Daisypath Friendship tickers
Daisypath Anniversary tickers

mercoledì 28 aprile 2010

A fatica, ma sempre in avanti

Oddio.
Sono uno straccio. Ho male dappertutto.

Fine della parte lamentosa. Sono a casa in mutua, comunque.

Si vede che è periodo, abbiamo scomodato più farmacie, medici e sistemi sanitari in queste ultime tre settimane, qua, che negli ultimi quattro mesi.

Prima il cugino che delira sul divano (invocando con voce sommessa un certo Giuseppe).

Poi l’Uomo che si fa visitare tre volte di fila, e questa settimana ci mettiamo ancora un’ecografia e una visita chirurgica, totalizzando una quindicina di ore di coda in studi medici, laboratori e pronto soccorso, con la pazienza di Giobbe, il che è un indizio di patologia serissima in uno come lui.

Bonus dall’effetto altamente spettacolare: la gatta che cade dal terrazzo, contribuendo sensibilmente all‘invecchiamento cellulare, per lo spavento, di tutta la famiglia. Secondo me le mancava il suo delizioso veterinario con gli occhi grigioazzurri e i ricci, perché era un po’ che non si vedevano, e tra loro c’è un amore conclamato, fin dalla prima volta che si sono incontrati (quanti di voi hanno un veterinario che prima di curare la gatta se la strofina sulla faccia sbaciucchiandola? Mai vista una cosa del genere. Matilda fa quest‘effetto agli amanti degli animali, perché è un gattino di marzapane, di quelli che fanno “miau” guardandoti con l’occhio liquido, e praticamente incapace di usare le unghie, ma insomma, io sono quasi imbarazzata da tali e tante effusioni in un contesto professionale.)

Adesso io che mi contorco in letto, con la faccia di un pallore che la collega Troll, già ieri, ha gentilmente definito cadaverico.

Uffa.

Intanto mia madre gira l’Albania in pullmann, mio padre impazza per casa con gli operai, gli elettricisti e gli imbianchini, le discussioni sul forum dei buddhisti si fanno appassionanti, il cinecircolo decide di prolungare la rassegna che sta andando benone, passano fugacemente a trovarci Musica e Begliocchi con il bimbo, la ginecologa venuta a fare educazione sessuale in II B inorridisce di fronte alla bieca ignoranza dei bambini in termini di sesso e riproduzione, e quando qualcuno vuol sapere se è vera la leggenda sui neri che ce l’hanno più grosso (o solo più lungo?) io e lei ci guardiamo di sfuggita con le parole “Non ho mai avuto il piacere di sperimentare“ sulla punta della lingua e ci dobbiamo voltare subito, perché ci viene da ridere.

La vita continua, insomma. Sono convinta che oggi se mi fosse arrivato davanti un treno in corsa non avrei avuto la forza di scostarmi, ma a livello cerebrale esisto ancora, prova ne sia che mi sto facendo un mazzo così per capire un paio di concetti tibetani particolarmente astrusi.

Nel mentre, la parte del mio cervello che va a lavorare anche quando io sono in coma ha visto, con chiarezza assoluta, che devo tagliare il programma di storia, letteratura e geografia generale in ambedue le classi, o non finirò né grammatica né gli stati e non farò in tempo a sentire tutte le ricerche.

Incidentalmente, sono sopravvissuta anche ai colloqui con le famiglie, e abbiamo una supplente di francese, il che forse mi permetterà di uscire alla mia vera ora di termine servizio il venerdì, almeno ogni tanto.
Nessuna notizia di M., dopo la seconda operazione. Ciò non fa ben sperare. Ma, almeno, la collega che la supplisce è simpatica e gentile (ci voleva, dopo un anno con quelle due streghe di inglese e M., che è una persona piacevole e affettuosa, sempre malata o convalescente).

Abbiamo il calendario delle prove d’esame, più o meno. Il che ha scaraventato nel panico la III C. Bene, così si concentreranno.
Tutti, tranne la Peste, ahimè. Quello è già partito per le vacanze.

domenica 25 aprile 2010

Guai chi me lo tocca

Le rare volte che ho accompagnato qualcuno al pronto soccorso era sempre qualcuno molto più spaventato di me, e dovevo essere io quella forte e calma.
Le due volte che ci sono finita io, mi sentivo troppo male per avere anche paura.
C’è anche stata una interessante notte in cui Sanguedelmiosangue aveva vomito e febbre a quaranta e mezzo, che non gli scendeva nemmeno a sberle di tachipirina, e contemporaneamente io avevo la bronchite, erano tutti in vacanza e avrebbe dovuto essere agosto, ma alle tre e mezza di mattina faceva lo stesso un freddo porco, nell’atrio del Galliera. Lì chiaramente c’erano ambedue le condizioni per stare calma: c’era qualcuno messo peggio di me a salute e paura, e io mi sentivo di merda.

Ecco. Non avevo mai accompagnato l’Uomo in pronto soccorso e soprattutto non ero mai arrivata all’ospedale così esausta, dopo aver passato 48 ore a convincere qualcuno ad andarci. Non avevo mai dovuto pensare a cosa sarebbe successo se lo avessero ricoverato, in una città dove siamo solo io e lui e non abbiamo lo straccio di un parente, non avevo mai dovuto immaginarmelo steso su un lettino ambulatoriale, non avevo mai creduto di poter avere così tanta paura per un mini-intervento di drenaggio.

Mi ha sensibilmente alzato il livello d’ansia il fatto che, dopo il resoconto di più di una settimana di fastidi irrisolti, fosse stata mia madre, medico specialista, a dirmi che l’Uomo doveva farsi vedere in ospedale e subito, e ancora di più il fatto che mio padre, altro medico con diverse e più numerose specializzazioni, che non ci mette niente a farmi sentire una merda perché non capisco un cazzo di medicina (embè? Sono laureata in Lettere, in fondo!), fosse d’accordo sul fatto di aspettare per ore ed ore un chirurgo disposto a guardare la ferita di Ricky, in un tiepido sabato pomeriggio astigiano.

Ci mettiamo che io sono una fifona impressionabilissima e ogni volta che entro in un ospedale, se posso, lo faccio digiuna da ore per non sentirmi male, e ci mettiamo che l’Uomo continuava a raccontarmi particolari agghiaccianti dei casi arrivati prima che io lo raggiungessi, o mentre io ero a ossigenarmi un attimo nel parcheggio delle ambulanze.
Ci mettiamo che in quattro ore di pronto soccorso vedi parecchie cose che normalmente non ti va di vedere nemmeno in televisione.
Ci mettiamo che comunque ti vengono in mente tutte le leggende sui tizi che sono andati a farsi controllare per una sciocchezza e poi non era per un cazzo una sciocchezza, e quelle sui medici che una volta ogni tot, per normale margine statistico d’errore, invece di curarti ti peggiorano la situazione.

Menomale che ci abbiamo messo, via sms e telefonate, anche un costante supporto psicologico di Cavallino e Sanguedelmiosangue, perché credo di essere arrivata vicinissima a dare di matto dall’angoscia, oggi.

Comunque il punto è un altro. Quando il mio ex, l’Ingegnere, è stato male, io gli ho telefonato e ho chiesto sue notizie, se non a lui agli amici, quotidianamente, ma non sono riuscita ad andare a trovarlo. Era una cosa non seria, ma serissima, tremenda, per fortuna risoltasi poi bene, e io ero assolutamente certa che se lo avessi visto sdraiato in un letto d’ospedale avrei fatto una cosa sola: sarei scoppiata in un pianto dirotto, impossibile da fermare. E non mi pareva il caso. Oltretutto in presenza di sua moglie.

Bene, stasera l’Uomo non era a rischio di vita, né sotto una prognosi allucinante, ma qualcuno doveva usare un bisturi su di lui e io mi sentivo esattamente nello stesso modo. Ero pronta a fare la figura della pazza ansiosa di fronte a qualsiasi medico infermiere o barelliere del piccolo, caldissimo e affollato E.R. di Asti. Sono sicura che avrei potuto piangere fino a liquefarmi la faccia.

Alla fine, dopo un tira e molla notevole (ce ne andiamo perché non lo visitano mai, la sua situazione peggiora, io supplico - lui fa il bastian contrario - io ammutolisco - lui mi dice di smetterla - io ho le lacrime agli occhi - lui cede e torna in ospedale), quando lui è stato visitato e curato io non ero presente. Ero sul divano di casa, apparentemente calma, dopo un pochino di cena, parecchia tisana e molte coccole telefoniche di Sanguedelmiosangue e Cavallino. Quando è tornato (una meno un quarto di notte) gli avevano fatto esattamente quel che si sperava, e con cura, spiegandogli bene come continuare le medicazioni, e in buona sostanza dandomi assolutamente ragione sul fatto che bisognava fare un giro in ospedale e non bastava la guardia medica, anche se in totale ci sono volute quasi otto ore perché lo guardassero e gli dedicassero complessivi minuti venti, tra visita e drenaggio.

Eravamo stanchi, sereni e rassicurati, lui ha mangiato una merendina, bevuto una tisana, preso l’antibiotico e ci siamo infilati in letto.
Dopo due parole scambiate tranquillamente al buio, si è addormentato. E io l’ho ascoltato respirare e di colpo mi sono piegata in due dai crampi allo stomaco: proprio come la volta che ha sfasciato la macchina e sono corsa a Genova alle due di notte, e quando finalmente siamo stati nel nostro pied-à-terre genovese, verificato che non aveva neanche un graffio né un minimo dolore, abbiamo messo le lenzuola nel letto per riposarci qualche ora e io ho avuto una crisi di crampi così forte che per poco non mi ha portato all’ospedale.

Perché alla fine della fiera il punto non è che sono ansiosa, non è che mi sia toccato vedere qualcuno stare male per troppo tempo e sia ancora traumatizzata dopo anni, non è che sono impressionabile. E’ che non esiste che il mio principe, il mio Edward Cullen, il mio highlander, sia sdraiato su un lettino in preda a dolore e sanguinamento come un qualsiasi umano. E’ che se stasera per una qualsiasi belinata avessero deciso di trattenerlo, per farlo magari vedere a un chirurgo domani mattina, io nel giro di una notte avrei escreto sette litri di liquidi in pianto, e domattina mi avrebbero trovata secca come una foglia.

E’ uno stronzo, perché si fa pregare due giorni per andare a farsi vedere, e perché tutta la settimana precedente ho dovuto menargliela con la storia che le infezioni non si sottovalutano, e che l’addome è delicato, e che c’è il peritoneo, e usa la garza sterile, e non ti toccare con le mani sporche, e lasciati stare, e fammi vedere, peggio che star dietro a un bambino di tre anni capriccioso. Ma è il mio Uomo, e guai chi me lo tocca.

sabato 24 aprile 2010

Storie dell’altro mondo - Il seguito

Gli anni passavano. La famiglia assisteva impotente a uno scenario desolante: lei non lavorava, lui non si capiva cosa facesse, la sorella di lui pare tiranneggiasse tutti, la casa non era pronta.

Di proposte di lavoro ne erano state fatte diverse, ma a lui non andava bene niente, men che meno trasferirsi a Genova.
Convinto che la strada migliore fosse il posto statale, lui aveva già chiesto informazioni sulle graduatorie per i bidelli e i tecnici di laboratorio nelle scuole pubbliche. Ovviamente le aveva chieste alla cugina di lei e a suo marito, che insegnavano in Piemonte, dove notoriamente c’è lavoro in quel campo.
La cugina si era prodigata ad offrire tutte le informazioni del caso, di buon animo, contenta di poter aiutare una persona più giovane a sistemarsi.
E lui ne aveva approfittato per farle la domanda che più gli interessava: “Ma se io ho un posto in una scuola e sono in mutua, devo restare nella regione o posso farmi la mutua da un’altra parte?”
Bella domandina da fare a una che da due anni si alzava all’alba per non perdere il treno, pur di fare due punti in graduatoria, guadagnarsi il posto di lavoro statale e, appunto, lavorare.
E soprattutto, bel quadretto: proprio uno stereotipo di quel che molta gente al Nord pensa di quelli del Sud. La cugina, che particolari pregiudizi nordisti non ne aveva, avendo amici e colleghi meridionali che si sbattevano quanto lei, pensò che era proprio vero che certe situazioni non vanno generalizzate, però esistono da qualche parte, non sono leggende.
E smise di sorridergli, o meglio, da quel giorno in poi quando lo fece fu con somma ipocrisia, e con gli occhi parecchio freddi.

Non che a lui desse fastidio fare certe figure. L’importante era che i genitori di lei non chiudessero i cordoni della borsa e continuassero a “mandare giù qualcosa per contribuire”. Tipo un appartamento, le infinite ristrutturazioni dello stesso e, già che ci siamo, anche le vacanze in montagna tutti insieme.

Lo zio, che per primo aveva visto la piega che la situazione avrebbe preso, aveva persino smosso la sua britannica flemma e la sua proverbiale capacità di farsi i cazzi propri per avvisare il cognato che non si facesse fregare.
Ma essendo molto british, non aveva insistito e sull’argomento aveva aperto bocca una volta sola. Inutilmente, è ovvio.
La zia, che aveva rilevato l’altra metà dell’appartamento dei nonni, fornendo così a sua sorella la liquidità necessaria a comprare la famosa casa per lui e lei, aveva scarsa idea di come funzionassero le cose “fuori”, nel mondo del lavoro e dei soldi, avendo per sua fortuna vissuto col culo nella bambagia fin da piccola, e poiché era una donna generosa e di buon cuore continuava a sorridere sinceramente e a essere contenta di vedere sia lei che lui.

Poi un mattino verso le otto e mezza avvenne un fatto. La nonna, inferma da molti anni, morì. E per quanto fosse stata una discreta strega, quando era giovane e sana, e avesse avuto un sacco di difetti, tutti ci rimasero davvero male.
Il funerale della nonna fu l’ultima occasione in cui la famiglia si ritrovò al gran completo. Al Sacro Cuore non c’era più un banco libero, anche perché molti parenti lontani e amici di famiglia, pur non vedendola da anni, serbavano ancora il ricordo di quella donna molto bella, intelligente e un po’ stronza e di suo marito, che era stato uno stimatissimo medico.

Lui e lei erano arrivati in tempo per le esequie, e si fermarono per diversi giorni.
La settimana successiva (era l’Epifania, ma a Genova c’era un bellissimo sole) la di lei cugina passeggiava per Corso Italia con sua madre, che era decisamente affranta. Nel parlare di varie cose di famiglia, la madre disse: “Ma lo sai che la P. (madre di lei) mi ha chiamato ieri e mi ha detto che si è informata da P. (un parente, noto chirurgo oculistico) di quanto può costare l’operazione per la miopia? Anzi, a essere precisi ha provato a chiedergli se era una cosa che si poteva fare così, in amicizia, come le visite di controllo che ci fa, che non si fa pagare perché siamo cugini e poi gli mandiamo lo champagne a Natale! E lo sai per chi lo chiedeva? Perché lui, lei e il fratello di lui vorrebbero farsi operare!!! Capisci: sei occhi!!! Io non so con che faccia glielo abbia chiesto… Comunque P. ovviamente le ha detto che i costi di assistenza, anestesia, sala operatoria etc non glieli può mica abbuonare!!!”
La cugina avrebbe potuto sghignazzare per la sfacciataggine dei tre giovani, per quella della zia o per il fatto (forse ancora più esilarante) che la motivazione fosse quella di poter fare il concorso nei vigili del fuoco: figuriamoci, lui, che andava a fare le camminate in montagna coi mocassini e poi si incazzava con gli altri se prendeva delle culate in terra.
Invece lo spirito della nonna le soffiò distintamente una frase nell’orecchio e, con lo sguardo fisso, la cugina esalò: “Cazzo… questa è l’eredità della nonna!”
La madre non capì: “In che senso?”
“Mamma, ma non te ne rendi conto? A loro non frega se l’operazione è da pagare o meno, perché hanno fatto il ragionamento che ora la nonna ha lasciato dei soldi, quindi è il momento buono per chiedere! Se anche è da pagare, chi credi che ce li metta i soldi? Tre ragazzi praticamente disoccupati?”
La madre della cugina non se la sentiva di capire e sbarrava i suoi bellissimi occhi azzurri, sperando di avere una figlia malpensante: “Tu dici?”
La cugina invece era senza fiato: “Mamma, santo Dio, la nonna è praticamente ancora calda!”

Si tornò a lavorare, dopo le feste. Lui e lei dovevano partire e chiesero alla zia, unica in quel momento ad essere a Genova con la macchina, di accompagnarli all’appuntamento con l’amico che li portava giù. Ma lo chiesero per un’ora del giorno in cui la zia non poteva traversare tutta la città per portarli, quindi propose di accompagnarli prima e lasciarli là. Lui brontolò.
Caricarono nella macchina della zia una quantità di scatoloni, provenienti dal Piemonte dove il fratello di lui aveva trovato lavoro in una scuola, come supplente tecnico di laboratorio, e contenenti, a loro dire, vestiti. Il fratello di lei da tempo sosteneva che i vestiti non pesano come macigni, e la cugina riteneva che dentro le scatole, vista la loro strana maniera di spostarsi per l’Italia con “amici camionisti” di varie ditte di consegna pacchi, ci fossero delle cosine non proprio acquistate legalmente: pezzi di computer, con buona probabilità. Ma guai a chiedere qualcosa, lui si infuriava, lei stava zitta e per quieto vivere i genitori di lei pensavano fosse meglio fidarsi. La cugina, nota genovese diffidente, era una che di suo avrebbe aperto “per sbaglio” uno degli scatoloni, ma non vivendo con loro le riusciva difficile la manovra.
Insomma, la zia li portò al luogo dell’appuntamento, con lui che teneva il muso perché era l’ora sbagliata, e tutti gli scatoloni nel bagagliaio. Il camionista amico non c’era. Lui era nervoso e arrabbiato e decise che dovevano tornare indietro. La zia li riaccompagnò. Riscaricarono gli scatoloni. La zia andò a casa sua e ebbe l’idea di raccontare alla cugina per telefono cos’era successo.

La cugina finì la telefonata con sua madre, appoggiò delicatamente la cornetta, la rialzò e chiamò lui. Gli urlò per venti minuti esatti, e si capiva benissimo dal tono che lui doveva ringraziare Dio di essere a cento chilometri di distanza, un discorso che aveva tutta l’aria di essere una dchiarazione di guerra, alcune frasi del quale suonarono testualmente così:
“Tu NON carichi nella macchina di MIA madre cose che NON SI SA COSA SIANO per farti SERVIRE e portare dove cazzo ti pare, oltretutto lamentandoti. Tu NON PUOI saltare fuori con l’operazione agli occhi quando non abbiamo ancora finito di seppellire mia nonna e pretendere che io non capisca COME MAI ti viene in mente di parlarne proprio adesso. Tu NON ci dici che lavoro fai, NON rispondi a nessuna domanda sulla tua vita, NON si sa come cazzo fai a mangiare e con che cazzo pensi di mantenere mia cugina in futuro, e se questo sta bene a mia cugina e ai miei zii d’accordo, MA NON TI AVVICINARE MAI PIU’ A MIA MADRE, A MIO PADRE, A ME O A MIO MARITO, perché io ho capito BENISSIMO che gioco stai facendo e se tocchi un’altra volta uno qualsiasi di noi TI ROVINO, vedi di capirlo alla prima perché non te lo dirò una seconda volta, MI SONO SPIEGATA???”
Quando la cugina sbattè giù il telefono e si girò, suo marito era immobile dietro di lei, bianco come uno straccio e con il fiato sospeso: la cugina era un tipo abbastanza impulsivo e non le mandava a dire praticamente mai, ma una simile ferocia non gliela si conosceva fino a quel momento. La cugina girò sui tacchi e andò a preparare la cena, ripensando alle parole che aveva detto e sentendosi perfettamente sicura di aver espresso esattamente quel che era il caso di dire, a scanso di futuri equivoci. L’applauso della nonna, che in vita stronza sì, ma stupida non lo era mai stata, si sentiva distintamente dall’oltretomba.

A casa di lei, invece, scoppiò il putiferio. Lui urlò, si vittimizzò, se la prese con lei, ingiunse ai genitori di lei di pretendere delle scuse, fece affermazioni sulla salute mentale della cugina, smise di mangiare e fu inavvicinabile per settantadue ore, il ritratto dell’innocente oltraggiato. La madre di lei, di nascosto da tutti, telefonò alla cugina per dirle che aveva fatto bene, che anche loro non ne potevano più di vederlo eludere le domande.

Ma credete che sia servito a qualcosa? Che abbia per esempio aperto la strada al fargli presente che da parte di un genitore è normale voler sapere che lavoro fa il fidanzato della figlia, che progetti ha, eccetera? Macchè.
Lui si chiuse in un broncio ieratico da divinità irata e,quando qualcuno provava a farlo ragionare, si faceva forte degli insulti ricevuti dalla cugina per chiedere, con tono ferito e offeso, se anche loro pensavano che lui fosse un ladro o un disonesto. Ma intanto la cugina, informata da madre e fratello di lei che ancora le rivolgevano la parola, notava due cose: primo, che lui continuava a non chiarire che cazzo di mestiere facesse e che ci fosse nelle scatole. Secondo, che faceva la voce grossa con lei e i genitori di lei, ma si guardava bene dal ritelefonare alla cugina per farsi le sue ragioni, insultarla o altro, il che faceva di lui oltretutto un senzapalle, cioè proprio quel genere di uomo che alla cugina dà particolare soddisfazione stritolare sotto i propri tacchi di femminista.

Finì che il padre di lei, due giorni dopo a pranzo, alzò la voce e gli disse di piantarla di tenere il muso, e di rimettersi a mangiare, che erano stufi di quel clima pesante a tavola.
Di miopia e operazioni non si parlò più. Lo zio, la cugina e suo marito non si sentirono più in dovere di avere il minimo rapporto, sia pure di assoluta formalità, con lui. Solo la zia continuò a vederlo quando veniva a Genova, a fare il regalo a Natale e a sperare che le cose si aggiustassero.
Dal momento che i genitori di lei non avevano colto la palla al balzo, pian piano sulla scenata della cugina scese l’ombra e diventò implicito che fosse l’effetto di un orrendo pregiudizio nei confronti di lui, o di un serio disturbo mentale della cugina stessa. Ma favori non ne furono più chiesti a nessuno che fosse intimamente legato a cotanta strega.

Se state sperando che sia l’ultima puntata, vi sbagliate.

Ma sono stanca, nervosa e mi è venuta la tachicardia diverse volte mentre scrivevo questa parte.

venerdì 23 aprile 2010

Non si può descrivere

Sei sceso per le scale del professionale, camminando tutto storto come tuo solito.
Hai mormorato con quel tuo modo di non aprire quasi i denti parlando:
"Buongiorno... m'han detto che c'era e ho detto sà, vado giù a dare un bacetto"
Ci siam sfiorati un attimo le guance, ti sei piazzato sullo stipite di una porta con le braccia incrociate e quel gesto di coprirti le spalle con le mani che mi ricordo così bene, Madonna quanto sei magro, Giovane Lupo, ora che sei più alto di me fai impressione.
Mi hai detto che te ne andrai all'accademia militare a Milano, l'anno prossimo.
Mi hai detto che questa scuola dove ti hanno messo i tuoi (sforzo congiunto con l'assistente sociale e con me) non fa poi schifo.
Hai nicchiato sugli amici e hai fatto un sorriso stortissimo, contorcendoti su un lato, quando ti ho chiesto delle ragazze.
Mi hai detto che sei stato sospeso, mi hai spiegato perchè.
Mi hai detto che hai tre materie sotto, matematica diritto economia, e io mi sono illuminata: di Italiano e Storia hai detto infatti di avere sei e sette.

Mi hai rivolto la parola e detto di te quasi più in questi dieci minuti che nei tre anni precedenti, se togliamo la volta in cui abbiamo parlato di tuo fratello e quella in cui ti ho portato in presidenza urlando e ho perso quasi un'ora a cercare di insegnarti la buona educazione insieme alla preside.

Ti ho detto che all'accademia militare dovrai obbedire e non fare di testa tua. Ti ho detto che sarai molto carino con la divisa (altro contorcimento laterale sullo stipite, ridacchiando). E ti ho stretto una spalla: "Ciao, Giovane Lupo, continua bene".

Mi sono girata. Non c'era più traccia nè dei miei alunni, nè di quelli che stavo sorvegliando per la collega che era andata nell'altra metà dell'edificio, dove c'è il liceo classico.

Cazzo. Mi ero persa dei dodicenni in una superiore gigantesca, all'ora dell'intervallo. E' seguito un quarto d'ora di angoscia, cammuffata da un tono sereno e consapevole: "mi scusi, signora collaboratrice scolastica, ha per caso visto passare dei ragazzini delle medie?"

Ma ragazzi. Ho lavorato tre anni per mandarti in una scuola come questa, invece che a sfasciare sedie in quell'altra. E vederti sorridere.

mercoledì 21 aprile 2010

Storie dell'altro mondo

Vi racconto una storia.

Poi mi dite.

Lei non era mai stata brava a scuola, era imbranata per tanti aspetti, faticava a trovare lavoro. Viveva coi suoi genitori e il fratello piccolo, aveva molte amiche e tantissime corrispondenti con cui intratteneva un fitto scambio.

Poi arrivò Internet. E, tramite una chat, un fidanzato. Che veniva dal Sud e che, pochi mesi dopo essere comparso, se la portò lontano.

Nell’estate precedente la sua sparizione, lei era stata in vacanza in montagna con il fidanzato, i genitori e il fratello. Nella stessa località c’erano gli zii, la cugina e un po’ di amici.
Tutte queste persone notarono che lei non apriva più bocca, sorrideva poco e aveva spesso gli occhiali scuri.
Da qualche sfogo dei suoi genitori si seppe che lui era decisamente un rompipalle per quanto riguardava la vita quotidiana: bisognava cucinargli vegetariano, e okay, ma anche non disturbarlo quando mangiava, non chiedergli di fare un minimo lavoretto come sciacquare due piatti o metter su una pasta, lasciarlo dormire al pomeriggio, e soprattutto non criticarlo mai, su niente.
Si seppe anche che faceva a lei delle sceneggiate urlando quando qualcosa non gli andava bene.

Non faceva questa bellissima impressione, insomma.

Pensammo tutti che erano tanto giovani. Niente di male se non si azzecca l’uomo della vita al primo giro. Pazienza, bastava aspettare.

Se la portò via. Andarono a vivere in un gradevole paesino del Sud, alle spalle di Salerno, coi genitori di lui, la sorella di lui, il fratello di lui e un certo numero di cani gatti criceti conigli.
Lei non trovò lavoro, anzi quasi certamente smise di cercarlo.
Ma anche lui aveva un lavoro misterioso di “riparazione computer”. Che era un lavoro dal quale poteva assentarsi per mesi, quando decidevano loro di venire a trovare i genitori di lei, ma che non gli permetteva di muoversi, quando gli si chiedeva di venire su.

Parlavano di sposarsi, e dissero che “da loro è usanza” che la casa la comprino i genitori della sposa e i mobili i genitori dello sposo.
Ebbero anche i regali di nozze in anticipo, per esempio la batteria di pentole da svariate centinaia di euro che avevano chiesto.

Poi però la casa non era mai pronta. Prima c’era da aspettare un condono, poi da rifare la facciata, poi gli operai avevano danneggiato il muro e partiva una causa di risarcimento, poi non si poteva ancora fare il bagno perché si aspettavano certi permessi dal Comune. Infine, c’era il tetto da rifasciare, ma la vicina di sotto non voleva lasciar montare i ponteggi e partiva un’altra causa.

Passarono così sette anni, nel corso dei quali lei non venne MAI da sola a trovare i suoi, nemmeno quando fu operata sua madre, nemmeno quando morirono dei parenti: arrivavano insieme e se ne andavano insieme, lei non rivolgeva quasi parola a nessuno, per i primi due anni, poi si sbloccò e ridiventò sorridente e chiacchierina, ma non rispondeva mai a nessuna domanda diretta su di lui, sul lavoro che lui faceva, sulle sue prospettive o i suoi programmi per il futuro.

Questo però era niente in confronto alle scenate isteriche che faceva lui se provavi a insistere un tantino con le domande. Era arrivato a tenere bronci di diversi giorni che penalizzavano lei e tutti gli altri rendendo l’aria irrespirabile.

Di sicuro si sapevano solo tre cose: nella casa non ci abitavano. Non si erano sposati. E lui aveva cambiato lavoro, ma non si sapeva cosa facesse, comunque era sempre un lavoro che poteva mollare per settimane per venire a dettare legge in casa dei non-ancora-suoceri.

Sentite. Vi canto solo la mezza messa perché se ve la raccontassi tutta di fila poi non dormirei.

Ci sarebbero altri particolari da dire, per esempio sulla di lui famiglia, o sullo scontro all’ultimo sangue innescato dalla di lei cugina, il giorno in cui lui aveva provato a toccarle la mamma perché gli serviva un favore che, naturalmente, doveva essergli fornito senza che nessuno chiedesse niente.

Fin qui che effetto fa, a uno che non l’ha mai sentita raccontare?

lunedì 19 aprile 2010

Mine vaganti

Ci sono quei film, che non solo piacciono, ma segnano un periodo della tua vita o addirittura un’epoca. Che so: “Come eravamo”. “L’attimo fuggente”. “Harry ti presento Sally”. “Sliding doors”. “Casomai”. E sì, anche “Twilight”.

E ci sono alcuni film (alcuni di questi, ma anche altri) che danno inizio al vortice.

Bene. Ho visto “Mine vaganti” settimane fa con la Diavolessa, l’Uomo e Sanguedelmiosangue. Gli effetti del vortice, su di alcuni di noi e su altri che conosciamo che lo hanno visto, si devono ancora fermare, anzi in certi casi stanno aumentando per entropia in modo incontrollato.

Gran film, “Mine vaganti”, anche se i singhiozzi disperati che mi ha strappato “La finestra di fronte” non hanno eguali. E comunque questo film non ti fa solo commuovere, ti fa soprattutto sorridere, pensare, incazzarti, ridiscutere.
Grandissimo Ferzan.

Giro con la colonna sonora a palla in macchina, e ci penso spesso, ai personaggi del film con i loro segreti e le loro frustrazioni, i loro cambiamenti e le loro speranze.

E penso alle mine vaganti che conosco, da chi a tredici anni ha dichiarato che non voleva più mentire, a chi a quasi trenta ha tagliato del tutto con una vita finta per infilarsi in una vita vera, da chi ha avuto il telefono sbattuto in faccia da sua madre che gridava “Puttana”, a chi ha detto “Al mio lavoro non rinuncerò mai”, insomma, a tutti quelli che non hanno abbassato la testa, non hanno seguito le altrui aspettative, hanno ingoiato merda e ancora la ingoiano, ma la sera mettono la testa sul cuscino pensando una cosa tipo “La vita fa schifo, ma è la MIA vita”.
A Scamarcio che nel film trova se stesso, e se stesso è quel che lui ancora non ha fatto ma vuole fare, che sceglie quel che vuole veramente difendere, quel che gli serve davvero che gli altri capiscano di lui.
A gente che è derisa, picchiata o emarginata perché è se stessa. E ad altra gente che cova rancori sordi perché è quello che gli altri volevano.
A quelli che non sanno cosa sono.
A quelli che non sanno cosa sono ma cercano di dimostrare agli altri che hanno capito tutto della vita.
A quelli che non scelgono mai, alle facce dei miei alunni quando hanno capito perché gli ignavi facevano schifo a uno come Dante, al punto da metterli fuori dall’inferno perché non meritano nemmeno l’attenzione che si dà ai peccatori.
A chi si domanda se la supplenza gliela pagheranno, a chi la fa senza segnarla e a chi sostiene che se accettiamo di fare ore e ore gratis facciamo lo sporco gioco della Gelmini e togliamo lavoro ai supplenti.
A chi si sveglia la mattina e si dipinge la faccia coi colori della guerra, e a chi si dipinge coi colori della pace. E a chi non si dipinge proprio e non ingentilisce gli spigoli, perchè non è una fottuta pianta carnivora che si finge un fiore.
A chi è detonato e non è più pericoloso, a chi ha il meccanismo a orologeria attivato e a chi è al di là dell'esplosione e la controlla, ma non per questo è fermo.
A chi ha nel cuore mille viaggi e mille popoli, anche se non si sposta mai dalla solita strada. E a chi non vede niente altro che il proprio naso, anche quando gira mezzo mondo.
Alle vite abortite. A quelle che cercano di vivere più esistenze contemporaneamente. Alle formiche che lente, lentissime, ma costanti, spostano l'intero granaio.

Tutti siamo mine vaganti, alla fine, ma c'è chi ne fa un dono per gli altri, chi ne fa invece una cancrena.

Sono tornati!!!

Uh cavolo, mi rendo conto che mi sono mancati veramente tanto!
E che sono abbastanza contenti di riprendere.
Menomale, con tutto quel che dobbiamo fare adesso.

Il ricongiungimento con la mia seconda è sempre affettuoso, anche dopo un normale weekend, ma oggi la sorpresa è stata la terza.

Un gruppetto di ragazzine di III C si è fatto vivo con un pacchettino dorato contenente un delizioso collarino di stelline nere per me. Ci sono andata in giro tutto il giorno come con una medaglia, ero commossa.

Lo Straniero, mi dice la collega L., si era messo da parte i soldi dalla paghetta della comunità e da quello che gli passa il fratello per partecipare, ed è stato attentissimo, si beveva tutto quel che c’era da sapere sulle chiese barocche, le città, i templi. Questo, a 15 anni, si è fatto praticamente il giro del Mediterraneo, pensavo, ma quanta differenza tra il suo viaggio da solo in nave e camion da Marrakech a Marsiglia, durato quasi sei giorni, nascondendosi dalla polizia, e questa breve vacanza, passata dormendo in albergo e andando in piscina e a ballare con gli amici, sotto l’occhio attento dei miei colleghi.
Lo so che lui non vede l’ora di andare a stare da suo fratello a Torino, ma penso che quest’anno passato a Paesino di Sogno, sia pure in casa famiglia, gli lascerà anche dei bei ricordi.

I ragazzi rimasti qua hanno presentato contenti agli altri il lavoro svolto in questi giorni, consistente soprattutto in una proficua ricerca e scelta critica di materiale per il cartellone di Storia, e hanno mostrato le foto dei vari argomenti ai compagni. Pezzo di Figliola è venuta da me con in mano la foto dell’autostrada tra Punta Raisi e Palermo, sventrata dall’esplosivo dopo l’attentato a Falcone, dicendomi tutta emozionata che loro ci sono passati proprio vicino.

Abbiamo letto “Rosso Malpelo”, a proposito di Sicilia. Sono stati bravi, hanno seguito abbastanza bene.

Siamo d’accordo che domani posso fare qualche domanda di Storia. E quasi metà classe è riuscita a consegnarmi la seconda ricerca puntualmente.

Non mi lamento, quindi, anzi ho passato la giornata a pensare che questo lavoro è pieno di sorprese: proprio quelli che non sai di avere in qualche modo conquistato ti si svelano con gesti inaspettati. E’ la prima volta che qualcuno mi porta un regalo dalla gita. E va a capitarmi proprio con la mia classe-nemesi.
C’è luce in fondo al tunnel, allora.

sabato 17 aprile 2010

Questione di karma

Stamattina era l’ultimo giorno lavorativo di questa strana settimana, con tredici alunni su una classe, sei (mai presenti tutti e sei) sull’altra, pezzi di altre classi sparpagliate per le aule, la cucina in piena attività con un profumo di torte, pizza, crepes e biscotti da resuscitare i morti, un pallido sole fuori, molti tornei in palestra.
Nel corso di questa settimana abbiamo fatto quiz a squadre, test psicologici, giochi di carte, qualche breve esercizio, interrogazioni solo di volontari o a domandine, e molti giri a perdere per i corridoi. Ma la II B, nella persona di Punta di Diamante, insisteva per uscire a camminare, sebbene io facessi notare che con 3 gradi centigradi non si sta tanto bene fuori. Tuttavia a forza di insistere hanno individuato un’ora che non fosse la prima o la seconda della mattinata e in cui non avessimo ospiti di altre classi, e così oggi alle dieci me li son portati fin dai cavalli, su una strada di campagna dietro la scuola.
Penso che non crescerà più l’erba dopo il nostro passaggio, ma senza dubbio ci siamo rilassati. Peraltro, andando i ragazzi trovano una cosa interessantissima a bordo strada: un gatto morto. Ci metto un po’ a convincerli che nella vita c’è di meglio, e a farli proseguire.
Solo che, sul ritorno, naturalmente, quando io dico “Non avvicinatevi a quel povero gat…” loro sono già tutti intorno al caro estinto. E un paio urlano: “Prooooof!!!! ma non è morto, si muove!!!”
Quindi sei anni di università e due di specializzazione, più otto di lavoro, mi portano al bordo di una strada, china a cercare di stabilire se gli scatti delle zampe di un gattone tigrato siano quel che si può definire un residuo di attività galvanica, o invece spasmi di agonia. Mi sento molto infelice e un po’ cretina, ma in effetti la povera bestia, debolmente, respira.
“Noooo prof, portiamolo via! Salviamolo!!! Dobbiamo fare qualcosa!!!”
Un pezzo di me si rende conto che, non fossi contornata da tredici ragazzini, starei togliendomi la maglia per avvolgerci dentro il gatto e portarlo dal più vicino veterinario. Ma ho ancora tre ore di lezione da fare, non posso mettere in una macchina che si sta scaldando sotto il sole un gatto morente, e se mi sanguina addosso poi come la metto?
Risultato: all’arrivo a scuola perdo di vista i bambini, che si fiondano in cucina, investendo la collega F. con l’assoluta necessità di una missione di salvataggio, e la collega, con le mani nei dadini di mozzarella della pizza, si impanica:
“Oh Segnùr! Io ho qua la I B, c’è la pizza da mettere in forno, come faccio? Puoi guardarmeli tu che io vado? Povera bestia, chiamate il veterinario di Piccola Svizzera, presto!!!”
Per fortuna io ho scatenato le due bidelle animaliste della scuola, che sono partite alla ricerca del moribondo. Ci metto quasi mezz’ora a recuperare e far sedere in classe tutti i ragazzi di seconda, che sono in parte a chiamare la collega in cucina, in parte a organizzare i soccorsi con le bidelle, in parte (Cuba e Terremoto) a fare gli auguri di compleanno alla prof di inglese, con un mazzolino di fiori di campo e la frase, urlata:
“Auguriproftenga, abbiamotrovatoungattomorto solochenoneramorto,
maoraandiamoasalvarloconlaF.!”
Le ultime due ore le passo con la terza C. Interrogo Occhi d’Arabia di Geografia, poi anche con loro usciamo, facciamo un lungo giro sulla collina di fronte alla scuola, e al ritorno, con in mano tè freddo e caramelle comprate al negozietto sulla strada, veniamo interpellati sul vialetto della scuola dalla collega di inglese della B, inferocita, che sta andando via in macchina e butta giù il finestrino per dirmi:
“Avevi anche la II C, eh?”
Risposta mia: “Ma no!”
“Oh, sì, c’era scritto sul registro delle supplenze!”
“Ma l’ho controllato stamattina, se poi le cambiano e non me lo dicono!”
“Eh, comunque ce l’avevi, mi sono fermata io“ e riparte senza salutare.
Entro a scuola e verifico: sul registro delle supplenze, che ieri la preside ha pasticciato a matita sotto i miei occhi, c’è una freccia che riguarda la III C, non la seconda, e si riferisce a ieri, non a oggi. Io lo sapevo, ma capisco che a leggerlo così si possa fare confusione: in effetti in questi giorni senza il Gigante e la BN abbiamo avuto qualche problema, le bidelle assegnavano le ore a simpatia, tra colleghi ce le cambiavamo a voce, poi è intervenuta la C. (dicesi preside) che ha avuto lo stesso effetto del vigile tra corso Buenos Aires e viale Brigate Partigiane a Genova, quello che finisce di peggiorare l’ingorgo di macchine.
Interpello le bidelle che sapevano che la situazione era come la dicevo io, poi sopraggiunge la collega Troll, la quale esclama:
“Ma sì… non ti preoccupare, alla fine non l’ha nemmeno tenuta lei la II C, l’ho tenuta io!”
L’altra di inglese:
“Eh, certo però che la collega era incazzata!”
Il Troll, alzando gli occhi al cielo:
“Ma perché era preoccupata che non le pagassero l’ora! Continuava a dire: ma me la pagano come supplenza?”
Mi infilo in bagno, sentendomi a disagio e infastidita. Penso che mi toccherà spiegare la situazione alla collega che mi guarderà con aria di sufficienza e fastidio clamorosi. Penso che ambedue le colleghe di inglese sono simpatiche come pestare una cacca e che io ce le ho tutte e due nei miei due consigli di classe. Sospiro.
Poi vado a prendere le mie cose in classe e incontro la bidella Greenpeace:
“Ho preso il gatto e l’ho portato a Asti, dal mio veterinario: ha detto che era avvelenato, ma che probabilmente ce la fa, gli ha fatto un’iniezione e l’ha messo al buio, dice che tra due giorni dovrebbe essere guarito.”
Sta uscendo la II B:
“Ha visto prof, l’abbiamo salvato!!!”

A casa, di fronte a un pranzetto cinese da asporto con Sanguedelmiosangue e l’Uomo, racconto la mattinata e mi sento dire:
“E adesso la collega sarà sicuramente pronta ad appoggiare tutte le tue iniziative!”
Ma io ci penso e concludo:
“Beh noi abbiamo salvato la vita a un animale e fatto due belle passeggiate al sole, mentre lei è andata via incazzata e preoccupata dei soldi… vuoi mettere il mio karma rispetto al suo?”

mercoledì 14 aprile 2010

Un giorno e mezzo in Tibet, parte terza

Terza parte - I buddhisti e l’altra guancia

Dopo le tre e mezza ricomincia la lezione, nel frattempo è arrivata altra gente, presto però facciamo una pausa e ci ritroviamo in cucina a farci il terzo o quarto tè della giornata e a mangiare i resti della pantagruelica torta portata da una delle signore. Parlando, emerge che cinque delle persone presenti tra cui io sono insegnanti, e quel che si dice della Gelmini è assai poco buddhista. C’è una bionda di mezza età che è inferocita col governo e i tagli, c’è un ragazzo di Cuneo che insegna alle superiori e mi fa una miniinterrogazione sulle rivoluzione agricola dell’anno Mille (cazzo è, vuoi vedere se la so? Eccoti servito), c’è una ex prof di Arte (quella che ha fatto la torta) e una ex prof di Tecnica (che prendeva appunti ordinatissimi accucciata sul tappetino vicino al mio, tanto che avevo quasi indovinato, ma credevo insegnasse Matematica).
Quando andiamo di nuovo nel gompa e il lama spiega la terza perfezione, la pazienza, sul fatto che dobbiamo avere amore e compassione per chi ci mette in difficoltà, perché ci fornisce l’occasione di esercitare la pazienza, c’è uno sbuffo di risate trattenute, dopo ci confessiamo che, almeno noi insegnanti, abbiamo pensato tutti in coro a Berlusconi.
Peraltro alla fine della lezione, nello spazio per le domande, si parla di rispondere con la pace all’oppressione e alla violenza e vengono trattati i seguenti temi:
- Porgere l’altra guancia sempre? Ma no dai, e se devo difendere qualcuno? Se devo salvare un bambino? Se mi attaccano? Esiste la legittima difesa per i buddhisti? - chiedono un uomo e la prof di Tecnica.
- Ma allora se uno fosse un macellaio, o un poliziotto? Potrebbe usare le armi? Qualcuno che fa il lavoro sporco, per esempio appunto macellare gli animali, ci deve essere? E come si concilia con il portare tutte le anime alla liberazione? - chiede un altro uomo, seguito a ruota da una donna.
- ma come si fa a subire sempre? Essere buddhisti vuol dire accettare qualunque cosa? E certo che noi possiamo dirlo perché viviamo in (uno straccio di/quel che resta di una) democrazia, ma se avessimo una dittatura? - si accalora la prof di Lettere bionda.
- E no, ma io sono un’attivista Greenpeace, per me, quando facciamo le azioni per fermare chi ammazza gli animali, l’altro è il Nemico!!! - imperversa un’altra, ex bellissima di mezz’età coi capelli sciolti.
Io, stranamente, di fronte a tanto fervore mi mantengo sul calmo, e ricordo che esistono forme di protesta non violenta (hasta siempre, Mahatma Gandhi) e che votare, fare politica, insegnare dei valori e parlare con gli altri sono già mezzi per cambiare le cose. Poi, odiare un pochino Berlusconi non credo danneggi il mio karma, mi sembra normale… I praticanti rimasti in sala, un gruppetto di facinorosi, annuiscono vigorosamente.

Ma soprattutto prendo nota che per la prima volta, direi da sempre, sento della gente che parla non solo di avanzi di democrazia, non solo di potenziale dittatura, non solo di resistenza (parola che nell‘ambiente degli educatori si sente sempre più spesso, in questi tempi di diseducazione massiva), ma addirittura di rivoluzione, nel più marxista, castrista, guevarista e sessantottino senso del termine.
Torno a casa, lo racconto e penso: minchia! E pensare che alcuni miei amici parenti e conoscenti pensano che sia IO quella di sinistra, quella arrabbiata, quella trinariciuta che mangia i bambini!!!

Però mi viene un brivido al pensiero che, di questo passo, è già tanto che una minoranza religiosa sopravviva nel Paese di Eminenz e degli altri baciapile, se scoprono che in un tranquillo paesino di quasi montagna siamo partiti dalla pazienza del bodhisattva per arrivare a questo genere di discorsi, come minimo ci epurano domani all’alba.
Conosco gente che, dopo aver letto questo post tutte le volte che dirò “Tibet” o “buddhisti”, capirà “comunisti”, “anarchici” e “fanatici rivoluzionari” e alzerà un chiarissimo sopracciglio. Va beh, a questi applicherò la pazienza del bodhisattva, se mi riesce. Ma non è chiamare le cose col loro nome.
Che invece riuscire a vincere senza violenza sia rivoluzionario, questo secondo il mio parere è chiamare le cose col nome giusto, ma non è certo Gautama Siddharta che se l’è inventato, è semplicemente vero, l’ha detto anche Gesù e Dio solo sa quanti mercanti, oggi, caccerebbe dal tempio perché non se lo ricordano.

martedì 13 aprile 2010

Ansie e fotogrammi

Ansie

Ci sono i colloqui con le famiglie tra 10 giorni.

Io sono una che ai colloqui ci sta volentieri.

Mi alzo per ricevere ogni singolo genitore, mi intrattengo coi fratelli piccoli che vengono portati a rimorchio, mi accaloro, stringo mani, dò simboliche e a volte fisiche pacche sulle spalle, offro caffè.

Talvolta vengo premiata da mamme o papà particolarmente gentili e simpatici, da qualche soddisfazione professionale tipo “la bambina è tanto contenta di lavorare con lei” o “il mio da quando fa gli schemi di storia dice che impara meglio”, più spesso devo trovare le parole per dire cose sgradevoli, antipatiche o faticose, e a volte, come una stella cadente, si affaccia qualche ex alunno, al quale purtroppo faccio in tempo a dare appena un bacino e venti secondi di attenzione, perché ho 40 persone in attesa. L’ultima volta era Bel Ragazzo, vistoso quindicenne che, dimostrando pacificamente 20 anni e nel fisico e nell‘abbigliamento, ha parecchio incuriosito le mamme in fila fuori dalla mia porta, ne ho intraviste due con gli occhi così: @.@ (eheheh, qualche privilegio lo vorremo pure concedere a una prof di lettere che l’anno scorso c’ha messo l’anima, o no?)

Dentro di me si è ormai scatenata la sardana tipica dei giorni immediatamente precedenti al colloquio:

Non finirò mai in tempo di correggere le prove.
Scopriranno che ho perso dei pezzi.
Alcuni di questi bambini devo ancora sentirli praticamente di tutto.
Si accorgeranno che il mio registro è l’equivalente cartaceo di un disastro ferroviario con parecchi vagoni coinvolti.
Capiranno che non so da che parte girare la III C e che per portarli all’esame mi ci vorrebbero almeno altri 4 mesi.
Si renderanno conto che ho gestito la questione educazione sessuale in II B coi piedi, perché mi è stata scaraventata addosso nel peggiore dei modi, e mi denunceranno a Sua Eminenza Tarcisio Bertone; a nulla mi varrà dire che tra i miei prof del catechismo c’è stato il cardinale Bagnasco, anzi sarà considerato aggravante.
Mi chiederanno che ne è del progetto della TAV e scoppierò in pianto confessando che non trovo il tempo non solo per finirlo, ma neppure per cominciarlo.


Alcuni scatti qua e là per la scuola

Più di metà scuola è via per la gita in Sicilia.
L’assenza del Gigante mi fa sentire spaurita, ma almeno non si sentono i tacchi della BN che imperversano in tutti e tre i corridoi.

Ho messo la seconda a studiare una pagina di appunti dettati sull’assolutismo dei re di Francia e ho dato dieci minuti di tempo. Dopo 3 minuti e 19 secondi Punta di Diamante me l’ha ripetuta tutta senza sbagliare niente.
Aaahh!, da leggersi col tono che si usa per fare aaahh! dopo aver bevuto una cosa fresca e deliziosa a piena gola. Paradisiaco.

F. ha riaperto il giardino e il laboratorio di cucina, oggi con la I B ha fatto le crepes, dei dolcetti al cocco, buoni da rotolarsi per terra dalla felicità, e le lingue di gatto.

L’Inflessibile è intrattabile, ho provato a sondare il terreno e anche a chiedere scusa se ho sbagliato qualcosa senza accorgermene, ma mi ha chiuso in faccia tutte le porte, immagino siano casini familiari. Movie Man con gli impegni di lavoro esagera, coi due figli è poco presente e purtroppo l’Uomo non può fare tutto da solo al cinecircolo.

Ieri in terza erano in 4, Occhi d’Arabia, Birba, Caciarone e Testa di Ricci: ho dato loro le carte per giocare a Uno. Birba non ci aveva mai giocato e gli altri gli hanno spiegato il gioco a pezzi, urlando e contraddicendosi l’uno con l’altro. Lui ha mescolato le carte con la mano ingessata e ha vinto le prime due partite. Tiè.

Oggi invece erano in cinque, abbiamo cercato sul web le foto per fare il cartellone della linea del tempo con gli argomenti delle ricerche d‘esame illustrati. Argomenti che spaziavano dalla resistenza partigiana, al napalm nella guerra del Vietnam, al crollo delle Torri. Mi sono passati sotto il naso in velocità fotogrammi di cadaveri ad Auschwitz, soldati ustionati, la famosa foto con la bimba vietnamita nuda che corre piangendo, le due Torri in fiamme, Kennedy riverso nella macchina, l’autostrada sventrata a Capaci, poi i volti sereni di Gandhi e Mandela, lo scatto in cui Falcone e Borsellino parlano sorridendo, e ho pensato quanto è dolorosa la storia del Novecento e quanto coraggio ci vuole ad aprire gli occhi a bambini innocenti raccontando loro di Hitler, di Stalin, delle foibe, dei talebani, di Beslan. Menomale che mi rifaccio spiegando D’Annunzio e la pioggia sui volti silvani, Saba e la bambina dagli occhi celesti, Montale e i ghiaccioli sulla fronte dell’angelo-Clizia.

A mezzogiorno e mezza arriva un messaggio dagli alunni in gita in Sicilia, precisamente dall’Urlatrice:
“Proooof!!! Abbiamo visto Scamarcio!!! Abbiamo la foto!!! E’ fantastico!!!!”
Scommetto che è un trucco del Gigante per invogliarmi a partire con loro la prossima volta.
Se è vero, però, sarà l’apice del viaggio d’istruzione per le mie ragazze.

domenica 11 aprile 2010

Un giorno e mezzo in Tibet

Parte prima - The Buddha Expedition

Arriva finalmente il tanto atteso sabato del corso al centro Milarepa.
Ho incentrato tutte le mie relazioni sociali delle ultime due e delle prossime due settimane sul lasciare libero questo weekend e non vedo l’ora di partire!
Per una serie di contingenze karmiche di cui non sto a dire, butto lì alla Diavolessa il mio orario di partenza e lei, che da alcuni giorni è impegnata in una missione SAMDSA (Soccorso Amica Mollata Dopo Sette Anni) di particolare delicatezza, telefona per sapere se sulla mia carovana tibetana posso portare anche loro due. E io me le metto in macchina.
L’amica, poverina, sta uno schifo, a poco valgono i coraggiosi tentativi della Diavolessa di farla ridere, alla fine ripieghiamo sul parlare di yoga, psicologi e terapie alternative. La Diavolessa invece è nel fiore della sua vitalità e, dopo avermi invaso la macchina di suoni di cornamuse di un gruppo fichissimo che ha scoperto alla festa elfica di Belgioioso, passa la giornata a sbraitare: “Guarda che figo quello lì!!!” e “Si levasse da in mezzo alla strada, ’sto cesso inchiavabile”, e altre frasi pudiche e compassionevoli, sempre col finestrino aperto.

Avigliana bassa è una tristezza cosmica, la parte vecchia invece è bellissima. Il centro è una casetta rustica con delle bandiere tibetane sfilacciate sulla porta, dentro c’è un piccolo gompa, la lezione è in tibetano, tenuta da un lama di età indefinibile ma piuttosto giovane e tradotta da una signora dalla voce dolce, il tè della merenda è acqua sporca, invece i dolcetti sono deliziosi. La gente ha l’aria serena e ospitale, siamo in pochi, Diavolessa e l’amica dopo la pausa tè decidono di farsi un giro con la mia macchina e ci rivediamo all’uscita.
Finiamo col prendere un sontuoso aperitivo nel bar più di sinistra di Asti. Ma né la giornata primaverile con le montagne innevate, né le parole di saggezza del lama, né la pace dei laghetti di Avigliana, né l’aperitivo e tanto appoggio da parte nostra ridanno il sorriso alla povera amica della Diavolessa. Non posso che provare empatia, ci sono passata da una sberla del genere, non c’è Tibet che funzioni.

Seconda parte - Minoranze

Seconda giornata di corso. Parto sotto la pioggia, sola con la De, molto contenta di andare, ma un po’ preoccupata al pensiero della durata della lezione di oggi: se ieri stare tre ore per terra, a scrivere china su un panchetto nella posizione del mezzo loto, mi ha portato a desiderare di amputarmi una gamba con una sega da falegname, non voglio sapere che sarà di me dopo una giornata intera.
La lezione è molto bella. Ieri abbiamo parlato di generosità, stamattina si parla di disciplina. Uno dei responsabili del centro si porta nel gompa una cagnolina, Jack Russell taglia mini, di nome Penelope detta Penny, che passa tutta la lezione a girare da un tappetino all’altro facendosi fare le coccole da tutti i praticanti e producendo un allegro tiktiktik con le unghiette sul pavimento. Chiacchierando scopro che praticamente tutti abbiamo animali, e che i gatti di tutti i praticanti, quando siamo seduti per terra a meditare, o vengono a sedersi in braccio, o stanno intorno a fare le fusa fortissimo. Deduciamo che i gatti sono buddhisti, o almeno favorevoli al fatto che buddhisti ci diventino gli altri.

Nella pausa pranzo vado a Torino, mangio una fetta di focaccia, dò una scatoletta alla De e mi faccio un giro per Le Gru, tutto sempre sotto la pioggia.
Mentre guido penso a fare un salto da Feltrinelli a cercare testi sul Tibet e sul buddhismo, ma soprattutto mi faccio due conti su quanto costano le bandiere di preghiera, le tangka da appendere al muro, le mala e le statuine del Buddha, visto che li troverò solamente lì al centro, perché in giro non saprei dove cercarli.
Penso anche al fatto che praticare in gruppo ha sicuramente molto più senso che farlo da sola, soprattutto per chi deve ancora imparare tutto, ma improvvisamente mi rendo conto che non sarà mai come essere cattolici: non ci sarà un luogo di culto all’angolo di ogni strada, per vedere gli altri dovrò aspettare come minimo due settimane o sobbarcarmi degli spostamenti faticosi la sera, sottraendo tempo alla mia vita normale, e come ho visto sul forum “Buddhismo in Italia” non sarà nemmeno tanto semplice far capire alla famiglia, agli amici (e figuriamoci sul lavoro, ma quello è un capitolo ancora diverso con altri problemi, visto il mio mestiere) i perché e soprattutto i come di un cambiamento di questa portata: molti di quelli che scrivono sul forum raccontano che non stanno nemmeno a parlarne, per non dover fronteggiare critiche, chiusure, banalità… Metto insieme a questi pensieri quelli che ho fatto in mattinata guardando il lama che spiegava, e chiedendomi cosa vorrà dire per lui e per i suoi due confratelli essere qui, in un paese tanto diverso da quello di cui sono originari, parlare una lingua stranissima e biascicare appena due parole di italiano in un paesino della val di Susa, dove è già tanto se parlano piemontese e non patois, dipendere interamente da tre o quattro volenterosi praticanti per districarsi nelle questioni di tutti i giorni e tenere insieme un gruppo, e magari essere additati dalla gente quando escono a camminare per i boschi e i prati nelle loro tonache rosso scuro, con una spalla di fuori.
Ho pensato ai bambini stranieri che vengono messi fuori dalle aule nell’ora di religione cattolica, per i quali con la miglior buona volontà non si riescono ad organizzare attività alternative. Ho pensato a quel che scrivono sul forum buddhista i genitori che si vedono psicologicamente costretti dalle famiglie a battezzare i figli, anche se loro non sono d’accordo.
Insomma, ho capito che il mio sfiorare questo mondo pensando di immergermici, tra le molte cose che significa, vuole anche dire guardare per la prima volta il mio Paese e la mia gente dal punto di vista di una minoranza. Non ho dubbi che voglia dire imparare moltissimo, per una che insegna poi direi che è d‘obbligo. Ma mi sentivo abbastanza spaurita, mentre seguivo questo filo di pensieri sulla tangenziale di Torino.
Che poi, se c’è un posto dove a pensare di far diverso dagli altri ti senti veramente a disagio come se fossi nudo in mezzo a una piazza, quello è Torino. Sono sicura che se vivessi ancora a Genova non la vivrei così: noi siamo un porto, e ciò che è straniero, diverso, venuto da lontano ci è sempre stato naturale vederlo. Qui in Piemonte a volte ci guardano sospettosi solo perché veniamo dall’altro lato dell’Appennino. “In quest’immobile campagna, con la pioggia che ci bagna, i gamberoni rossi sono un sogno…” canta Paolo Conte, dichiarando il disagio dell’astigiano di fronte al mare “che si muove anche di notte e non sta fermo mai”. Ecco, io avevo lo stesso disagio ma al contrario, sotto il cielo plumbeo di Torino.


A domani con la
Terza parte - I buddhisti e l’altra guancia

venerdì 9 aprile 2010

Cartoline

Alcune cartoline che ovviamente non posso né scrivere né spedire.

“Ciao,
Volevo dirti che lo so che non esiste dolore più grande per una donna. Forse solo perdere un figlio già nato, ma quello è un dolore che gli altri ti riconoscono, questo lo vivi solo tu in tutto il suo orrore. Perciò credi, ti rispetto per il solo fatto che riesci a scendere dal letto la mattina.”

“Ciao,
Mi mancate tanto, quando venite a trovarmi? Ho voglia di riavervi nei banchi e sentire le vostre battute, senza di voi la scuola non è più la stessa.”

“Ciao,
È vero che ti hanno sospeso? Non farmi questo, tesoro, ti prego, non farTI questo, con tutto l’impegno che ci abbiamo messo per tenerti sulla buona strada. Mi manchi ogni singolo giorno, nominarti per i miei colleghi è il solo modo di arrivare a vedermi con le lacrime agli occhi. Ti prego, stai fuori dai guai.”

“Ciao,
Vorrei rivederti, vorrei sapere il tuo parere sulle cose che stanno succedendo, vorrei sentire la tua voce, vorrei essere rassicurata dalla tua presenza. Non posso dire che mi manchi. Solo che so che non ci sei e a volte mi gingillo col pensiero di parlarti di nuovo faccia a faccia, e mi chiedo cosa succederebbe dentro di me.”

“Ciao,
Cosa ne pensi delle ultime elezioni? Non me lo dire… tu lo dicevi già molti anni fa, ma avresti mai immaginato una tale deriva? La Lega e le sue leggi? Come vorrei che potessimo andare a protestare, scrivere ai giornali a quattro mani, combattere questa battaglia insieme. Ma dove sei tu ora non ci sono certe situazioni umilianti. Buon per te…”

“Ciao,
Parliamo un attimo del fatto che stiamo insieme troppo poco, del fatto che se non tiri un attimo la testa fuori ti ritroverai sconvolto dalla fatica fisica di far quadrare tutto, del fatto che ho voglia di passare un sabato mattina senza scendere dal letto prima di mezzogiorno, come una volta? Non è che per fare un figlio basti pensarci, sai? E comunque… sai che se mi facessi un tatuaggio in mezzo alla fronte probabilmente te ne accorgeresti dopo dieci giorni? Ti pare sano per una coppia? Mi manchi, brutto stronzo…”

giovedì 8 aprile 2010

Anf

Breve sfogo.

Gentili Genitori,

stamattina è venuta la polizia postale a spiegare ai vostri figli che Internet è pericoloso se usato male.

Stamattina la prof di lettere ha dettato ai vostri figli la richiesta di autorizzazione a partecipare all'incontro con la ginecologa per Educazione Sessuale, così arginiamo il disastro di discorsi privi di senso che hanno fatto i vostri figli di fronte alla cavolata fatta (di nascosto da voi) e discussa (pubblicamente) da una compagna dodicenne e cerchiamo di dare loro delle informazioni di tipo scientifico.

La stessa prof di lettere si farà carico di trattare coi vostri figli l'argomento rispetto della persona che a parere di alcuni, tra cui molti di voi, c'entra eccome con il finire a letto con qualcuno.

Domenica i professori di Musica, Arte etc. partono per portare parte dei vostri figli in Sicilia a vedere un sacco di roba bella, si spera col bel tempo e senza vomitare sul traghetto.

Da lunedì in poi la suddetta prof di Lettere e altri insegnanti si smazzano gli altri vostri figli, che non sono in gita, per far fare loro cose utili e piacevoli a scuola, mentre però non vanno avanti col programma, per non danneggiare quelli in gita.

In questo anno scolastico abbiamo cercato di insegnare ai vostri figli che fare le svastiche è vietato dalla legge, che mimare una masturbazione davanti alla prof di Italiano è una cosa stupida e di cattivo gusto, che mettere in giro voci su chi fa i pompini migliori della scuola è diffamazione e insulto, che minacciare i compagni sul pulmino è bullismo, che tirare calci nelle palle è pericoloso, che non si va in giro a spettegolare con aria entusiasta sulle disgrazie degli altri (quest'anno contiamo due suicidi, uno tentato e uno riuscito, alcune morti per incidente e una presunta gravidanza tra i gossip che secondo i vostri bambini erano succulenti).

Li abbiamo portati in cucina per farli cucinare, nell'orto per fargli conoscere le piante, in giro per le scuole superiori per fargli scegliere un futuro, li abbiamo informati sulla mafia, la droga, i pedofili, i preservativi, la TAV, le leggi sugli stranieri, la discriminazione delle donne sul lavoro.

PER FAVORE, vi dispiacerebbe pensare quanta parte di queste faticacce assurde era in realtà compito di un genitore? E lasciarmi spiegare Verga, il Re Sole, le guerre mondiali e gli Stati balcanici in santa pace, almeno per l'ultimo mese di scuola????

Perchè io non sono una che deve finire il programma a tutti i costi, e sono una che ama molto parlare coi bambini delle cose che contano poi sul serio nella vita, ma non sono un'assistente sociale. Sono una professionista della cultura e, tra la Mariastronza che mi ha tolto due ore e voi che non parlate coi vostri figli ma li lasciate bighellonare da soli su Internet a riempirsi la testa di minchiate, non ho più tanto tempo per i contenuti, di questa cultura che dovrei trasmettere.

mercoledì 7 aprile 2010

BIlancio di Pasqua 2010

Compiti in classe corretti: 1
Sedute dalla psicologa: 1
Giorni passati a letto con raffreddore, mal di testa e tosse: 2
Passeggiate nel verde/in città: 4
Amici visti: 1 (Diavolessa) + 2 bimbe
Parenti visti: 4 (miei, Biosuocera, Zia Buona)
Pranzi in famiglia: 0
Ristorante: 1 volta sola, a mangiare genovese di quello buono
Torte di verdura genovesi assaggiate: 3
Latte dolce mangiato: 4 pezzi (burp!)
Giorni senza l’Uomo: 2 e mezzo (da non ripetere assolutamente)
Messe: 0
Preghiere buddhiste: parecchie
Romanzi letti: 2
Film visti: 4 (“Little Miss Sunshine” per la seconda volta, più tre di Dario Argento)
Puntate di X-files viste: 12 (credo, non le ho contate)
Pane sfornato: 2 kg e 500, ricetta francese a doratura alta, 750 gr li ho regalati ai miei
Volte in cui mi sono chiesta angosciosamente le più svariate cose relativamente alla II B o a suoi singoli membri: 7.957.986
Volte in cui mi sono sentita in colpa perché non stavo correggendo le prove: 84.797 (ma solo negli ultimi due giorni)
Volte in cui il pensiero di tornare a lavorare mi ha segato le ginocchia: 8
Volte in cui mi sono goduta il sole e l’aria calda a Genova: circa 30 episodi di varia durata
Viaggi in autostrada: 2 (misteriosamente evitando le code)
Incidenti visti: 3 (tutti in città)
Incidenti che coinvolgevano un furgoncino vecchissimo visti: 3 (?)
Lavoro a maglia eseguito: circa una trentina di ferri di una maglia da sera
Passeggiate con la Zia Buona appesa al braccio: 1
Durata dei dolori muscolari al braccio cui la Zia Buona è stata appesa durante la passeggiata: 24 ore contate (e sì che non mi era sembrato di fare chissà che sforzo…)
Armadi messi in ordine: parte di quello di Genova
Sacchi di roba da dar via: 1
Scarpe col tacco portate: 0 (ho riesumato un paio di Superga e nei giorni a Genova non ho messo altro)
Giorni di astinenza da blog, internet e forum dei buddhisti: 3 (dolorosissimo!!!)
Ore mancanti al rientro a scuola: 15 e mezza
Compiti da correggere entro domattina alle otto, per fare almeno una mezza figura decente di una che si guadagna lo stipendio: 40

domenica 4 aprile 2010

Un po’ di disciplina - parte …, take it all by colour

Non mi ricordo che parte è e non ho testa di andare indietro nel blog per saperlo, dato che ho un emisfero della testa e la parte corrispondente della faccia che mi stanno facendo un male cane.
Ieri son stata rifugiata a letto, all’ora di pranzo ho trangugiato una tisana nuova, strana, che mi ha steso per tre ore in un sonno senza sogni, il resto della giornata l’ho passato sul divano a farmi una cultura sui grandi classici di Dario Argento. Simpatico, uscire a mezzanotte e mezza con il cane nei giardinetti deserti, con la musica di “Suspiria” nelle orecchie. La-la-la-la la-la-là, la-la-la-la la-lallà.

Ora torno ai miei programmi delle ferie pasquali con un trucchetto dei miei per ingannare il tedio del riordino.

Le origini storiche di questo giochino risalgono alle mie letture pomeridiane del primo anno in cui ho abitato ad Asti, dividendo casa con un’altra ragazza e aspettando di sposarmi. Facevo la prof di sostegno e al pomeriggio, sola in una città che conoscevo poco, e spesso senza macchina, avevo molto tempo libero. Nella mia cameretta mansardata studiavo i
chakra e la cromoterapia, e un bel giorno per noia ho fatto uno schemino dei colori da abbinare ai chakra, che essendo sette si distribuiscono bene nei giorni della settimana.

Ho cominciato con il trucco, proseguito coi vestiti, poi in qualche modo quella di dividere le cose per colore è diventata un’abitudine diffusa. Naturalmente a ogni colore si abbinano anche un profumo e una pietra, ed ecco lì che scegliere cosa indossare al mattino è diventato un piccolo rito di preparazione alla giornata con tutti i suoi significati.
Dopo un po’ mi sono messa a dividere la roba nei cassetti per colore. Il che si è rivelato una furbata.
Adesso, quando devo fare ordine e ho un armadio quattro stagioni davanti, mi prende ancora il panico, ma in qualche modo si supera se divido le cose in base al colore e la prendo con questo spirito: oggi esamino la roba marrone, beige e rossa (I chakra), domani penso a quella dall‘arancione al rosa (II, III e IV chakra).
E si può fare anche con gli aromi da mettere nei diffusori, con le piante nelle stanze della casa e con le ricette in cucina, sapete? Ma su quest’ultima non sono tanto ferrata, richiede troppa organizzazione.

Comunque, data la recente esigenza zen di snellire la mia vita, uno dei riordini che avevo in mente per questi giorni era quello dei diecimila tubetti, spruzzini, scatolini e boccettini che ho in bagno.
E perché non fare per colore pure quello, mi son detta: anche perché il senso comune vuole che la crema per le mani all’albicocca sia in un tubo arancione e quella per la circolazione capillare all’edera sia in una confezione verde.

E così…

Bottino di oggi, domenica, VII chakra (il loto dai mille petali), colori: bianco, nero, viola, lilla:
- generica crema Nivea idratante per il corpo
- crema mandorle per le mani
- acqua d’iris e acqua di tiarè (scartato il tiarè perché è estivo e mi ricorda tragicamente le vacanze in montagna, che purtroppo sono ancora lontane)

Bene: niente da buttare, in compenso usiamole, ’ste cose.
E ho già fatto il primo giro.

Scusate, vado a ungermi di roba bianca e lilla, che poi mi tocca andare in cucina e, col mal di testa o senza, preparare le lasagne (ovviamente porri e zafferano, cioè III e VII chakra…), è comunque Pasqua!

Per chi avesse visto “Suspiria”, e contestualmente si stesse domandando se sto impazzendo, la risposta è: avete notato QUANTO E’ COLORATO quel film???


sabato 3 aprile 2010

Stanca, nervosa, ammalata e anche facile alla lacrima.

Il risultato della prima di due passeggiate consecutive, quella in cui tirava aria e avevo la gola scoperta, non quella con le bambine che si arrabattavano giù per il prato.

Ho passato una notte orrenda con catini, termometri, fazzoletti, piumini, palline omeopatiche, camomilla e libri che non riuscivo a leggere per la nausea, finendo poi per stancarmi gli occhi, e in qualche modo distogliere l'attenzione dalla voglia di vomitare, incistandomi con un giochino sul cellulare.

Oggi ho iniziato la giornata piangendo e litigando, come un bambino capriccioso quando si sente male. Non sto letteralmente in piedi.

Pazienza, starò sdraiata. L'importante, anche se può sembrare stupido, è che tu non ti muova dal salotto e io sappia che ci sei, ti corro dietro senza soste da due mesi e mezzo e ho bisogno che tu ti fermi in un punto, un momento, e mi dedichi un po' di calma. E per una volta metti me in cima alla lista delle cose da fare, o da non fare, o per cui esserci. Insomma, non ho la minima intenzione di tornare ai vecchi tempi quando tu "dovevi andare". Abbiamo costruito una vita, qui, in cui non c'è più spazio per gli egoismi. Miei. Ma nemmeno tuoi.

Stai qui e fai il marito, porca vacca. Che per me arrivare a dire "ho bisogno" è una fatica.
Farselo ridire per un mese e passa è cattiveria.

venerdì 2 aprile 2010

Pasqua zen

Quest’anno, dopo gli esiti pessimi delle forzature natalizie e dopo l’epica battaglia per NON festeggiare Capodanno, sembra che il messaggio sia passato. Nessuno si è fatto vivo per proporci di fare Pasqua, o Pasquetta.
Il che, per due persone che negli ultimi due mesi e mezzo si son viste circa 40 minuti al giorno pur abitando insieme, è ottimo.
Soprattutto perché abbiamo sì sette giorni di ferie, ma di questi sette oggi è già il secondo ed è pieno di impegni, come ieri del resto, e soprattutto il cinecircolo ci terrà impegnati tutti i giorni Pasqua compresa, con l’eccezione di lunedì 5.

Oggi, in preda agli spasmi ovarici e a un simpatico raffreddore che mi sono autoprocurata insistendo per andare a camminare con la Diavolessa dopo un bel temporale, faccio il punto della situazione.

Non avrei intenzione di passare questa settimana:
- a pensare terrorizzata a quel che è successo a scuola mercoledì, e a tutte le sue possibili implicazioni;
- a trascinarmi da letto a divano col computer e i cornflakes;
- a correre dietro ai parenti;
- a lamentarmi via internet.
Per poi accorgermi mercoledì sera che devo ancora correggere 200 prove. E quando dico 200, intendo veramente due centinaia. Perché l’ultima B.I.C. è andata abbastanza male.

Ho invece alcuni propositi molto sani, ispirati al buon senso e al fatto che dopo queste vacanze inizia la grande rincorsa per l’esame di terza media.

Intanto devo togliermi il maggior numero possibile non solo di prove da correggere, ma di scartofie (o si scriverà scartoffie? È come trofie e troffie… un problema di pronuncia zeneize…) in generale: registro, verbali, programmi d’esame, presentazione della classe, relazioni sui progetti svolti e su quelli ancora da svolgere (educazione sessuale in II B, hahaha… risata amara).

Poi l’altro giorno pensavo che, in ossequio a un certo modo di pensare zen*, dovrei affrontare alcuni aspetti della mia esistenza tipo il fatto di aver cominciato trentamila cose finendone due e mezza.

[*Nel dire zen, precisiamo, intendo un modo di vedere il quotidiano come occasione di meditazione: tutto il buddhismo a cui faccio riferimento qui quando parlo delle mie vicende è ti-be-ta-no, per capirci quello del Dalai Lama, non quello dei Giapponesi. Specifico perché mi è già stato chiesto se non mi farò per caso attrarre da una setta, pare che ce ne siano, ispirate più che altro a derivazioni della Soka Gakkai etc., ma io mi chiedo: una setta? E lo chiedi a una che se n‘è andata dalla chiesa cattolica perché trovava che questa ci guadagnasse a tenere la gente, soprattutto le donne, nell‘ignoranza e era stufa di sentire che alcune persone “certe cose non le vogliono sapere perché potrebbero turbarle“? Ti sembro una che non utilizza lo spirito critico? Te la scuso perché giornate di cacca come quella di ieri te ne capitano, per fortuna, poche nella vita… ma anche se sei Sangue Del Mio Sangue in un altro momento ti avrei sculacciato!!!]

Ahem, scusatemi la parentesi, torno al punto. Sempre che stiate ancora leggendo, perché ultimamente con le opinioni politiche e con quelle religiose mi rendo conto che ci vado un po’ pesante, del resto questo blog di chi è? Mio, quindi… almeno qui sarò libera di dire quel che penso!!!

Dicevo. Trattasi di guardare le cose con gli occhi di una che potrebbe sfruttare un normale aspetto della vita quotidiana per concentrarsi, disciplinarsi e imparare la calma interiore.
Esempio: perché ho settemila riviste e libri di cucina e faccio sempre la pasta panna e pancetta, o porri e zafferano, o col pesto? (A parte l’ovvia risposta che il pesto è la cosa che mi viene meglio in assoluto e che è una delle 15 cose più buone del mondo.)
Perché ho dieci lavori a maglia iniziati?
Perché non so più di avere certi vestiti, ma in compenso per trovare un paio di pantaloni da mettermi ne scarto sei che non metto perché stretti - corti - larghi - stinti?
Perché non mi metto con calma a spuntare le cose fatte sui miei manuali di spaceclearing, di maglia, di cucina, e un po’ per volta PORTO A TERMINE qualcosa?

In fondo se fossi un monaco buddhista molta parte del mio tempo la passerei a fare lavori assolutamente umili e quotidiani, ma facendoli come se fossero riti sacri. Ora, a parte che questa è la filosofia che mi costringo ad applicare ai piatti da lavare da molti anni a questa parte, potrebbe solo farmi bene essere un po’ più efficace nel gestire la mia vita pratica.

Perciò le pulizie di Pasqua inizieranno da questo ragionamento.
Al prossimo aggiornamento… intanto lo so che anche altri hanno fatto mille propositi per questi pochi giorni di ferie. E’ un effetto collaterale della primavera, fare progetti.

Ah, e poi c’è l’altro effetto: cominciare a preoccuparsi del costume da bagno. Infatti ora porto le mie povere cosce e il mio culo, appiattito da mesi seduta alla cattedra o sul divano, a camminare con Diavolessa, Bibi & Pallina. Perché l’Uomo mi ha promesso che mi riporta al mare nell’Imperiese come l’anno scorso, e vogliamo mica fare brutta figura.