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sabato 6 marzo 2021

Ascoltare, ascoltarsi (Di più)

Mi piacciono i ponti e i punti. Pure quelli di sutura, spessi, a filo grosso, che lasciano una cicatrice in evidenza, a futura memoria di un inciampo, di uno strappo, tutto sommato di una storia.
Questo tempo ne pretende molti e ancora più ne pretenderà, nei mesi che verranno, per ricucire la distanza tra mondi, tra gruppi di persone, tra generazioni costrette in cattività, a stare unite forzatamente durante la pandemia e che al "liberi tutti" potrebbero disperdersi come un'esplosione, con l'energia dei tori scappati dalla gabbia.
Le differenze di stato, di condizione, di possibilità, appianate ed appiattite ora, torneranno impetuose, cessato il pensiero unico del salvare la pelle dal virus, comportando sì una vitalità positiva, una ripartenza fulminante, ma anche il rischio di altre scollature, di distanze come voragini, tra chi ha accumulato denaro, bisogni, aspettative, e chi invece è rimasto piegato o soltanto indietro, senza più forza o volontà di balzare sul treno in corsa.
Non è una profezia e neppure una certezza, che in fatto di previsioni ne azzecco meno degli oroscopi sulla Settimana Enigmistica.
Piuttosto è una sensazione, un campanello che trilla, ieri l'altro debole, oggi meno flebile, più intenso ogni giorno che passa avvicinandosi al termine dell'emergenza.
Leggo, mi pare di leggere, uno strappo, e vorrei con la stessa premura scovare l'ago e il filo che rammenda.
Lo trovo, mi pare di trovarlo, nel guardaroba dell'esperienza, nel cassetto con la targhetta: "Ascolta".
Ascoltare le esigenze, i desideri, i sentimenti, le paure degli altri, dell'altro, è esercizio che impegna orecchie e insieme stomaco, cuore, testa.
Ascoltare è atto di partenza (mettersi in ascolto) e punto di arrivo, presa d'atto, disposizione a cambiare l'opinione, la posizione propria.
Occorre coraggio, costa fatica.
Pure nelle piccole cose, come adesso, seduto sul divano, con te accanto, Giorgia, mentre sentiamo le canzoni di Sanremo e a me sembrano dire niente, mentre a te "parlano", hanno significati che vanno oltre il testo e la musica.
Dare tutto per scontato, mettere etichette sbrigative, avere la puzza sotto il naso e giudicare ogni cosa banale, già vista, inadeguata, brutta o superficiale non qualifica l'oggetto osservato, bensì colui che vede tutto in negativo, è incapace di cogliere le differenze, non riesce più a sorprendersi per nulla.
Io non voglio essere così, non voglio spegnermi, lasciandoti su quel divano e nella vita sola.

P.S. Al massimo voglio addormentarmi, essendo da un pezzo passata della notte l'una.

domenica 12 febbraio 2012

Qui riposa Whitney Houston (e il ragazzo posato che ero)

L'hanno trovata morta, in un hotel di Beverly Hills, e l'unica aggiunta allo scarno bollettino iniziale e' che soffriva di depressione. Di Whitney Houston m'ero dimenticato pure io, anche se negli anni Ottanta, quando gli ormoni erano frizzanti quanto spumante appena stappato e sapevo immaginare - immaginare l'universo - quella donna mi affascinava sul serio. Non ero un fanatico, perche' come ho gia' scritto in questo blog, fanatico non lo sono mai stato e credo non lo saro' mai di nessuno. Non compravo ogni suo cd, non sapevo le canzoni a memoria, non sono mai andato a un suo concerto. Pero' mi piaceva, un sacco. La consideravo la donna piu' bella del mondo e segretamente sognavo di incontrarla e che s'innamorasse di me. Poco importa se era piu' improbabile di un meteorite che precipitasse in giardino, anche perche' allora il viaggio piu' lungo lo facevo con il treno delle Nord, andata e ritorno Milano, tre vie, sempre le stesse, da Cadorna a largo Gemelli, in Cattolica, avanti e indietro. A meno che lei salisse in carrozza, un giorno, a Caslino al Piano o Rovello, era impossibile qualsiasi contatto piu' ravvicinato di diecimila chilometri in linea d'aria (tranne la volta memorabile in cui venne come ospite al festival di Sanremo a cantare e bissare a forza di applauso "All at once", credo. Li' i chilometri erano solo duecento). Pero' la speranza c'era e c'e' sempre stata, anche quando il tramonto e' arrivato precoce, insieme alla droga, al disordine, le botte, il corpo gonfiato, distrutto, la risalita, le ricadute. La mente l'aveva rimossa, scordata, il cuore invece e' rimasto aggrappato al sogno di vederla, incontrarla, poterle parlare almeno una volta, per dirle che quel ragazzo era stato innanorato di lei e la considerava la donna piu' affascinante, desiderabile, bella del mondo. Ecco perche' stamattina, quando ho letto ch'era morta, ho avuto una sensazione di inquietudine, di malessere, disagio, come se non avessi fatto qualcosa che dovevo e che ormai fosse troppo tardi, che la mia pigrizia sia stata ancora una volta imperdonabile, davvero. In quei giorni, dopo il treno della Nord, avrei dovuto prendere quello dello Stato, per Sanremo, e andare a dirglielo, di persona, facendo qualcosa di pazzo. E ora che e' morta mi sento in colpa e triste, anche per questo, perche' io qualcosa di pazzo non l'ho mai fatto.

giovedì 17 febbraio 2011

Sergio Belardinelli e il segreto della mia felicità


E' curioso e straordinario insieme che una persona di sinistra sdogani e restituisca dignità e valore a concetti monopolio per anni dalla destra (e schifati da buona parte della sinistra stessa): inno, nazione, patria... Della grandezza di Roberto Benigni non voglio parlare: ogni parola risulterebbe banale. Dico soltanto che il suo "Fratelli d'Italia" cantato a Sanremo mi ha commosso e sono fiero di essere suo contemporaneo.
Tra le tante cose dette da Benigni, cito questa: "Se qualche volta la felicità si scorda di voi, voi non scordatevi di lei". Faccio il paio con un articolo letto oggi, su consiglio di Isabella. E' l'intervista che Antonella Mariani ha fatto su "Noi genitori & figli" a Sergio Belardinelli, docente di Sociologia dei processi culturali all'università di Bologna. Di seguito ne riporto le risposte, mettendo in neretto i concetti che mi sono più piaciuti. Di più, dico solo che leggendole mi sono reso conto del perché sono, perché sento di essere una persona felice: perché ho avuto la fortuna di incontrare persone che, amandomi, mi hanno trasmesso fiducia e gusto per la vita.

"Cos’è la pienezza di vita? È una vita riuscita, una vita che ha senso, che si conduce con soddisfazione, in cui si è contenti di esserci. Da Hanna Arendt ho imparato che lo scopo dell'educazione è quello di aiutarci a sentirci a casa nel mondo. Proprio così: sentirsi a casa nel mondo. È questo il dono più grande che ciascuno può ricevere, il dono che rende una vita riuscita e piena. Sentirsi a casa nel mondo prescinde dalle condizioni materiali in cui si vive, non dipende dalla ricchezza o dalla povertà e nemmeno dalla salute o dalla malattia. Si tratta di una condizione dello spirito che varia da persona a persona. La felicità non risponde a un protocollo, né è frutto di condizioni prestabilite. Non è un caso che spesso le persone più felici sono quelle da cui ce lo aspetteremmo di meno e che le persone più infelici sono quelle di cui avremmo detto: ha tutto per essere felice. In ogni caso, la felicità, la pienezza hanno a che fare con la capacità di dare senso alla vita e a ciò che facciamo. Credo che tale capacità sia in realtà un dono. Essa dipende dalla fortuna che abbiamo avuto di incontrare persone che, amandoci, ci hanno trasmesso fiducia e gusto per la vita. La mancanza di queste persone è il male della nostra società. Mancano sui nostri ragazzi sguardi attenti e amorevoli, mancano educatori che colgano dietro tante apparenti normalità gli abissi di solitudine in cui vivono molti giovani e adolescenti.
Un tempo era un dato acquisito che la vita fosse un dono. Dietro a questa affermazione c'era un patrimonio di cultura, nella quale trovava posto anche un forte senso di gratuità. In ultimo ciò significava che noi uomini non siamo responsabili fino in fondo di ciò che facciamo né di ciò che ci capita. Eravamo, in fondo, sgravati da tante responsabilità. Oggi invece si pretende di essere sempre padroni della situazione, in tutte le circostanze, perfino quando si tratta di mettere al mondo un figlio. È evidentemente una responsabilità sproporzionata alle nostre forze. Ecco allora che molte giovani coppie decidono di non mettere al mondo figli per un eccesso di senso di responsabilità. Non ci sono abbastanza soldi, non abbiamo ancora un lavoro sicuro o una casa adeguata, insomma meglio aspettare. E si rinuncia cosi a procreare. L'idea di autodeterminazione è forse una delle più controverse del nostro tempo. Apparentemente essa sembra un segno della grandezza dell'uomo, ma in realtà è un segno dello svuotamento di ciò che è più umano. Nella volontà di tenere tutto sotto controllo si gioca la nostra frustrazione più profonda, quella stessa frustrazione che spinge tanti uomini e donne a rivolgersi a maghi, chiromanti e fattucchieri. Non è tollerabile che io non sappia se supererò quell'esame o se riuscirò a conquistare il cuore di quella donna. E invece le cose più essenziali della vita non dipenderanno mai da noi, saranno sempre imponderabili, indisponibili. Pensare la vita, dall'inizio alla fine, come un dono significa anche essere consapevoli di questa indisponibilità sostanziale di ciò che conta per davvero. Io credo che la vita sia bella a condizione che ci si concili con l'imponderabilità, l'incertezza, che, oltretutto, sono anche le dimensioni che danno senso alla nostra libertà. Non c'è niente di più umano e più bello dell’imprevedibilità. Come un bambino che nasce è una assoluta imprevedibile novità, cosi sono le nostre azioni libere: un modo di rinnovare il mondo. Non a caso il più grande segno di speranza e di fiducia nel mondo è sintetizzato dalle parole con le quali il Vangelo annuncia la lieta novella dell'Avvento: "Un bambino è nato per noi". Ogni bambino, dovunque nasca, nasce per noi; rappresenta la novità che rompe la decrepitezza della vita, ridandole vigore".
Foto by Leonora

mercoledì 16 febbraio 2011

Critico Gino Castaldo (viva il Pepinai, premiata trattoria)



Nella stretta cerchia di amici e parenti, la presenza di De Sfroos rende il festival di Sanremo più festival del solito. La conseguenza è che, oltre a guardarlo, curioso tra le pagine dei giornali. Mentre cenavo, stasera, m'è capitato di leggere le pagelle di Gino Castaldo su Repubblica. M'è andata la pasta di traverso. Mi domando: ma cosa c'entrano i critici con il lettore? Qual è stata l'ultima volta che sono andato al cinema perché mi sono fidato della recensione sul giornale? E quando mai ho ascoltato un cantante perché piaceva a quella casta ristretta di superesperti?
Torniamo a Castaldo. A parte i voti, in cui abbondano i 3, i 4 e i 5, sono i giudizi che mi spezzano, perché rivelano un disprezzo del nazional popolare che invece è l'essenza stessa di Sanremo. Voglio dire: è come se mandassero un gourmet eccelso alla trattoria del Pepinai a Molina di Faggeto. E' ovvio che mi torna schifato. Lui vorrebbe il "rombo assoluto" cotto nell'azoto liquido e servito che pare un origami. Come volete che reagisca quando si vede davanti il vassoio colmo di affettati? Come minimo gli viene l'orticaria. Ecco, l'impressione è che ai critici il pubblico faccia schifo. La conferma è scritta nero su bianco nei giudizi di Castaldo di oggi, su Repubblica. In uno si legge: "Più che un pezzo di Sanremo sembra un pezzo su Sanremo, e in un mondo normale, senza televoto, vicencerebbe a mani basse". Bene. Ma qual è il mondo normale? Quello che manda Vasco Rossi all'ultimo posto e fa vincere gli Avion Travel? La julienne di zucchine al finocchio in salsa di mandarino per me può attendere: portatemi le lasagne e poi se ne parla.

P.S. Gino, dai, non prendertela. Hai un bellissimo nome, che non darei a un figlio, ma che mio padre portava con regale dignità. Noi ignoranti siamo così: semplici. Prometto che se non t'offendi, voto i La Crus.
P.P.S. Ma a parte il mio amico Maggi, che se ne intende, chi cavolo conosceva ieri l'altro i La Crus?




Foto by Leonora

martedì 15 febbraio 2011

Van De Sfroos, Sanremo e la Lega


Nella più triviale tradizione italiana, guardo la partita di calcio e il festival di Sanremo. C'è Davide Van de Sfroos, conosciutissimo dagli amici di Como e beatamente ignorato da quasi tutti gli altri, la cui latitudine residenziale è inferiore a Cerro al Lambro. Il Milan ha perso dal Tottenham, Van de Sfroos invece ha passato il turno. Lascio qui una nota, sulla globalizzazione, che è quel fenomeno spiegato così da un lettore de La Stampa: "Ho comprato una camicia di cotone realizzata in India pagandola nove euro, l'ho portata a lavare e mi hanno chiesto tre euro e venti: questa è la globalizzazione". Per me è anche assistere alla lite tra lo "squalo" Joe Jordan e Gennaro Ivan Gattuso, detto Rino, da Corigliano Calabro. "Parlavamo in scozzese" ha detto Rino, scusandosi per il fatto che se l'era presa con una persona più vecchia di lui, mettendogli le mani addosso. Al festival della canzone italiana invece non solo è andato in scena il dialetto comasco, ma nello spot per invitare a pagare il canone Rai c'era anche un prete che sposava due ragazzi, parlando in milanese stretto. Si vede che la Lega qualcosa a Roma combina: forse il pudore no, ma il folklore è salvo. E lo dico provenendo da una casa dove si è sempre parlato in dialetto (i miei genitori tra loro, mentre con me si sono quasi sempre rivolti in italiano), un modo di comunicare che adoro, perché rivela una cultura centenaria, troppo spesso dimenticata e di cui addirittura molti si vergognano. Credo che l'omologazione avvenuta negli anni scorsi, la cancellazione di tutto ciò che era considerato locale, sia stata un errore. Mi commuovo leggendo De Luca, quando scrive che parlare in italiano in casa sua era una legittima difesa, una forma di sopravvivenza nel magma di una Napoli amata ma città invadente. La clessidra s'è girata, l'italiano è diventata la base e forse è il tempo di distinguersi concendendo spazio anche al vernacolo, a una lingua che cambia di paese in paese. Purché non sia imposizione. Vedevo De Sfroos, che in casa mia - a causa dei miei figli - è un'istituzione e mi domandavo cosa avrebbero capito a Isernia, Latina, Firenze... "Gusteranno la musica - ho detto a Giacomo - come nelle canzoni in inglese". Mi è venuta in mente Maria Carta, quando appariva alla Rai e del suo sardo non capivo un'acca. Non ne comprendevo la ricchezza, era soltanto una noia e anche adesso, che magari ne apprezzerei le canzoni, quell'impressione resta un freno e una macchia. Certe cose non si possono imporre. Tra esse c'è la diversità, che come certi fiori pretende il giusto tempo per sbocciare ed essere gustata. Consiglio a tutti i fondamentalisti della Lega: siate dolci. Più che la spada di Alberto da Giussano può la penna. Anzi, la piuma.


Foto by Leonora