, calzolcini e scarpe da calcio. Anche oggi sembrava portare sulle spalle il peso di Atlante e ha impiegato più energie ad allargare le braccia e scuotere la testa che a correre in lungo e in largo per il campo. Lui di carattere è uno che si demoralizza ed è il contrario di me, che al posto dei piedi avevo un ferro da stiro, ma stringevo i denti e non avevo paura di mettere la gamba. L'allenatore dopo cinque minuti l'ha piazzato in difesa e se prima girava a vuoto, di colpo è naufragato come tutta la squadra. Per la prima volta in vita mia m'è spiaciuto per lui, perché si vedeva lontano un miglio che delle qualità che deve possedere un difensore non ne aveva mezza: era lento, non anticipava, non contrastava e manco aveva la malizia di fare fallo quando un'attaccante lo superava, andandosene tranquillo e beato verso la porta. S'impegnava ma era inadeguato, come un albatro quando tocca terra e invece di spiegare le ali deve correre impacciato, sulla spiaggia.
Lo dico? No, non lo dico. Ma sì che lo dico! No, non lo dico. D'accordo, lo dico: per un istante ho anche pensato di andare a parlare con l'allenatore. Io! Io che mi vergogno per tutti quei genitori che credendo di avere in casa Maradona mettono becco e urlano e se la prendono, sbraitano, dispensano perle, consigliano: pensano di essere Mourinho e in vita loro non hanno mai neanche tirato un calcio al pallone davanti alla porta del condominio. Io! Io che ho sempre detto a Giacomo: "Se vuoi con l'allenatore ci parli tu. Se pensi che dovresti giocare più avanti perché nei contrasti sei scarso ma quando alzi la testa riesci a mettere la palla dove vuoi tu e qualche volta anche a segnare, come facevi l'anno scorso, non hai che prendere coraggio e dirglielo. Nella vita mica c'è sempre un padre che si preoccupa per te, che ti allaccia la bavaglia". Io! Io che ho sempre sentenziato serafico quanto il maestro Shifu o Oogway di Kung Fu Panda: "Un calciatore deve imparare a giocare dappertutto" e "Importante è allenare la propria debolezza per trasformarla in forza". E la mia d'una debolezza? M'è passata, scrivendo qui, mettendo in piazza la tentazione, esponendo la colpa. Giuro che non lo farò, giuro che manterrò fede ai miei principi, giuro che continuerò a pensare che Giacomo deve cavarsela da solo, che è soltanto un gioco e che altre sono le cose importanti della vita, giuro che non parlerò all'allenatore!
(Ma allora perché sto tenendo incrociate le dita?)


Foto by Leonora