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mercoledì 9 maggio 2018

Dagli archivi segreti di auleintempesta - Ancora 2010

Luglio 2010 

Poi dice che sono sempre nervosa

Bene, abbiamo assodato alcuni punti.
Primo, che l'Uomo lavorerà a Autogrill, se non trova un'assegnazione provvisoria sulle superiori.

Dicesi Autogrill una scuola media di un paesino vicinissimo a Asti, che ha il difetto di sorgere attaccata all'autostrada per Torino. Dice il vicepreside che quando un TIR frena rumorosamente si voltano tutti verso la finestra, nel dubbio di vederselo arrivare in classe.
Spero sia una battuta.

Comunque potrebbe andare peggio, il paesino è comodo da raggiungere e il preside è lo stesso che l'Uomo aveva già, conosciamo anche diversi colleghi.
E poi ci sono le assegnazioni, con le quali l'Uomo potrebbe giungere alle superiori, cosa che lo renderebbe felice.

Quanto a me, per il momento l'unica notizia di rilievo è che la collega di cui occupavo provvisoriamente il posto è stata definitivamente trasferita a Finale Ligure (brutto eh, fare la prof in riviera?), quindi a questo punto l'unica persona in grado di vantare una precedenza sulle cattedre di lettere in ruolo a Scuolina Rosa sono io, Castagna.
Peccato che quest'anno ci sarà, a essere ottimisti, solo una cattedra a supplenza annuale. Che quindi non conta per il ruolo.
Bene, intanto aspettiamo le assegnazioni provvisorie, poi vedremo.
Costigliole sappiamo dov'è, nel caso serva.

Parentesi poetica.
La madre or sol, suo dì frenetico traendo con gli enigmisti in quel di Ceresole Reale, mantiene il silenzio radio.
Il caldo infuria, il pan ci manca (nel senso che cucino io, quindi passa la fame a tutti) e mio padre non dorme, anche se gli ho fatto il letto nella stanza con l'aria condizionata.
Nè più mai toccheremo le sacre sponde di Santo Stefano al Mare. O meglio, le toccheremo in agosto, visto che quelli del residence sono stati tanto gentili e tanto onesti da proporci un cambio di settimana.

Se non altro, finalmente io e l'Uomo ieri sera tardi ci siamo ricongiunti nella casa di Genova. Per modo di dire, ricongiunti.
Nella pratica lui è sceso dalla macchina alle undici passate e mi ha passato un trasportino puzzolente con dentro una gattina rossa tutta inzuppata di pipì.
Quindi è seguita una scena in cui Matilda è stata insaponata e sciacquata nel bidet come un infante (e per fortuna come un infante si è lasciata lavare, senza usare le unghie), poi io ho girato casa con stracci e ammoniaca, la maglietta bagnata e un braccio occupato da un fagotto di asciugamani umidi dal cui interno proveniva la seguente cantilena:
"Meeeeeeaaaaaau meeeeau miauuauu miauauauauauau meeeaaao meeeeaooo meouau mmeaooauauau meeeau mmmeeeaaaaaaauuuuuuuu"
Con delizia dei vicini, visto che ormai era mezzanotte e Matilda ha dei polmoni che potrebbe fare la professoressa alle medie.

Premonizioni tibetane e avvisi per la navigazione

Usciamo abbracciati per una colazione al bar, col cane al guinzaglio.
Tempo dieci minuti siamo al bar, io con il ghiaccio su un piede e le lacrime agli occhi.

Niente, è solo che il cane ha inchiodato in mezzo a un attraversamento, rischiando di farsi investire, io mi sono girata mentre la tiravo via e mi sono spezzata l'unghia dell'alluce dando un calcio secco al marciapiede.

Ho visto la Madonna, Nosso Senhor do Bonfim e il Dalai Lama che mi ballavano davanti una specie di tarantella. Menomale che c'era l'Uomo perchè praticamente ho smesso di respirare per qualche secondo.
Poi mentre, lacrimando e tenendo il piede sotto un sacchetto pieno di ghiaccio, mangiavo la mia brioche, ho guardato il mio calendarietto tibetano. Giorno di fuoco e acqua, sfavorevole, attenzione alla salute.
Ma vaff...

Un paio di avvisi.
Oggi è il settantacinquesimo compleanno del Dalai Lama, Sua Santità Tenzin Ghyatso.

Noi andiamo in montagna quattro o cinque giorni. Non ci portiamo il pc stavolta, quindi auleintempesta è momentaneamente sospeso per sopraggiunte (e tanto agognate) ferie.

Vi ricordo che, conformi ai dettami di Sua Maestà il Sovrano di Grande Inverno (Sanguedelmiosangue, che impartisce ordini dal suo blog), DOVETE DIMAGRIRE, CHIATTONI. Scusate, niente di offensivo, è solo che il prossimo arrivo in montagna mi porta a ribadire l'imperativo del 2010, che Sanguedelmiosangue ha messo come unica regola del suo entourage (che poi siamo sostanzialmente io e la Diavolessa) - unica, a parte quella di venerarlo e offrirgli continui olocausti di mazzancolle impanate e maschere di bellezza allo yogurt.
Io vado a camminare come una pazza in giro per i monti e stanotte (scusate ma lo devo scrivere) DORMO CON LA COPERTA... Goduria...

Passatevela bene.
A presto, disse, mentre si allontanava zoppicando vistosamente.

Agosto 2010

Un anno di auleintempesta


Ed eccoci. Finalmente a casa.
Da ieri mattina. Alle nove e mezza mi ero già riappropriata dei miei libri. Alle dieci e mezza dei miei cd, annunciando il mio rientro alla piazza con finestre spalancate e Green Day a bomba.

Ovviamente ho già fatto due lavatrici e un giro di ricognizione al supermercato.

E puntualmente è arrivata la prima grana lavorativa.
Grazie a Orsetto Lavatore, il collega di Religione che tutto sa e tutto origlia, mi viene riferito che stan cercando di smembrarmi le ore della III B. Togliendomi Geografia per darla alla collega Veterana. Che, tra l’altro, essendo la più anziana, se non le va bene può semplicemente dire di no. E che con me va d’accordo. La cosa non mi agita particolarmente, ma c’è un dettaglio: tra le righe, Orsetto Lavatore ha chiarito che questa telefonata lui me l’ha fatta perché il Gigante gli ha riferito di nascosto questa possibilità, discussa con la preside.
Il Gigante la settimana prossima è in ferie. Ho capito che ha parlato con Orsetto Lavatore perché voleva che io fossi avvisata. E il Gigante queste cose non le fa se non c’è effettivo rischio che si stiano elaborando grosse porcate.

Umm. Va bene.
Ora vediamo.
Per il momento non ho voglia di entrare di nuovo a capofitto in questi rigiri di telefonate segrete e sussurri tra i corridoi del palazzo. E non intendo dissotterrare l’ascia di guerra proprio subito. Aspetto di incontrare la Bestia Nera, che come sempre me la farà sfoderare nel giro di venti secondi.
Mi limito a tenere gli occhi ben aperti.

Intanto auleintempesta sta per compiere un anno.

E, mi dico già da qualche tempo, i contenuti di questo blog non corrispondono realmente alla sua didascalia. Non si parla affatto solo di scuola, qui, ma moltissimo di me, dei fatti miei, del mio percorso umano, personale e spirituale.
Leggere i blog di altri professori e quelli delle altre donne (molte, mamme che parlano soprattutto di famiglia) mi ha fatto capire che questo giornale di bordo scolastico è anche diventato, strada facendo, un diario intimo.
Il che, se ci penso bene, è molto, molto adeguato al mio reale modo di lavorare, che non è scindibile dal mio modo di essere.
Senza volere, con certe pagine di confessione ho dato un quadro molto più completo di me come insegnante che di me come persona, perché ci sono tante cose di cui qui non mi sento di parlare, a livello privato.

Comunque, rifletterò se cambiare la didascalia.

Per il momento, un grazie alla Frenci, che mi ha fatto scoprire questo modo di esprimersi.
Un grazie a chi ha letto, e anche di più a chi ha letto tra le righe. Un grande abbraccio a chi ha capito e a chi è stato qui vicino anche se non capiva.

E un invito, a molti e in particolare alla Tipa: scrivete un blog, fa bene. Non importa se vi leggono, anche se un commento spesso aiuta, scalda il cuore in una giornata invernale o suggerisce uno spunto. Importa molto di più leggere i blog degli altri, fa sentire molto ma molto meno soli.
Però importa che si possa prendere una mezz’ora al giorno per guardarsi allo specchio e dirsi le cose con calma, in solitudine, in silenzio.
A me ha chiarito tante cose. Ho il dubbio se avrei capito ugualmente quel che mi succedeva, senza queste pagine online, se avrei saputo elaborare sconfitte, cambiamenti, successi. Penso che non ci sarei riuscita così.

E ora è il momento della commozione.
Fuori i Kleenex.

Ci sono persone da abbracciare forte forte.

Prima di tutto, le mie amiche di sempre. Cavallino, la Tipa, la Frenci. Che sono state presenti qui tante volte, come sono state presenti in tutte le cose importanti della mia vita. Perché ci sono cose che NON SI DISCUTONO.
Punto.
Come il culo di Edo alle superiori (o il naso di Lorenzo, direbbe la Piccolina).

Poi subito dopo in ordine di blogimportanza (e non solo) Sanguedelmiosangue e la Diavolessa, le mie amate mine vaganti, queer, queen, tossici, sinceri, autodistruttivi, immensamente nobili d’animo, raffinati nei gusti letterari e eleganti nello stile (anche nei momenti più trash …tipo “UNA NOTTE A NAAAPOLIIII“, per capirci). Perché siamo telluricamente fratelli nei nostri complicati rigiri sentimentali, e coi loro blog si è instaurata una buffa, profonda e a volte sconvolgente comunicazione a tre, che non ha interrotto le centinaia di messaggi, le chiacchierate e le camminate. E questa specie di strana seconda adolescenza che la Diavolessa ha portato nella mia esistenza.

Poi tanti che non conosco di persona ma che di qui passano, o che si raccontano un po’ più in là nel blogmondo.
Con menzione speciale a Minerva, la più assidua lettrice e una delle più profonde analiste del mondo delle emozioni (nonché una delle poche adolescenti che sanno usare la lingua italiana senza farne scempio, anzi con classe). A My, che mi somiglia in modo impressionante nei ragionamenti. A Wonderland, che mi fa ribaltare dal divano dalle risate. A LGO, lanoisette, Perboni e altri prof dallo sguardo acuminato e senza peli sulla lingua. A Soleil, a Bianca, a B Stevens, a tante altre blogmamme, blogfate, blogsorelle, blogregine di questo mondo enormemente femminile, come tutti i mondi intimi e nel contempo sociali. A ziacris, dall’animo indomabile, che è la vera ispiratrice, insieme allo spirito inquieto e mai defunto di mia nonna, del romanzo che sto scrivendo (ops, questo non ve l’avevo ancora detto, eh? Eh… beh. Se ne riparla se lo finisco.)

Ma anche a quelle che scrivono troppo poco e mi piacerebbe leggerle di più: Symosymo, Donna Popcorn, la stessa Frenci (per cause di forza molto maggiore, lo so). E a quelli che non leggono qui ma mi piacerebbe che lo facessero: Musica, il Pagliaccio, la Piccolina, e la coprotagonista invisibile delle mie giornate lavorative, l’Inflessibile, che mi dà più di quanto riuscirò mai a spiegarle, con la sua spigolosa, spesso scomoda ma incrollabile presenza, e con le risate da ragazzina che io, tra pochi eletti, ho il privilegio di vederle fare.

E così.
Buon compleanno, auleintempesta, mia amata, egoriferita creazione, dai vicoli oscuri che nemmeno io conosco tutti, con improvvise uscite sul mare, con finestre nascoste da cui respirare l’odore delle colline, con trapunte calde sotto cui nascondersi nelle giornate di gelo.

Lunedì si ricomincia.

Settembre 2010

Sorsate


Ve lo ricordate quel libro: "la prima sorsata di birra e altri piaceri della vita"?

Leggete qua...

Esercizio: 10 cose magnifiche e assolutamente gratuite che ti rendono la vita più bella

Un buon libro
(Chiara, 15 anni)

Cercare costellazioni
(Manuela, 14 anni)

Quando guardo la partita di mio fratello e lui fa goal 
(Daniela, 14 anni)

Guardare il diario e vedere che non ci sono compiti
(Stefania, 14 anni)

Passare ogni minuto della mia vita a fare del bene a tutti
(Fabiano, 14 anni)

Mangiare la polenta in montagna
(Maurizio, 14 anni)

Il venerdì pomeriggio
(Arianna, 14 anni)

Quando c'è tanto vento prenderlo tutto e sognare di poter volare via
(Elisa, 14 anni)

Abbracciare una sequoia di mille anni
(Alessandro, 14 anni)

Essere capiti senza parlare
(Anxhela, 14 anni)

domenica 26 novembre 2017

Psicologhe, carte degli angeli, cuscini e straccetti di tacchino

Dice che devo farla uscire, la rabbia. Lo dico anche io: lo dicevo l'altra sera nell'antro magico di Guru Cri, mentre commentavamo la carta degli angeli che avevo estratto a metà lezione ("Condivisione") e quella presa alla fine ("Progresso"). Dicevo che io mi sento in progresso, e senz'altro condivido molto più ora di me stessa di quanto fossi mai stata capace di fare in passato. Ma che ho queste bolle di rabbia repressa che a volte mi devastano. In forme varie: una sensazione di cadere improvvisa a metà della corsia ortofrutta, la gola che si chiude, un bisogno spasmodico di urlare, una spossatezza rassegnata prima ancora di arrabbiarmi per qualcosa che pure richiederebbe un mio intervento energico.
Ho pensato per diverse settimane alle soluzioni e alla fine ne ho parlato con la psicofata, che come tutte le fate buone mi lascia andare, se ne ho bisogno, ma mi dà un bacio profumato e un consiglio magico. E io, come tutti i protagonisti di avventure fiabesche, le prometto solennemente di ricordarmene. E sono anche diventata una che le mantiene, le promesse. Svolgo come una solerte piccola Dorothy tutti i passaggi sulla stradina lastricata per arrivare alla Città di Smeraldo, e mi ritrovo a crocettare sul frigorifero i giorni in cui eseguo gli esercizi prescritti. E a pensare a come mi sento eseguendoli.
Tipo che ieri ho preso a pugni una pila di cuscini e ansimato contro i medesimi almeno trenta volte "troia puttana, puttana puttana puttana". E se anche ero partita credendo di prendermela con l'Uomo, poi era inequivocabile che stessi insultando me stessa, e molte altre che conosco. Diciamo che era un troiaputtana universale: se anche solo per un nanosecondo avete mai nella vita fatto qualcosa che arrecava danno dolore inganno e offesa a vostro marito, o alla moglie di un altro, sentitevi pure chiamate in causa. E ringraziate che i pugni li mollavo nei cuscini, visto che adesso a forza di chaturanga dandasana e cane a faccia in su e a faccia in giù ce li ho ridefiniti, i muscoli nelle braccia.
Comunque oggi l'ho rifatto ma con meno impegno, e i pugnazzi, non accompagnati da litania di insulti ma solo da un senso di svuotamento, erano per una tizia dalla pelle ambrata che mi fa masticare chiodi ogni volta che papino ci lascia sole, per quanto ciò avvenga sempre meno. Tizia dalla pelle ambrata che oggi tra l'altro ha salutato il mio guizzo di haute cuisine, straccetti di tacchino alle nocciole, con l'ennesima dimostrazione di totale disinteresse per quel che mangia, ma scartando amorevolmente una per una tutte le nocciole. Che bello.
Domani di nuovo scuola: come si diceva oggi con un amico al telefono, benediciamo i lunedì, che almeno il lavoro distrae.

domenica 19 novembre 2017

E una notte tra molte

No, è che il sabato proprio non ci dice, questo fatto del dormire, ma zero eh. Il mio organismo trova ogni motivo, ogni scusa, come un bambino che non vuol fare i compiti, le inventa tutte per regredire allo stato di insonnia feroce, spietato, che da troppi anni si associa a questo giorno della settimana. E magari fosse perché vado a ballare o tiro tardi a cena con persone gradevoli, amici, parenti, l'amore della mia vita. No no.

Eppure ero raggomitolata al caldo, con una mano dell'Uomo sotto il pigiama, fino a un paio d'ore fa. Poi è rientrata la figlia e lì la scelta che si poneva al mio subconscio era:

Piano A: lasciamo che Castagna continui a dormire e intanto suscitiamo nel suo stato cerebrale uno sfogo di rabbia cieca per il comportamento della figlia, che anche oggi si è distinto per brutalità nei suoi confronti, inducendola a digrignare i denti fino a spezzarseli.

Piano B: impediamo a Castagna di rientrare nello stato di sonno e scateniamole una riga di pensieri cupi dovuti allo scontro odierno con la figlia, peraltro da lei egregiamente sostenuto, e soprattutto gestito in maniera esemplare dall'Uomo, che avrà tanti difetti ma porca troia il padre lo sa fare. Poi avviliamo Castagna con una serie di proiezioni a tinte fosche sul futuro di questa ragazzina. E già che ci siamo facciamola sentire inadeguata, indifesa, sola come una merda, rivanghiamo bene tutto quel che l'ha delusa, ferita e strapazzata negli ultimi 48 mesi, condiamo con la legittima preoccupazione per i prossimi sviluppi di una grana scolastica seria che la vede capitanare niente po' po' di meno che una ribellione contro la Preside Chic, e, quando proprio siamo sicuri che ci sia il carico massimo, facciamole venire l'illuminazione di aver fatto in giornata almeno due errori madornali in due diversi dialoghi con l'Uomo, che poi è la sola cosa di cui realmente le frega, la sola cosa che la mette in ginocchio e le fa gridare basta pietà.

Basta, pietà.

E l'altra cosa di cui davvero le fregava tanto, alla povera Castagna, era arrivare in forma alla giornata di domani, che è l'inizio del secondo corso di perfezionamento per istruttori di yoga, tenuto dalla Maestra Con La Emme Maiuscola. Ci teneva sul serio, infatti quando mercoledì si è ammalata ha azzerato tutte le attività della settimana tranne andare a lavorare, coll'obiettivo di questa domenica in cui vuole assolutamente fare bella figura e imparare il più possibile e suggere ogni goccia di quanto le viene mostrato e spiegato.

E no. Sono le due e mezza. Divano. Gattina color panna accucciata vicino. Camomilla e biscotti. Blog.

No io lo capisco cosa dice mia figlia eh. E capisco che bisogna tener duro e dire dei no, ormai sono pochissimi e proprio per quello sono irremovibili. E capisco che poteva andare orrendamente peggio eh. In fondo oggi più di metà della battaglia è stata condotta in due, è stata gestita in assoluta coerenza e sull'identica lunghezza d'onda da me e dall'Uomo, e le tre cose su cui si è fatto perno sono imprescindibili anche per la figlia. Ma sarà l'avere detto la fatidica frase "se vuoi cambiare la tua vita sei libera di farlo, ma allora lasci la scuola e ti cerchi un lavoro" (pronunciare "lasci la scuola" ha invertito la circolazione sanguigna in tutto il mio corpo e causato la lisi istantanea di tutte le mie cellule). Sarà quella cosa che tanto tempo fa ho chiesto alla Frenci (quando ancora alla Frenci si potevano dire le cose): "ma avere un figlio vuol dire che ti senti come se ti avessero aperto in due e lasciato sul tavolo operatorio dopo averti svuotato di tutti gli organi?". E non parlavo delle doglie del parto eh. Magari. Quelle più di tot ore non possono durare. Parlavo del primo momento in cui avverti la sensazione di non essere più tuo, mai più, sensazione che io ho accettato di buon grado in tutta la sua violenza, come si accetta il dolore della deflorazione, perché si sa che deve esserci ed è un passaggio irreversibile e necessario per tutto ciò che viene dopo a renderti immensamente felice. Parlavo della percezione che le tue arterie d'ora in poi siano collegate a quelle di un'altra forma di vita che può accelerare il tuo battito, drenarti via tutto il sangue, mescolarlo con fango, stelle, acqua, bolle d'aria, filtri magici, vetri rotti e qualsiasi altra cosa, per poi ributtartelo dentro e far scoppiare tutti i tuoi organi. E la cosa assurda è che quando il sangue te lo ha succhiato tutto, tutto, fino a lasciare di te un esoscheletro trasparente come una cavalletta seccata al sole, poi ti chiede un bicchier d'acqua e tu ti alzi e glielo vai a versare, anche se sei appena morto. Per carità, il bicchier d'acqua che porti ai tuoi figli è una ragione di vita sufficiente a resuscitare, anche dopo molto più di tre giorni. Per esempio, nell'estate 2015, se ci penso adesso, mi rendo conto che, in ventiquattro ore, il solo momento in cui riuscivo a mettere a fuoco qualcosa che non fosse la disperazione era quello in cui mi trascinavo in cucina e mi costringevo a preparare da mangiare per la Princi. Ma questo risucchio senza fine di tutte le energie disponibili, e questa chiarissima idea che quando forze non ce ne saranno più dovrai trovarne altre... la potenza di una cosa del genere non la sai finchè non ci sei. E quando ci sei, è troppo tardi, non c'è da nessuna parte la scritta "uscita di sicurezza". Vivi senza sicurezza, basta, ti ci abitui, a volte non ci dormi per settimane ma non tenti neanche di lottare. Se non avete figli, vi prego, credetemi sulla parola, e se ne avrete in futuro, ci sarà un momento in cui ve ne accorgerete e vi tornerà in mente quel che sto descrivendo.

Fatto salvo che io non potrei mai più immaginare di tornare indietro, e anche quando ho scritto che non dovrei essere qui ed è stato un errore tutto quanto, non intendevo dire che sono pentita o rinfacciare quanto mi sta costando. Solo che davvero non è andata come doveva andare: pur con tutti gli ottimi e innegabili risultati che la Princi dimostra di aver conseguito, c'è stato un vizio di fondo, che non è probabilmente colpa di nessuno e che non ci impedirà di andare avanti, ma c'è stato. E ce lo teniamo. Come ci teniamo l'Uomo, e come l'Uomo si tiene me. Credo si chiami amore, questo tenersi le persone così, senza mollare. O forse è follia. Ma non importa.

Importa il gattino color panna, qui. Importano la camomilla, i biscotti, il blog. Importa che siamo sotto lo stesso tetto e, anche se sto riflettendo sul mandare un bel messaggio, in cui dico che ho avuto un problema e al corso ci vado solo nella seconda parte della giornata, so benissimo che tra non molto porterò di là le mie meningi dolenti e le mie ossa rotte, e mi raggomitolerò di nuovo contro l'Uomo, e tra meno di cinque ore suonerà la sveglia e io arriverò al corso puntuale. Maestra Con La Emme Maiuscola mi insegnerà le posizioni sulla testa, avrò paura di cadere, sarò incapace di eseguirle perché non ho ancora abbastanza addominali, mi sentirò la peggiore del gruppo e penserò di nuovo di aver scelto una cosa troppo difficile per me. Arriverò a casa con dolori ovunque e dormirò, per poi arrivare a lunedì completamente tronata dalla sonnolenza e piena di sensi di colpa per non aver corretto le prove neanche questo weekend. L'Orsone mi infilerà un caffè dietro l'altro direttamente in vena e andremo insieme a fronteggiare il casino che io stessa ho sollevato venerdì, e per il quale il Gigante probabilmente mi odia, anche e soprattutto perché ho ragione, lui è d'accordo con me e quindi non può sottrarsi alla battaglia. E inizierà un'altra settimana.

Sapete cosa vorrei adesso? Essere esattamente dove sono, quella che sono, con le persone con cui sono. E' stato un errore tutto, sì. Quando alla fine tirerò il mi ultimo bilancio, saranno molti di più i giorni in cui ho pianto di quelli in cui ho gioito. Eppure.



domenica 3 aprile 2016

Almayer

C'era una volta un'isola, solo che non era un'isola. Era rosa e affiorava appena su un mare di erba verde.
Ogni mattina alcune persone si traghettavano su quest'isola, percorrendo le onde delle colline, approdavano nel fango della riva e si portavano in salvo per sei o sette ore, quando potevano anche di più. Sull'isola nessuno sapeva delle navi perse al largo nella tempesta, nessuno sapeva delle notti buie, nessuno sapeva delle lacrime che cadono copiose nel lavello della cucina, sopra le verdure, tutte le volte che bisogna cucinare solo per due. Sull'isola la donna castana, le donne bionde, il grande uomo dalla barba brizzolata e dagli occhi buoni erano al sicuro, ma anche l'isola poteva essere spazzata dalle mareggiate.

Il  popolo dell'isola era strano, seminomade, diviso da conflitti interni e legato da una sorte comune. Ogni giorno arrivavano sull'isola e univano le forze per produrre qualcosa di buono, con risultati non sempre felici. Spesso sorprendevi uno dell'isola che guardava la riva, le auto attraccate sotto gli alberi, e capivi che nella sua testa c'era il desiderio di non ripartire. Talvolta, uscendo sul bagnasciuga, si confessavano che preferivano mangiare un boccone veloce al solito baretto da camionisti, il loro pontile tra l'isola e il vasto mare intorno, piuttosto che tornare subito a casa, e poco per volta avevano preso l'abitudine di andare a pranzo in due o in tre, per non sentirsi troppo soli al momento di volgere la prua verso il mare aperto.

L'isola non era una fortezza invulnerabile: era un piccolo mondo sereno, i cui dolci colori rendevano meno difficile sopportare l'ululato continuo del vento, ma talvolta anche le isole tremano. Quando accadeva, il popolo dell'isola si riuniva, si chiamava col tam tam di whatsapp da una riva all'altra: ma questo faceva ancor più sentire la fragilità, soprattutto di fronte a una convocazione, la domenica sera, per stringersi intorno a una delle donne bionde, colpita da un dolore cattivo, spietato, ingiusto. Si scrissero per chiedersi: vieni con me? Ti passo a prendere? La prendi tu la Fraulein che non può guidare? La riporto io, ok?

Perché lo sapevano come sarebbe stato. E volevano qualcuno accanto, qualcuno che sapesse che il giorno dopo ci sarebbero state lo stesso le reti da buttare, i campi da coltivare, sull'isola. Come due anni prima, quando un'onda anomala, nera, sanguinaria, si era portata via con un morso secco un pezzo intero di costa, fendendo in due la roccia, e loro avevano cercato di salvare il salvabile, facendosi strada in mezzo ai ragazzi in lacrime. E guardandosi l'un l'altro con gli occhi vuoti, nei giorni successivi, lentamente si riconoscevano, una quindicina di persone che si passano la stessa bottiglia d'acqua, tenendo acceso con gesti lenti il fuoco, senza parlare.






             

venerdì 5 giugno 2015

Un post che potrebbe pigliarvi anche piuttosto male, io vi avviso


Il giorno in cui ho dato il titolo a questo blog avevo in mente un ben preciso tipo di tempesta, quella ormonale.
 
In realtà era un bel titolo, adatto a me, perchè tutta la mia vita, professionale e non, è un lungo e spesso burrascoso viaggio per mare, in cui a volte sono conciata come Pi(scine Molitor) Patel, cioè sola su un'imbarcazione di fortuna con una grossa tigre feroce, altre volte comando una grande, solida nave da crociera, qualche volta combatto su un incrociatore, e non di rado esploro continenti sconosciuti su un veliero dagli scricchiolii suggestivi.
 
Ma ho sempre pensato che, un giorno, avrei raccolto il coraggio per scrivere un post su un aspetto della vita degli insegnanti che pochi considerano: l'impatto ormonale dei ragazzi su esseri umani adulti che passano le giornate con loro. Ho parlato, qua e là, delle mie classi come di nidi, di cucciolate, di gruppi così "miei" che sapevo dall'odore, per un meccanismo materno di riconoscimento olfattivo, in quale aula fossero appena passati. Ho parlato di tanti ragazzi e ragazze che sono stati sotto i miei occhi durante il loro sviluppo fisico, di cui ho intravisto i primi amori, di cui ho letto o ascoltato le emozioni e i turbamenti, squadernati senza pudore davanti allo sguardo di chi non è nè la mamma, nè la sorella, nè un'estranea. Qualcuno di cui si fidano in modo infantile e a cui involontariamente sottopongono a volte risvolti privatissimi, in barba alle leggi che fanno di noi algidi burocrati, giudici imparziali, severi ufficiali della Repubblica. Perchè a volte è più facile andare a parlare della prima importante esperienza a letto, o della prima vera scottatura, con qualcuno che ti ha visto bambino, e ti ha letto di Paolo e Francesca o di Angelica e Medoro, piuttosto che con un altro sedicenne o con un genitore.
 
 
Quello di cui non abbiamo mai parlato qui è l'effetto che fanno sui prof certe frasi, certi sguardi, il bisogno di condividere, di essere ascoltati e creduti, tutta questa confidenza che, giuro, a volte proprio non è nè incoraggiata nè tantomeno richiesta da noi adulti, presi da tutt'altro, ma ci investe come un acquazzone improvviso.
 
Dall'alto (euh! bum) dei miei quasi tredici anni di mestiere, posso ormai dire serenamente che sì, capita, e come, l'impatto frontale che non ti aspetti. Dopo aver chiacchierato con un po' di gente che, a quarant'anni e oltre, è in grado di discutere con il dovuto distacco delle proprie esperienze passate, emerge con chiarezza che il coinvolgimento tra insegnanti e studenti è più frequente di quanto si creda. Non sempre si avvera nei fatti la mitologica trombata con la supplente di ginnastica o l'infrascata in auto con il docente di filosofia (ah, peraltro, colleghe alle prime armi, mi raccomando: diffidare il più possibile del docente di filosofia, che può senz'altro apparire figo, nella versione tenebrosa o in quella vulnerabile, e intellettualmente arrapante da matti, ma poi si rivela un cinico divorziato senz'anima che devasta le vite delle giovani supplenti di lettere, mandandole in rianimazione dopo mesi di anoressia o tentativi di suicidio: e questa non sono io, ma ne conosco ben due che ci sono passate). In particolare, nella fascia d'età che frequento io il passare alle vie di fatto è decisamente illegale, oltre che professionalmente scorretto (ma attenzione agli/alle ex alunni/e: quelli/e diventano maggiorenni, e a volte ritornano, con intenzioni inequivocabili).
Ma esiste un livello di coinvolgimento, platonico per carità, però a volte davvero profondo, che non si può controllare con nessuna legge. C'è adolescente e adolescente. Non tutti sono teneri boccioli che si affacciano arrossendo alla vita. Non tutti i maschi sono capretti esuberanti che saltellano nel prato, e non tutte le ragazzine sono bamboline innocenti che riempiono il diario di cuoricini rosa. Senza con ciò fare di loro dei piccoli maniaci o delle Lolite senza pudore, sono tutti diversi, l'età mentale e quella fisica coincidono pochissimo nelle loro personcine in evoluzione, e noi "grandi" a volte non abbiamo la prontezza di difenderci e ci ritroviamo la freccia piantata nel fianco prima di aver visto l'arco. Questa cosa l'ho imparata sulla mia pelle, come molti colleghi e colleghe prima di me. Ora che la so, non mi spaventa più. E' che lavoriamo con le anime, i corpi e i caratteri di tanti esseri umani diversi, e che, soprattutto, siamo esseri umani pure noi. E se devo scegliere tra essere la feroce istitutrice senza cuore e la prof Castagna che a volte non riesce a far lezione perchè si butta via dal ridere, o si fa venire il groppo in gola dall'emozione, beh, io voglio essere me tutta la vita. Rischi compresi. Basta saperlo, ecco, che potrebbe arrivare qualcuno che, magari senza volere, ti apre uno squarcio nella diga, ti si presenta inopportunamente nei sogni o ti lascia semplicemente senza parole, in contemplazione di qualcosa di nuovo, fresco, bellissimo, come possono essere belli, dentro e fuori, solo gli adolescenti. Ogni tanto arriva, poi passa e se ne va. E anche noi prof dobbiamo sapere che a volte, molto più per le doti di carattere e di intelligenza, ironia, sensibilità, che per le nostre apparenze esteriori, lasciamo un segno su qualcuno. Che poi potrebbe incontrarci anni dopo, e guardarci con una tenerezza sconvolgente, annullando le proprie difese di fronte a una persona di cui si fida davvero, e rivivendo con il senno di poi le emozioni di un mondo perduto, in cui tutto quello che contava era che il tuo prof preferito ti facesse un complimento perchè eri stato bravo. Dovete pensare all'effetto che può fare essere guardati così. Non è una cosa paragonabile con molte altre.
 
 
Mentre scrivo penso al Danno, che ho rivisto ormai grande dopo l'incidente che lo ha quasi ammazzato, e che ha traversato la sala per venire a salutarmi e a me, solo a me in tutta una stanza piena dove aspettavano di sentirlo parlare della sua vittoria sul coma e della sua riabilitazione, ha detto, a voce bassa e senza minimamente vergognarsi: "Sono agitatissimo". Perchè a me lo poteva dire, anche se non mi vedeva da tempo, io ero ancora la sua prof di allora, quella che lo sgridava quando faceva il figo ma non aveva studiato, e che fingeva di non avere il batticuore quando lui le regalava i fiori raccolti lungo la strada. Ecco, in quella stanza c'erano sua madre, sua sorella, la sua ragazza, un sacco di amici, ma solo tra me e lui c'era quell'istante.
 
 
Capite che, se una cosa così ti succede nel momento sbagliato della tua vita, può aprirti un bel taglio nelle tue sicurezze su chi sei e che ruolo hai. Se poi chi ti riempie di attenzioni e visibilmente dipende dalla tua approvazione e dal tuo affetto passa con te parecchie ore a settimana, in una stanza dove si correggono aridi esercizi ma si parla anche tanto di tutto il resto, è possibile che la cosa ti faccia stare anche un bel po' male. Ma, come detto, passa.
 
 
Però.
 
 
C'è un però.

 
Soprattutto a chi, come noi, si occupa dei più giovani, bisognerebbe dare un minimo supporto psicologico per far fronte a certe cose. Ho trovato molto interessante il libriccino di un collega, intitolato non a caso "Uscirne vivi", in cui si parla delle difficoltà del nostro mestiere. Un capitoletto breve e composto, ma non imbavagliato da inutile ipocrisia, è dedicato al coinvolgimento sentimentale tra insegnanti e studenti. Menomale che qualcuno lo dice, ho pensato. Ovviamente ribadisce che succede, spesso sì, ma va tenuto sotto controllo, e da chi? Da noi, non certo da loro, che sono così ingenui a volte da scambiare le loro emozioni per l'unica legge valida sul pianeta. E io aggiungo: è' bello vedere che non si vergognano di quel che provano, che si sentono invincibili nella loro disarmante sincerità. E' fin troppo dolce, per noi adulti stanchi e disincantati, la sicumera con cui affermano un loro bisogno, molto più interiore che fisico, spesso, senza percepire l'inadeguatezza della situazione. Ma il concetto, una volta scemata l'ondata di tenerezza, imbarazzo, preoccupazione o semplice sorpresa, è semplice. Loro confondono i ruoli, NOI NO. Ci piacerebbe, magari, ma non lo possiamo fare.
 
 
Ecco perchè quest'anno così bello per me rimarrà un ricordo indelebile, di giornate piene di gioia e soddisfazione, ma con una macchia scura che rovina proprio le ultime, importantissime settimane: il pasticciaccio brutto tra uno dei miei "grandi" e una collega, tra l'altro più vecchia di me. Che rischia già la denuncia per altre leggerezze commesse sul lavoro, dal momento che confondere i ruoli, evidentemente, le piace. Ma a me, e non solo a me, leva il sonno perchè non respinge, anzi incoraggia in modo pericolosissimo, una situazione che sì, si poteva creare, l'ho detto appunto finora, ma doveva restare entro un certo limite.
 
 
E la cosa più grave è che gli altri ragazzi, per quanto noi cerchiamo di proteggerli, se ne sono accorti e sono rimasti davvero turbati.
Credetemi, se vi dico che, pur in questi pochi anni, ne ho viste già molte di cose. Ma sono venuti a parlarmi tutti seri Giudiziosa, la Nonna, Vento del Nord e Svacco e poveri ragazzi, erano così pieni di tatto nel cercare di spiegare che erano a disagio, che ad un certo punto gli occhi di Svacco si sono riempiti dell'angoscia che io non capissi, e davvero, la sua espressione quando è sbottato e mi ha detto cosa pensava, usando peraltro un modo molto controllato di esprimere i suoi dubbi, mi ha fatto un male boia e non me la scorderò facilmente.
 
 
Passo le giornate a guardare in tralice il ragazzo in questione e chiedermi a che punto sia davvero giunto il pasticcio, e se dovrei parlargli: a lui direttamente, visto che la madre problemi su dove sia, su come passi i pomeriggi, su di chi siano le macchine su cui sale, evidentemente non se ne pone. Ho paura. Per lui, prima di tutto, per la collega che, pur richiamata all'ordine con delicatezza sia da me che da altri, non si è fermata, per la classe, per noi prof, per la pace della mia povera Scuolina Rosa.
 
 
E ho anche paura di perdere di colpo la pazienza con la collega, di stancarmi all'improvviso di camminare sulle uova, e creare un casino all'esame. L'anno scorso si è visto bene, in commissione d'esame, con il povero ignorante che ha preso il posto della Compagna Collega, che cosa posso diventare io quando un docente che è in torto e di cui non ho stima mi tocca i miei ragazzi o si mette di traverso al compimento del lavoro di anni. Non vi consiglio di incontrare il mio cammino quando succede una cosa del genere. Ma temo che, con questa prof, la reazione sarebbe ben diversa da quella che il malcapitato supplente, presuntuoso e imprudente ma comunque giovane e inesperto, si è potuto permettere di fronte ai miei ruggiti. E non voglio per nessun motivo danneggiare i ragazzi.
 
 
E così, anche quest'anno all'esame non ci si annoia, vedete. Ma, io, timbrare pacchi alle poste perché non l'ho mai considerato, come opzione, perché? 

giovedì 7 maggio 2015

Fear of the dark

Anni fa, spiegavo a una prima che l'italiano è una lingua in cui, in linea di massima, a fonema corrisponde grafema e le sorprese, a parte il suono GL di cui sembriamo essere gli unici detentori insieme agli Spagnoli, sono scarse. Mi parte un esempio che mi riporta a quando, sedicenne, ascoltai la mia prima lezione di grammatica inglese in una vera aula inglese di un vero college inglese da un vero professore inglese: "per esempio, gli Inglesi devono studiare lo spelling delle parole, perché certe si scrivono con le stesse lettere ma si pronunciano diversamente, o viceversa, pensate a HERE e FEAR, poi FEAR si dice fìar ma si scrive come BEAR..."
E mi viene una battuta molto basic, di quelle che si fanno per svegliare i primini alle otto e ventidue di una mattina nebbiosa, "Fear of the Bear però suona bene, sembra il nome di un gruppo pop inglese degli anni Ottanta". Da allora, ogni tanto c'è stata, in quella classe, l'evocazione di un fantomatico concerto live dei Fear of the Bear, e tutti sorridevamo. L'Inglesina, Punta di Diamante, l'Incontenibile, Pasticcino Svizzero, Lagnosetta, Babbà, Terremoto, e tutti gli altri.

Ma ora io ho quasi quarant'anni e paura dell'orso non lo so, ma del buio che scende, ne ho eccome.
Addirittura i più vaghi segnali di tramonto mi fanno deglutire il primo groppo d'ansia, anche se sono ancora fuori e ho da fare. E non parlo della paura di non dormire, o di avere incubi, che mi sono portata avanti per buona parte del 2014 (e il 2015 a volte regge il confronto: l'altra notte, nello stesso sogno, ero bloccata su un'autostrada che finiva contro un muro, poi ero completamente nuda in ascensore mentre sul pianerottolo dove dovevo scendere c'erano il mio geometra e un sacco di altre persone... ma sognare che sto per morire perché è finita l'insulina, e che non me ne importa niente di morire, è decisamente peggio). Parlo proprio della paura di avere paura. Non paura: terrore. Cieco, irrazionale, come i bambini al buio appunto.

Non è l'EMDR che ho iniziato, perché è un fenomeno di poco precedente. Penso sia la situazione con l'Uomo. E il fatto che mi manca mio padre: non so perché ma da qualche tempo sono disperata di non poter parlare con lui di quel che sto passando, e sì che i quattro quinti di quel che ho vissuto ultimamente non so se avrei avuto il fegato di raccontarglieli, onestamente. Ma adesso ho bisogno di papà, dei suoi occhi attenti e delle sue parole pacate. Delle nostre lunghe chiacchierate di notte.

Stasera sono sola, Uomo e Princi a Firenze in gita, e ho da occuparmi del povero gatto cui abbiamo di nuovo asportato un tumorazzo e che sta smaltendo (male, tra l'altro) l'anestesia in bagno. Bagno nel quale mi s'è graziosamente fulminata la lampadina proprio stasera. Ho saltato un giorno di lavoro perché non ho chiuso occhio ieri notte, era la terza notte di fila, e mi sono alzata con un'emicrania talmente poderosa che non mi si apriva l'occhio destro. Così ho preso mutua e mi sono calata un'aspirina C alle otto di mattina, che mi ha almeno ridato l'uso dell'occhio, salvo poi accorgermi che mi erano appena arrivate le mestruazioni e quindi traballare per ore con la pressione scesa sotto la piattaforma continentale. Ho preso a male parole la postina e una rappresentante della Vorwerk che hanno osato scampanellare. Ho lasciato solo lo Zio Granduca che ha cenato in un tristissimo all you can eat giapponese per non disturbare il mio sdegnoso ritiro in tuta. Sono andata e tornata dal veterinario con la pinza nei capelli unti e una maglietta con uno strappo all'orlo. Ho mangiato quel che capitava e ridotto la casa un macello spostando cose senza particolare scopo.

Domani tornano grazie a Dio. Ho paura lo stesso, quando ci sono loro, e spesso vago in salotto alle tre di mattina, ma almeno di giorno sono costretta a sembrare normale. Però stavolta, dal medico, a farmi scrivere le goccine della felicità, ci vado davvero. Non posso andare avanti così.












mercoledì 4 febbraio 2015

Passare l'inverno

Tornata a lavorare dopo otto giorni otto, e neanche tanto in forma per la verità.
Stando a letto al caldo ti proteggi da molte cose, ti riposi da molte altre, però conti anche le cicatrici e, merda, sono abbastanza da tenerti impegnata per un bel po' di ore, mentre gli altri sono al lavoro.

Parlavamo di sentimenti molto molto privati e individuali e di questioni di fatica bruta matrimoniale, però non è che mentre qui ci si occupava di queste urgenze il mondo intanto stesse fermo eh, anzi questo primo mese di 2015, come dire, non si è posto particolarmente bene, no. E vedi intorno gente che soffre, gente che si arrabbia, gente che si rassegna, gente che molla. Gente che si agita. Senti parlare di divorzi, di litigarsi i figli tramite azioni legali, di ricominciare tutto in un altro modo da un'altra parte, di ripartire per una verde isola lontana, di chiudere con una città e seppellire il passato.

Cambia il presidente della repubblica e, mah. Non sai cosa pensare. Di lui, di Renzie, di tanti altri. Non riesci a seguire questa politica che sembra sempre uguale e sempre meno legata ai problemi del Paese, e vorresti che almeno almeno ti dicessero PERCHE' i legali di Berlusconi dovrebbero prometterci che nel 2018 il tristo figuro sarà rieleggibile. Voglio dire, avrà anche 82 anni per allora, ammesso che ci arrivi, e anche se si fa criocosare nella sua cripta di Arcore, non è che da surgelato sarà meno morto, più giovane, più onesto o più furbo. E se gli andrà di culo sarà ancora vivo e racconterà ancora sordide barzellette pensando di essere figo, ormai siamo rassegnati. Ma dovrebbero rieleggerlo? Fosse Fidel Castro, capirei il senso, ma solo fino a un certo punto comunque, che anche Fidel e Raul ragazzini non sono eh. E poi io in ogni caso volevo l'altro. Non l'Ernesto. Il Camilo. Che non se lo fila nessuno nei libri di storia perché è morto prima ancora del Comandante, ma era ridente coraggioso barbuto e bello.

Cambiano le carte in tavola, perché il preside non ci lascia applicare il regolamento e non permette di sospendere Sgamo. Sgamo fa il grandioso. "No ma è simpatico, il preside".
Castagna lo gela: "Sì? Mi fa piacere. Ma il preside è un reggente e tra massimo due anni se ne va. Noi restiamo. E' a noi che interessa che i ragazzi qui rispettino le regole. Quindi se secondo il preside tre note sul registro di cui due dalla stessa prof non sono sufficienti, e poi non sono in rosso, bene, del resto il preside non ci conosce e noi non conosciamo lui, ma la prossima volta che ti cade una biro dal banco la nota te la metto io, rossa e lunga così, e vedi che alla fine i conti li mettiamo in pari lo stesso."
Sgamo afferra il concetto.

Abitudini che avevi preso, e che ti facevano male, scompaiono. Altre che volevi instaurare, perché ti facevano bene, vengono sabotate.

L'amico di sempre, quello che consideravi finalmente davvero un fratello, si appella alle tradizioni incestuose delle famiglie regnanti di Game of Thrones e fa un ulteriore tentativo di diventare il diversivo nella tua travagliata vita sentimentale, e per l'ennesima volta prendi atto di avere allevato in seno, con sincero affetto, una persona le cui intenzioni non sono cattive ma nemmeno limpide. E lo sposti un po' più in là e continui a volergli bene, come a un fratello, sul serio,  ma smetti di dirgli come stai veramente, e ti senti un po' più sola.

Avevi programmato un bel Tibet da fare in tre o anche in quattro. La tua amica non ci verrà e tuo cugino nemmeno. Forse tua figlia, ma spiegarle come siete messi tu e l'Uomo ha fatto boomerang: non l'avevi mica pensato, che il tre è un numero maledetto e che di tre, uno si schiera sempre con uno degli altri due, e che non è mica detto che vada come fa comodo a te. Eppure la triangolazione padre madre figlia la conoscevi molto bene. Ma chissà. Credevi che fosse chiaro come l'acqua pura di un ruscello di montagna che ce la stavi mettendo tutta. Poi, dal di fuori, quel che sembra così chiaro dentro non si vede, ed è la storia della tua vita, che parli una lingua che capisci solo tu, per quello stavi per scappare via con qualcuno che, contrariamente a qualsiasi previsione, sembrava sapesse il tuo alfabeto più vero prima che tu potessi anche solo pensare una frase.

Il lavoro è sempre tanto e aiuta, e aiuta cambiare i mobili del salotto, e aiuta anche stare zitti perché si ha la tosse. E aiuta anche tossire fuori tutto lo sporco. L'inverno ha da passare, comunque, e poi. E poi?
















sabato 11 ottobre 2014

Errata corrige

La vittima dell'alluvione non era un ragazzo di ventiquattro anni, come indicato subito dall'ANSA, ma un infermiere di 57.


Ah beh allora.







Io però a fare il conto delle vittime aspetterei i prossimi due mesi. C'è gente che aveva già perso tutto nel 2011. Sono quelle cose per cui bisogna vedere anche il numero di suicidi.


martedì 9 settembre 2014

E no!


Il primo di settembre il cielo e gli alberi etc etc e casa mia e che bella la mia scuolina, etc.



Il due di settembre il primo collegio docenti con questo preside che chiameremo il Tipo da Barca (definizione con cui, nella mia famiglia, si indicano gli uomini bellocci, abbronzati, spettinati e con le scarpe da barca classiche, pelle marrone e suola in gomma bianca; solitamente poco affidabili, e dal punto di vista economico, e da quello sentimentale: come presidi, non saprei per il momento).



Nella notte tra il due e il tre la Zia Buona (91 anni e 10 mesi) decide di alzarsi senza chiamare la badante Frau Bluecher. Fa il giro del letto e cade. Livido sull'arcata sopracciliare. Un avambraccio completamente blu. Una gamba, la destra, ferita superficialmente. E la sinistra, rotta. Per la seconda volta. Che, se aggiungiamo la precedente frattura della destra, fa tre: tre femori rotti, tre ricoveri, tre interventi. Più, sei anni fa, un bell'attacco ischemico.



Allora.

Noi si doveva partire per la capitale, per il matrimonio della Cugina Bella. Parte solo l'Uomo e io mi ritrovo a pendolare tra qua e Genova, e usare il giorno di ferie che avevo preso per il viaggio per attendere che fissino il femore della zia, con una paura nera che mi vengano a dire che non ce l'ha fatta.



La zia ce la fa. Poi, però, sbarella con la testa: non sa dov'è, non sa perchè si sente male, non sa cosa succede e forse non sa nemmeno chi sono io. Poi si riprende anche dallo sbarellamento, ma alterna fasi in cui sta benissimo ed è la mia sempre coccolosissima Zia Buona a fasi in cui è una furia degna di un poema epico greco, e urla e scaglia le cose e prende tutti a sberle. Nonché scavalca (col drenaggio, la flebo, il catetere e il tubo dell'ossigeno che le pendono da tutte le parti) le sbarre del letto e cerca di andarsene. Tutta la famiglia di mio padre essendo dotata di fisico grande e atletico e avendo praticato sport di ogni genere fino alla terza età, anche a novantadue anni e con un osso rotto, se la zia vuole scavalcare, la zia scavalca, per impedirglielo bisogna legarla. Da cui un corri corri in ospedale di tutta la famiglia (che ormai siamo io, mia madre e Frau Bluecher) a tutte le ore del giorno e della notte, perchè gli infermieri, pur gentilissimi e molto competenti, però non possono smettere di guardare tutto il reparto per tenere ferma lei.



Minchia.



Che rientro.



Comunque.



Adesso tra una settimana la dimettono. Poi deve stare un mese senza caricare sulla gamba. E poi deve andare in riabilitazione, e vediamo se ce la fa (di testa e di gambe) a recuperare un po' di mobilità.

Partirei dall'assunto di base che io, all'idea di vivere di nuovo come due anni fa, quando stava male mio padre, e cioè perennemente terrorizzata che succeda qualcosa, sempre in autostrada, a scapito del mio tempo libero e va beh, ma più che altro del lavoro e del matrimonio, e ormai anche della figlia... beh, metto la quinta, chiudo gli occhi e punto dritta verso il guardrail di un cavalcavia altissimo. Voi non potete capire come vivevo di merda. Non lo rifarei mai, per quanto io adori mia zia e sia, a tutti gli effetti, la sola parente di sangue ancora viva di cui lei disponga.

Incredibilmente, l'imminenza del mio suicidio deve essere stata recepita anche da mia madre, perchè dopo sole due discussioni, civili tra l'altro, siamo d'accordo che no, basta, a casa la zia, purtroppo per lei, non ci tornerà più. Andrà in una struttura dove un anziano non autosufficiente sia sempre controllato anche da medici, e gestito in modo professionale, con spazi e strumenti adatti. Il che costituirà modo e ragione anche per liberarci della Frau, che con mia zia è attenta e capace, ma con noi è un pezzo di stronza della risma peggiore.



Ora vedremo. Tra l'altro, l'appartamento di mia zia è allo stato dell'arte invendibile e inaffittabile. Quindi, se non ci torna a stare lei, ci sarà un trasloco in vista per noi, e neanche tra tanto tempo, mentre cercheremo di far rendere il nostro, che è piccolino e si affitta bene.



In effetti un bel traslochino era una cosa di cui si sentiva la mancanza, in un anno come questo, in cui è successo più o meno TUTTO quel che può succedere in un nucleo familiare.



Noi annoiarci due minuti no, eh.


martedì 2 settembre 2014

La ragnatela


Tu che di tutti sei sempre stato il prediletto. Tu che sai cosa vuol dire partire dallo svantaggio, crescere tra gli animali presi a bastonate, fare la fame di tutto, del cibo, dell'affetto, delle cure.
Tu che, con la tua mente come un rasoio senza pietà, uscivi dalle nebbie della cannabis a botte di caffè della macchinetta, per ascoltare le mie lezioni di storia, e fare i tuoi commenti cinici e intelligenti. Convinto da sempre che un cervello sia l'arma che può difendere da tutto il male del mondo, fermamente intenzionato a imparare ad usarlo.
A te io vorrei spiegare le mie paure, i miei desideri, le mie aspettative su questa ragazzina tremenda e fragile che mi è piovuta dal cielo. Per come mi hai ascoltato quella volta in piazza. Per tutta la fiducia che hai sempre messo in me. E quella che io ho messo in te.

E tu, invece, che stai nel morbido, che hai tutto, e intanto ti maceri in qualcosa che non ha nome, una malinconia primordiale che risiedeva nei tuoi occhi fin da ragazzino, quando serio e riflessivo ascoltavi, e poi intervenivi con quella bella voce bassa. E hai affidato al mio sguardo incredulo qualche tua fragilità, senza spiegarti più di tanto, con pause di silenzio in uno stanzino, con confessioni imbarazzate in un parcheggio, con qualche frase apparentemente disinvolta su una chat. E io d'istinto dopo tanto tempo ho abbassato le difese e ti ho raccontato molto, poi anche troppo, di me. Non certa di essere capita. Ma sicura di non essere tradita. E tu hai preso tra le tue grandi mani impacciate la mia sincerità e hai cercato maldestramente di non schiacciarla.
A te io vorrei ogni tanto affidare le mie giornate faticose, e spesso così ripetitive e deludenti, per uscire fuori a chiacchierare vicino alle macchine, sotto un bel cielo pulito, come abbiamo fatto tante volte.

E tu, poi, che hai le lacrime trasparenti come l'aria e il sorriso chiaro come l'alba di marzo, e ammetti le sconfitte, e capisci le necessità, senza pie illusioni sul futuro, senza pretese ma anche con un sano orgoglio. Tu che, come tante altre, stai diventando una donna che cade e si rialza, cade e si rialza, e cambia colore ai capelli e adegua il trucco degli occhi al nuovo colore, e ce la fa di nuovo a ricominciare con la stessa decisione e la stessa dolcezza, anche dove c'è un deserto di macerie.
A te io vorrei lasciare a volte la possibilità di mettermi lo zucchero nel caffè della pausa pranzo, e di offrirmi rifugio al tavolo immacolato della pizzeria per un po' di incoraggiamento reciproco, quando tutto sembra essere andato a bagno e bisogna trovare le energie per riderci sopra.

E tu che sei qui nello spazio digitale, alle ore più buie nella notte, e non mi lasci cadere, anche se ci vediamo poco, e ti preoccupi per me. Dalla tua vita incasinata non puoi aiutare nessuno, ma a volte devi chiedere e poi fai fatica a restituire, e però io sono tua sorella, e tra fratelli non di sangue ma di spirito è più facile dirsi ti voglio bene e perdonarsi le cose. E ogni tanto ci troviamo per mangiare quel risotto o quella farinata di corsa tra un impegno e l'altro, e io controllo se sei dimagrito, se sei stanco e ti tremano le mani; e tu, che di me ricordi la ragazza snella con la gonna scozzese cortissima, che scese dall'autobus quella volta vicino al porto, oggi guardi le mie occhiaie e le mie nuove rughe, e mi dici che vuoi che io stia bene e sia serena.
A te ogni tanto vorrei ricorrere quando l'angoscia è atroce, rannicchiarmi sul tuo divano, confidarmi e poi litigare perchè tu metti battute pessime in mezzo ai miei discorsi accorati, e magari aspettare che ci addormentiamo vicini dopo aver sfogato la paura.

E tu che mi rispetti quando ti racconto cose tremende senza piangere, perchè sai che io non piango davanti agli altri, sai che esistono donne che non vogliono essere consolate e protette, ma solo ascoltate, e ascolti come poche persone al mondo sanno fare, tu che passi da noi una volta alla settimana con regolarità da parente, e quando sei in ferie e vai lontano scrivi che ti manchiamo. Tu che a tua volta ti porti i tuoi problemi e i tuoi dolori, e ce li racconti con quella voce calma e il sorriso blasé di chi ne ha viste altre, creatura elegante, conoscitore delle notti bianche e del loro silenzio angosciante da riempire di film, libri, computer, e messaggi con gente come me che non dorme.
A te io vorrei poter chiedere ogni tanto di materializzarti in tre minuti nella mia cucina, con il sempiterno smartphone acceso e le tue giacche di marca, e passare dai discorsi più stupidi a quelli più seri con lo stesso tono attento e lo stesso affettuoso rispetto.

Tu che scrivi che anche oggi hai pianto, ma anche coltivato fiori o cucito tende o fatto biscotti, e che insisti nel tenere la testa alta e buttar fuori con l'ironia il dolore che ogni giorno minaccia di schiacciarti. Tu che giudichi te stessa con la furia del Dio degli eserciti appena fai un microscopico errore, ma accogli me e la mia gigantesca, animalesca confusione con un abbraccio caldo e un sorriso sereno, giurandomi che mi vorrai bene anche se dovrò bere questo calice, anche se farò questo sbaglio, anche se sai che vado incontro a un pentimento.
A te io sto dicendo di me più di quello che oso dire a me stessa, e a volte la tisana fumante che mi offriresti, o il caffè lungo che ti offrirei, se tra noi non ci fossero tanti chilometri, sono così reali che ne sento il tepore consolante tra le mani.

Una ragnatela di un filo resistentissimo, così sottile da sembrare invisibile anche a un Lillipuziano, mette in comunicazione le anime di persone come queste, tanto che quando penso a loro le confondo, creo un unico essere protettivo, potente, ultracorporeo, che unisce il profumo speziato di un'amica e il sorriso da Monna Lisa di un'exalunna, l'abbraccio sollecito di un fratello putativo e la risata franca di uno zio acquisito, la voce rauca di un exalunno e gli occhi pensosi dell'altro. E alcuni altri che ho già incontrato, di cui ho visto in nuce il carattere che verrà, altri che devono ancora venire, e che forse rintraccerò con maggior chiarezza quando saranno grandi e passeranno a dirmi come stanno: giovani donne e giovani uomini che hanno almeno una radice nello stesso terreno da cui prendo nutrimento io, e le loro foglie al vento fanno un rumore che io capisco. Gente che parla, per motivi indipendenti da ogni spiegazione terrestre, la mia stessa lingua, da prima che ci incontrassimo.

Vita dopo vita credo di aver già incontrato e amato queste persone, che rispetto alle molte, meravigliose amicizie da cui ho la fortuna di essere circondata hanno qualcosa, qualcosa nel DNA, di affratellato a me così profondamente da rendermele gemelle.

Quando sono in difficoltà, con me stessa, con l'Uomo, con la Princi, mi vengono in mente uno dopo l'altro, come i grani di una ghirlanda di preghiera. Le loro facce, le loro voci, che mi riportano alla mia identità profonda, a quel che non posso rinunciare a essere, costi quel che costi. Loro, e le altre presenze buone nella mia vita, così diverse da me, loro, ma solide come la roccia al mio fianco da lustri interi, sono il motivo per cui ce la farò comunque vada, nella salute e nella malattia, da moglie o da single, fino alla fine.

mercoledì 5 marzo 2014

Cose di cui andar fieri

Sono cintura nera di estrazioni dentarie. Ho tolto quattro denti del giudizio, e altri tre, dai sedici anni a oggi. Non so quanti sono quelli devitalizzati. I miei denti, in proporzione, hanno avuto tanti guai quanti la minoranza curda in Iraq.

Questo fa di me una che in casa ha Arnica 30 CH, ghiaccio, clorexidina, ibuprofene, l'antibiotico giusto e il cd con le tecniche di visualizzazione antidolore già prima dell'intervento. Nonchè, abbiamo sperimentato stavolta, una che si cura un ascesso gengivale per quattro giorni da sola e, quando arriva dal dentista, è talmente ben pulita che non deve nemmeno prendere l'antibiotico.

"Ha preso qualche medicina, a parte l'antidolorifico?"
"Non ho preso niente."
"Ma ha preso l'antidolorifico, no?"
"No."
"No?"
"No, ho fatto senza."
La gente non ha idea di come funzionino le tecniche di training autogeno, le visualizzazioni e la respirazione yogica, finchè non prova. Stavolta ne ho provato una favolosa: gli omini vestiti di bianco che puliscono l'ascesso con cura, e arredano il dente come fosse un confortevole soggiorno, tutto bianco. Sì, lo so che si chiamano leucociti. Ma vi giuro erano molto belli visualizzati come piccoli operai volenterosi.

Detto questo, oggi l'estrazione è stata talmente tranquilla che ho solo:
- gridato (non emesso lamenti, quello qualche volta mi era successo, proprio gridato, prima volta in vita mia) dal male
- preso a calci la poltroncina (mai fatto prima)
- scostato brutalmente dalla mia faccia (sospetto anche sputazzandole addosso, in uno sbuffo di nervoso) l'adorabile assistente alla poltrona con cui vado tanto d'accordo, perchè dovevo buttar fuori l'aria tutta in una volta e avevo due o tre strumenti in bocca (anche questo è, e spero resti, un unicum).

Lei, affettuosa:
"Magari è più l'agitazione che altro"
E io, secca:
"No no. Fa male"

Mi sono scusata per mezz'ora, appena ho potuto, con il mio affascinante odontoiatra e con la ragazza, ma ormai avevo dato spettacolo, e tutto il coraggio dimostrato a casa non era servito a alzare il mio punteggio.

Non gliela racconto quella degli omini bianchi, mi sa. Ma voi tenetela presente, che magari nel privato di una notte di dolore vi può essere utile.

(Sì, se ve lo state domandando sì: ero comunque a casa in mutua per una complicazione della congiuntivite. Praticamente vengo da una settimana al buio e alcuni giorni di mal di testa da visione distorta. Il mal di denti, che ovviamente è venuto tra venerdì e sabato, in questo quadro gioioso è stato come la caramellina che ti lasciano sul cuscino le cameriere degli hotel.)










giovedì 28 novembre 2013

Quel che proprio non sopporto della vita adulta




Intendiamoci, io non capisco i kidult, quelli che a quarant'anni devono fare cose da ragazzini per stare bene con se stessi; io ho passato molti dei miei primi venticinque anni a desiderare che si spalancassero per me le porte della vita adulta e indipendente, e poi i successivi dieci a spalancarle (i battenti, ahimè, pesavano due tonnellate ciascuno).



Io sono contenta di essere grande.



Certo, avere la mia età significa che puoi avere qualsiasi tipo di grana, lavorativa, familiare, di salute, sentimentale, economica, e dovertela sbrigare. Io mi lamento, e spesso, del fatto che la mia vita è molto pesante: ma guardate che lo è sul serio. E poi non faccio mistero di avere alcune marce in più, tipo un marito che si sbatte parecchio, per affrontare questa vita.



Però ragazzi, c'è un momento ogni tanto in cui io darei qualsiasi cosa per tornare indietro, penso che mi riprenderei perfino la mia vita com'era in seconda media (che non è stata allegra). E' la mattina in cui mi sveglio che sto male e decido di non andare a lavorare.



Fatto salvo che negli ultimi anni ho lavorato a volte con la febbre, la tosse, l'afonia, la cistite, la gastrite, la colite, la congiuntivite, la rinite acuta, gli attacchi di panico e il mal di denti, se una mattina decido di stare a casa i casi sono tre: 1) ho qualcosa che richiede visita medica urgente perchè non capisco di che si tratti (tipo la volta che mi è finito un corpo estraneo nell'occhio, o la prima volta che ho tossito sangue e non sapevo che nel mio mestiere è assolutamente normale) 2) sto malissimo i.e. febbre alta o dissenteria tropicale 3) sono stata di merda per giorni, sono andata al lavoro lo stesso, e sono troppo malridotta per fidarmi a salire di nuovo in macchina. In pratica, il caso 1) richiede di uscire, ma i casi 2) e 3), se esistesse una giustizia a questo mondo, richiederebbero che io premessi un pulsante sul lato del comodino il quale inviasse a) telefonata al medico di base b) avviso telefonico, certificato Inps, schema delle possibili supplenze a scuola c) richiesta a tutti gli altri di arrangiarsi e lasciarmi in pace per 48 ore. E poi mi girassi di là e mi facessi una sana dormita riparatrice.



Ecco, quando invece io mi alzo barcollando, accendo DUE telefoni cellulari, preparo la colazione alla famiglia, mi occupo del cane, dei gatti, del bucato, poi inizio il purgatorio degli sms e delle telefonate (e però alle otto meno cinque da scuola non mi rispondono e alle otto e un quarto dal medico è occupato, e poi richiamo e trovo la segretaria, ma devo richiamare sia lo studio medico che la scuola, il primo dopo le dieci così mi dà il codice Inps, la seconda dopo aver ricevuto il codice Inps), e nel frattempo messaggiare con il vicepreside per le sostituzioni, avvisare eventuali colleghi / genitori con cui dovevo fare cose, disdire appuntamenti del pomeriggio, discutere con il marito su chi tappa i buchi delle cose da fare, e infine vestirmi, portare giù il cane a far pipì, mandare sette otto mail, ecco, QUELLO è il momento in cui baratterei il mio matrimonio, il mio lavoro, la mia casa, tutta la mia libertà conquistata a duro prezzo, con l'attimo in cui mio padre o mia madre mi dicevano “Niente, sei malata, stattene a letto” e io mi giravo di là e dormivo seppellita sotto otto chili di plaid fino alle cinque di pomeriggio.

giovedì 30 maggio 2013

Alla canna del gas

Lunedì.
Io detto un avviso a tutte le famiglie che recita una roba tipo: "14 su 23 non mi hanno portato il compito, rifletteteci un attimo".
Più tardi, la collega M. di francese detta una nota a tutte le famiglie che recita una roba tipo: "li ho richiamati tutta l'ora e non è servito a un cazzo, rifletteteci un attimo".
Sempre lunedì Dylan prende una nota dalla BN, Momo rutta in classe nell'ora di francese e Atreiu si fa un'ora e mezza di compiti di grammatica nel banco davanti alla porta delle presidenza.

Martedì.
Il collega Orsetto Lavatore di Religione detta una nota a tutte le famiglie che recita una roba tipo: "Dopo un anno in cui si dice questo e quest'altro, e loro si comportano uguale anzi peggio, rifletteteci un attimo, io mi riservo di non occuparmi di questa classe l'anno prossimo."

Mercoledì.
Nella mia ora di lettura viene in classe la preside e fa un culo così alla classe.

Giovedì.
Nell'intervallo tra due mie ore, Occhionitristi, che non so se qui ho chiamato diversamente in passato, ma comunque è l'altro alunno marocchino, il fratello dell'Araba Felice, PIANTA UNA MATITA DENTRO A UN BRACCIO DI ATREIU.
Poco più tardi Microlord fa i dispetti a Winnie Pooh, gli fa sparire i fazzoletti, e Winnie gli mette la bottiglia d'acqua fuori dalla finestra. Quando butto fuori Winnie, perchè l'ho visto fare casino, lui con lacrime agli occhi, guanciotte rosse e voce lagnosa sbotta: "Ma lui mi ha nascosto i fazzoletti!!!"
Ho urlato. Che mi faccio sostituire da una maestra dell'asilo e vado a cercarmi una vera seconda media in cui fare il mio mestiere.

Dovevo uscire alle 10,45. Alle 11,50 ero in un angolo del cortiletto, intenta a esaminare la testa di un alunno di prima, insieme alla Bestia Nera e a Orsetto lavatore, in cerca di lendini.

Ogni tanto penso che dovrei davvero essere pagata molto meglio, per questo lavoro.

sabato 25 maggio 2013

And you've got the fucking nerve to call it progress

Purtroppo, da qualche mese ci hanno diagnosticato una tremenda malattia degenerativa: Windows 8.

E' come avere una di quelle patologie che ti paralizzano pian piano.

No, ma io dico.

Mi faccio l'account Microsoft per accedere a tutte le app.

L'account non funge. Tento di accedere alla prima app, tutto bene. Dalla seconda in poi non mi vede online e mi chiede di loggarmi. Mi loggo. Non riconosce la password che gli ho dato, porca paletta, dodici minuti prima.

Okay. Mi faccio inviare la nuova password. Me la invia dove vuole lui, e cioè all'account .hotmail che mi ha fatto obbligatoriamente creare. Ora, io già di mio ho un account .libero, da sempre, un account .yahoo. un account .nomedellamiascuola e un account .istruzione. Se fossi una che lo fa, quando mi obbligano a creare un altro account smadonnerei. Comunque: faccio per andare sulla pagina di Hotmail, e guardare la posta con la nuova password. Non si può, perché Windows 8 prevede che Hotmail ti si apra solo con l'app, e per usare l'app devi essere loggato.

Non s'è visto un pc portatile nero volare dal mio terrazzo (quello con le bandierine tibetane, al secondo piano) solo perché lo abbiamo appena pagato.

Niente app.

Perché ci obbligano a cambiare?

Vogliamo parlare del diario di Facebook, quella merda cronologica impestata di bachi?

Del digitale terrestre, che adesso a Asti non abbiamo più la tele e a Genova ci sono diciannove canali religiosi, tre uguali sulle belinate locali, quaranta che non prendono il segnale, e tutto il resto a parte Mediaset trasmette solo Geordie Shore e il programma sulle spose ciccione?

E comunque a me la televisione non manca. Mi spiace solo che prima prendevo le news su Televideo e ora non ce l'ho, anche a Genova si impalla.

Però.

Visto che non abbiamo la tele, l'Uomo porta a casa un lettore BlueRay che aveva comprato per le proiezioni dei film horror del festival. Dice che è troppo meglio avere quello che il lettore dvd e declassa a Genova (dove, scopriremo, il televisore non ha la presa scart adatta) il lettore dvd.

Da qualche tempo, i dvd non si leggono più su questo nuovo apparecchio. Ma adesso, il blueray si pianta. Persino Robert Redford è brutto se si ferma a metà di una frase, con gli occhi chiusi e la bocca storta.

L'unica cosa che il lettore legge senza alcuna fatica è la chiavetta con le puntate di Game of Thrones. Che però, ogni volta che arrivano da non diciamo chi non diciamo come su un contenitore online, piantano il contenitore e rallentano tutto il pc per cinquanta ore.

Ora. Va bene che devo morire, devo lavorare e basta, ho mille cose da fare e poco tempo per stare sul divano e, nell'ultima settimana, dopo essere stata visitata lunedì mattina in farmacia a Paesino di Sogno perché mi sono sentita male arrivando a scuola, sono spesso andata a letto alle otto e quarantacinque. Però volessi vedere un film non credo che farei un tale torto all'umanità.

Non bastasse, da settembre la mia scuola media è la fortunata sperimentatrice del registro elettronico. Non solo quello personale del prof. Quello di classe. Ieri è scoppiata una rivolta in sala professori che sembrava di stare in piazza Tahrir. Non che non si voglia provare. Ma che la C. ci ha comunicato la cosa al collegio docenti, dicendo che tutte le altre dodici scuole del plesso potranno scegliere quando attivarlo, compresa l'altra media, e solo noi abbiamo l'obbligo perché ci ha scelto lei. E alla domanda se non fosse meglio, per sicurezza, avere anche il cartaceo, ha detto chiaro che i 5000 euro che sono arrivati per la dematerializzazione deve spenderli per la dematerializzazione. Oh già.
Io sono vari mesi che non faccio più mistero del fatto che, secondo me, la sola cosa da dematerializzare a Scuolina Rosa è lei. Anche perché l'Uomo ha appena cambiato preside e per l'ennesima volta ci rendiamo conto che veramente di presidi come lei non ne conosciamo molti.

sabato 30 marzo 2013

Quando una se la chiama

Posto due righe per dire che, con il precedente "morte di salute" mi sono autoscagliata addosso una maledizione.

E lo sapevo che non dovevo parlare di malattie, troppi blog parlano di malattie. Ma io credevo di parlarne in senso ironico, apotropaico, di reagire, di invitare la blogpopolazione a farsi del bene, a non piangersi addosso, a non soccombere.

Bene, comunque, non lo farò più. Sono due giorni che vado avanti a melaleuca alternifolia (chi può capire capisce) e bevo mirtillo rosso (anche qui, decodificate) e, ahimè, non c'entra niente lo honeymoon disease, solo un estemporaneo crollo totale del mio sistema immunitario.  

Sob. E io ce la stavo mettendo tutta.

Va beh, fuori piove eh. Quindi non è che sarei andata in molti posti. Poi per carità con le mani in mano non ci sono rimasta lo stesso, vi dirò poi.

domenica 10 marzo 2013

A proposito di sangue - un post vomitevole

Già che si parlava di splatter, il momento più rappresentativo di questo weekend abbastanza orrendo è stato quando mi sono portata a casa dall'ospedale il maglione di lana in cui papà, sfilandosi gioiosamente la cannula della flebo mentre dormiva, ha versato tipo mezzo litro di sangue.

Perchè, essendo in un reparto emergenze, dove tutti hanno molto da fare la notte coi nuovi arrivi, ed essendo lui un'emergenza risolta da giorni, non c'era particolare controllo stanza per stanza nelle ore di riposo; il vicino di letto dormiva beato, lui dormiva dissanguandosi, ma non lo sapeva perchè era sotto l'effetto di un sonnifero, e al mattino bello presto l'infermiera ha trovato il disastro, cambiato mio padre, cambiato il letto e messo pigiama e maglione in un sacco di plastica. Che, sul fondo, era diventato come il sacchetto della trota, dopo che l'hanno slamata al laghetto e te l'hanno confezionata per portartela a casa.

Dato che
a) io odio la pesca alla trota, e non da quando ho visto la luce sulla via del buddhismo, ma da quando avevo cinque anni e andavamo al laghetto con i nonni
b) io sento gli odori a distanza di chilometri
c) io tendo a svenire alla vista del sangue
d) io, dopo aver visto dal vivo qualsiasi cosa che abbia a che fare con le macellerie o gli ospedali, tendo a portarmi avanti per 48 ore un sordo mal di stomaco
ci si domanda come abbia potuto pensare di estrarre il maglione dal sacchetto e mettermi a lavarlo.

Ho flashes orrendi del quinto e del sesto risciacquo, in cui continuava a venir giù acqua rossa e io pensavo se, cadendo eventualmente svenuta, mi sarei fatta peggio in avanti, picchiando la faccia sul lavello, o indietro, battendo la testa sul pavimento: ma in quella è arrivata mia madre. Che si è chiesta ad alta voce non se io avessi bisogno di sedermi, di due schiaffetti e di una boccetta di sali, ma se il maglione si sarebbe infeltrito. Non che sia insensibile. E' che è un medico, LEI. Io NO. Le devono essere sfuggiti il pallore cadaverico e l'espressione lugubre con la quale le ho detto che non potevo semplicemente mettere a bagno il maglione e aspettare la Fata Pugliese lunedì, perchè c'era talmente tanto sangue che avrebbe puzzato subito mezza casa.

Mia madre non si ricorda di quella volta che è arrivata a casa, tanti anni fa, e non trovava più il sacchetto del macellaio, tanto che alla fine si era convinta di averlo posato sul bancone, pagando, e essere uscita dal negozio senza prenderlo. Senonchè tre giorni dopo, andando a fare la spesa con la sua Mini rossa, saliamo in macchina e notiamo un odore: che attribuiamo al fatto che ha piovuto e forse si sono un po' ammuffiti i tappetini. Poi lei scende, va nel supermarket e io no. Io cerco la fonte dell'odore che, al mio supernaso, non è per niente di muffa e viene dal sedile dietro. E così scopro conto che la Mini dietro ha come due tasconi portaoggetti, a fianco dei sedili, e in uno cosa c'è? Un sacchetto bianco. Con dentro qualcosa di marrone. Semisciolto. Che puzza, non fatemi dire di cosa, avete capito benissimo. Ecco, io dovevo avere tipo dodici anni e l'incoscienza della gioventù perchè ho preso il sacchetto, l'ho buttato in un bidone, sono tornata in macchina e poi le ho raccontato tutto, senza nemmeno vomitare. Succedesse di nuovo ora, smetterei di mangiare per una settimana.

Comunque, ho un attimo esagerato con il Napisan e il detersivo, quindi devo a mio padre un maglione di shetland grigio, perchè questo qua, che è profumatissimo e perfettamente pulito, è uscito dal lavaggio con la consistenza di un Muppet.

Però non sono svenuta, eh. Forse, Noise, dopotutto sono pronta per provare la Mooncup. Ma dopo la butto via perchè non me la sento di lavarla.

  

martedì 4 dicembre 2012

Begli incontri

Psicologa del consultorio: “Quindi, noi strutturiamo il lavoro in due incontri, il primo lo faccio io da sola ed ha una durata di un’ora e mezza, massimo due. Voi che orario fate?”

Castagna: “Otto - tredici e trenta.”

PdC: “In ore di sessanta minuti?”

Castagna (con sopracciglio divertito): “No, di cinquantacinque. Quindi sono sei unità orarie al mattino, perciò, se sono tre terze potrebbe fare due ore, due ore e due ore.”

PdC (seccata): “Beh no, un momento, tutte nella stessa mattina?”

Castagna: “Ah non so, io lo dicevo per lei, visto che mi dice che non avete molta disponibilità per spostarvi dall‘ASL, almeno così riducevate le uscite.”

PdC (sostenuta): “E però insomma, sono sei ore, voglio dire, seguire dei lavori di gruppo, no, io penso anche alla nostra salute mentale. No no, bisogna che io faccia due classi una mattina e la terza un altro giorno.”

Primo piano di Castagna (occhi verdi fissi sulla psicologa, con palpebra immobile)

PdC: “Vediamo la disponibilità sulle singole classi, per prevedere i giorni utili.”

Il Troll: “Sì, guardi, per facilitare le cose e non dover fare tanti scambi d‘ora coi colleghi, io per esempio con la III B ho tre ore di seguito il giovedì. O altrimenti, ho le prime due al martedì.”

PdC: “Ah però io alle otto non posso esserci, perché noi comunque dobbiamo prima passare di qui, comunque.”

Castagna (rivolge un pensiero all’incubo dell’ora di timbratura del cartellino che ha condiviso con sua madre, dipendente ASL, per diciassette anni, e infatti tace e guarda il tavolo)

Bionda Svampita: “Ah quindi lei dice magari meglio partire dalle nove? Bene, allora guardi, nella III A io il mercoledì ho le ultime due ore, se magari…” (e forse voleva dire qualcosa sul fatto di fare prima le ore dal Troll o da Castagna e passare in coda nella sua classe, ma non ci arriva)

PdC (espressione crucciata): “Mm. Sì… ma magari le ultime due ore, i ragazzi, voglio dire, l’attenzione potrebbe essere minore…”

Castagna (incolla gli occhi alla faccia della psicologa, palpebra fissa, sopracciglia in posizioni acrobatiche, labbra strette a fessura, ostilità visibile in tutto l’atteggiamento del corpo, e, mentre mentalmente ripassa i molti colloqui con psicologi, psicoanalisti e psicoterapeuti della sua esistenza, gioisce con ferocia di sapere che la psicologa, per mestiere, sa perfettamente cosa lei stia trasmettendo in questo momento. Le pare quasi di vedere le lettere luminose e colorate che si disegnano in stampatello nell’aria sopra il tavolo: M, A, V, A, I, A, F,,,)



Ma forse non dovevo essere così negativa. Quanto meno, costei non sarà una di quelli che sostengono che fare lezione agli adolescenti per un’intera mattinata non è un vero lavoro.

Oh, sì, in effetti questo proprio mi consola.

martedì 23 ottobre 2012

Le sessantaquattro arti

Posizioni assunte dalla preside sulla vexata quaestio della minorenne incinta:

1) In consiglio di classe: "Devo parlare con il consultorio, comunque mi hanno assicurato che ci mandano le psicologhe e il medico. Del resto è un bene, i ragazzi a una figura che viene da fuori possono sentirsi  liberi di chiedere molte più cose."

2) Con me sola, in aula computer: "Al consultorio ieri hanno detto di parlare con le classi, tutte le classi, facendo un annuncio abbastanza asettico, cercando di non dare giudizi nè interpretazioni e dicendo che, dopo, i ragazzi avranno modo di parlare con la psicologa e l'assistente sanitaria per qualsiasi dubbio. Comunque su quando fare l'annuncio aspettiamo il loro via, ci manderanno qualcuno per preparare gli insegnanti, e comunque devono parlarne con la ragazza e la madre. Poi, in un secondo momento, ci manderanno l'intervento sui ragazzi."

3) Nel giro di una settimana, si passa a parlare di fare lezione con l'assistente sanitaria solo alle terze, data anche l'opposizione (urlata) della collega di Scienze della mia seconda e quella (sottaciuta) di altri colleghi. Poi la C. tenta di far virare l'intervento solo sulla terza direttamente coinvolta. Riesco faticosamente a convincerla (almeno apparentemente) che dato che la mia alunna, che è in III C, ha una sorellastra in III A, sarebbe bene anche estendere all'altra terza, e allora, buon peso, buttiamoci dentro anche la III B, e finito.

4) Passano alcuni giorni e io riferisco ai colleghi che vedo, che non sono certo tutti, che lei mi ha detto che dovremo dare l'annuncio nelle diverse classi, però solo dopo l'okay della psicologa che discuterà degli aspetti legati alla privacy con la madre di Occhioni e Occhioni stessa. Non succede niente per un po',e io quando vedo la preside le dico che ho riferito la procedura che ci hanno indicato, ma non a tutti, solo a quelli con cui ho potuto parlare. Lei dice: "Eh, no, sì, devo dirlo ai coordinatori, magari oggi che ci sono le riunioni per l'elezione dei rappresentanti li convoco cinque minuti prima, così ci sono tutti e lo diciamo."

5) Una bella mattina il vicepreside mi dice "La psicologa del consultorio ha detto di parlarne con le classi, oggi lo diciamo in III C, vengo anche io." (E le psicologhe che dovevano parlarne con noi prima? Non pervenute.) Lo dico ai colleghi, con alcuni dei quali si era parlato di tutelarci e deciso che dovevamo essere almeno due adulti presenti ad ogni 'annunciazione'... Cadono dal pero. La preside non ha convocato nessuno nè detto a nessuno quel che aveva detto a me. Mi ritrovo con colleghi di ogni credo, razza e colore che mi soffiano contro tipo pantere, come fosse colpa mia, io riferisco testualmente cosa mi è stato detto che lei aveva intenzione di fare, così prendiamo atto che non lo ha fatto; in quella entra il vicepreside e gli sottopongo il problema, lui dice che intanto ora lo diciamo in terza e annunciamo pure che Occhioni a novembre si ferma a casa in maternità, e allora tutti i colleghi tirano un respiro di sollievo e quella di Inglese dice: "Ah beh allora non è neanche necessario dirlo a quelli delle altre classi, se tanto se ne va a novembre." (E' lì che io perdo definitivamente la fiducia nel prossimo, e decido che farò di testa mia dove posso, e mi parerò il culo chiedendo ai genitori l'autorizzazione a parlare di argomenti relativi all'educazione all'affettività coi loro figli, cosa che peraltro ho già fatto n volte in n scuole, senza mai avere un problema. Da cui la mia decisione, puntualmente messa in pratica, di parlarne nella mia seconda non appena uno dei bambini sfiora l'argomento.)

6) Ci ritroviamo io (coordinatrice) il vicepreside (autorità) la collega di Inglese (che era lì perchè aveva l'ora di lezione) e il collega di Religione (che è un ficcanaso) a dire alla terza, che lo sapeva benissimo, che Occhioni è incinta. Il vicepreside annuncia ufficialmente che Occhioni si fermerà a casa tra qualche settimana. Io condisco il tutto dicendo loro di regolarsi con buon senso, e di essere delicati con lei, e dico anche che abbiamo preso contatti col consultorio (stessa cosa avevo detto alle pochissime madri presenti alla riunione) perchè ci aiuti un po' con del personale esperto.

7) Occhioni mi interpella e mi sottopone il problema voti e interrogazioni. Analizziamo un po' la questione. Io le ripeto (già detto a sua madre) che esiste la possibilità di continuare a seguire dopo la nascita del bambino, oppure di ritirarsi e presentarsi da privatista. Le dico che devono parlare con vicepreside e preside per informarsi su cosa possano fare e come farlo.
Questo accade venerdì. Ieri madre e figlia si presentano dalla preside, e oggi la preside mi convoca e si lamenta che io abbia detto alla bambina questa cosa. Io spiego: non ho detto che deve ritirarsi, ho solo detto che la possibilità c'è, che potrebbe considerarla visto che non sappiamo se il suo bambino sarà un angelo o un mostro che non la farà mai dormire, e di parlarne con la dirigente. La quale oggi nicchia su tutto l'universo scibile e addirittura sul fatto che la ragazza stia a casa prima del parto: essendo un'utente di un servizio e non una lavoratrice, se vuole venire può. Io le dico allora che il vicepreside ha detto ufficialmente a noi e alla classe che Occhioni si fermerà a casa, lei ripete che non ne è sicura perchè ha il dubbio che invece possa frequentare, e alla mia domanda "Dove ha preso allora quest'informazione il Gigante?" lei dice testualmente "Se l'è inventato."

In tutto questo di psicologi che vengono a scuola non si parla più, figuriamoci di ginecologhe.

Commento libero.

mercoledì 3 ottobre 2012

Un inizio spettacolare, proprio

Sì, lo so, la pausa non è durata molto. Ma ho i miei validi motivi

sabato 11 febbraio 2012

Crystal nightmare

Come saggiamente fa notare un amico di post (amico di tastiera? insomma, un amico su Facebook), colonna portante della comunità GLBT genovese e universalmente noto per il suo proverbiale dono di non mandarla a dire, è disgustoso che tutti postino cazzate inutili tipo: "Caldo!" "Afa!" il 12 agosto, dalla città, o "Piove..." il 3 di ottobre, dalla campagna, o ancora "Brrrrrr! Si gela!" il 6 gennaio, dalle Dolomiti.

Cioè, d'inverno fa freddo. Perchè siamo in un clima temperato a quattro stagioni, e non in Zimbabwe. Elementare, Watson. Saggia cosa disse pure la Litti suggerendo che, se proprio dobbiamo stupirci di qualcosa, sia meglio stupirci di aver passato il Natale col cappottino leggero, qua in Piemonte. Che non è normale.

Tuttavia, spero di non suonare disgustosa anche io, ma un post sul freddo vorrei metterlo. Non per scrivere brrr. Che tanto sono ormai tre anni che non metto pantaloni di lana nè calzini lunghi o collant sotto i jeans, ormai sono acclimatata, metto i guanti a partire dai 4 gradi sotto lo zero perchè prima non mi si screpolano neppure più le mani, e il berretto solo se devo spalare la neve mentre sta ancora nevicando. E spesso mi beccano a dire, con spiccatissimo accento genovese, "euh ma come si sta bene oggi" e poi guardi il termometro e ci sono 2 gradi. Questo per dire che non mi lamenterei del normale freddo che fa qui a febbraio (passare due o tre giorni a meno 10 è la norma, in queste settimane, e nessuno sa cosa si intende per "giorni della merla" se non ha sentito sulla propria pelle il freddo umido di Torino, alle sette di mattina, verso la fine di gennaio).

PERO':

- abbiamo toccato i meno 20;
- sono esplose le grondaie (scena molto Final Destination, con me che sudo dalla paura rendendomi conto di esserci appena passata sotto);
- si sono fermate un numero preoccupante di macchine (per ora non le nostre, ma non si può dire) perchè s'è gelata la batteria;
- sono andate in blocco svariate caldaie condominiali (scena molto sovietica: l'Inflessibile in cucina coi bambini, con stufetta e forno acceso, doppio maglione e tè bollente);
- a Genova i miei genitori si sono fatti cinque giorni senza riscaldamento, temperatura meno 7 fuori, 9 dentro, e tramontana (scena molto brontesca: la povera Zia Bella, per descrivere la cima sferzata dal vento dove abitano i miei, usava dire, con voce fievole e disperata, come di chi grida da molto lontano: "Heathcliff! Heathcliff! Sono la tua Cathy!");
- nella nostra tana genovese, dal rubinetto veniva un filo d'acqua ferrosa (tubi gelati);
- qui s'è rincoglionita la valvola della calderina e l'acqua calda dura un minuto e mezzo, poi si spegne tutto; idem dicasi a casa di svariati colleghi che stanno nella Valle delle Meraviglie.

Ma se avevo qualche dubbio che il freddo di quest'anno fosse un po' sopra le righe, mi è passato oggi.

Sono partita e qua non era male.
Il primo sospetto che la situazione fosse un po' troppo siberiana mi è venuto passando un ponte sullo Jenisei. Pardon: sul Tanaro. Completamente ghiacciato e ricoperto di neve. Mai visto, almeno non da me.
Poi nelle gallerie dell'A26: colonnati di ghiaccio che uscivano dalle crepe delle pareti, toccavano terra e si allargavano con un grazioso strascico sul marciapiede di servizio e da lì sulla carreggiata. Su TUTTI E DUE i lati. Ergo, si viaggiava al centro. In un punto sono passata troppo esterna, ho messo una ruota sul ghiaccio, visto la Madonna nel bianco degli occhi e deciso che non lo avrei rifatto.
Al Turchino, oltre a queste impressionanti colonne gelate e ai soliti ghiaccioli lunghi come un braccio lungo i lati delle gallerie, ce n'erano due ENORMI, qualcosa come un metro e dieci di lunghezza, al CENTRO della volta della galleria. Che sembravano messi lì apposta per farti indagare con onestà dentro di te se, in caso di morte improvvisa, la tua anima sarebbe stata in grado di cavarsela con un po' di Purgatorio o se saresti finito sparato in braccio a Draghignazzo e Farfarello. O anche, a seconda dei punti di vista, se ti saresti reincarnato in una tenia, in una blatta o almeno almeno in un gabbiano.
Peraltro, i ghiaccioli nelle gallerie sono la norma, sull'Appennino, magari non così enormi. E' quando continui a vedere ghiaccioli di quaranta centimetri nelle gallerie tra Voltri e Pegli che ti fai delle domande.

Ma soprattutto.
Sono arrivata in cima alla collina genovese dove ("Heathcliff! Heathcliff!") abitano i miei. E di norma mi devo fermare e, con la macchina scossa dal vento come un Tirrenia con mare forza 6, devo aspettare che si apra il cancello carraio. Ma con questo freddo il cancello bisogna spingerlo a mano perchè si blocca. Rallento, mi fermo, con già l'imprecazione a fior di labbra perchè devo scendere dall'auto nel vento gelido (temperatura di oggi a Genova: 3), e invece di scendere alzo gli occhi, apro la bocca e resto così, come una povera scema.

Perchè il palazzo dei miei genitori, per un quarto, e precisamente per il quarto che fa angolo con la strada, E' COMPLETAMENTE RICOPERTO DI UNA GLASSA DI GHIACCIO. Che scende tipo decorazione di una torta dal tetto sul cornicione, dal cornicione su tutti i terrazzi sotto, con graziosi festoni di ghiaccioli che pendono dal tetto, dalle ringhiere, dai vasi, dalle maniglie delle tende, dai pavimenti dei poggioli.
E' scoppiato un tubo dell'acqua sul tetto e ha trasformato la camera di mia madre, che sta al piano attico proprio su quell'angolo, in un igloo,e il resto del palazzo in quell'hotel di ghiaccio che hanno costruito in Finlandia (o era in Groenlandia?).

Cioè. E' bellissimo. Ma mi viene un mezzo attacco di panico.

Com'è come non è, la casa dei miei è mediamente calda. Tradotto, ci fa come al solito un freddo bastardo, rispetto a casa mia (se vi piacciono gli attici enormi, ricordatevi che mettere qua e là qualche porta potrebbe essere una mossa furba, per quanto l'open space sia una gran figata sulle riviste di arredamento), ma si sente che i caloriferi funzionano.

I miei non ci sono.
Si scoprirà più tardi che sono andati al canile di Sant'Alberto, sul monte Contessa, a consegnare un quintale di coperte e lane ai volontari. Rischiando di perdersi, perchè i Sestresi vanno fierissimi del loro nuovo canile e tutti sanno dov'è, e quindi non è segnalato. Ora, io al monte Contessa ci andavo con l'Uomo i primi tempi della nostra storia, a passeggiare d'estate, perchè c'è una vista incredibile, c'è il cimitero dove sono i suoi nonni e dove un giorno vorremmo essere anche noi, e c'è un eremo dove avevamo deciso di sposarci, se proprio dovevamo sposarci in chiesa. E data la nostra conoscenza (anche abbastanza biblica, nella stagione adatta) di questo luogo, romanticissimo, primitivo, verdeggiante e selvaggio, con stradine mantenute a fatica dai cinque coraggiosi abitanti della cresta sopra il cimitero, io ero convinta che i miei oggi si sarebbero persi o sarebbero volati giù con la Peugeot da una curva ghiacciata e sarebbero stati sbranati dai lupi. Forse mi ero un po' impressionata per il Crystal Palace di Albaro, però, perchè alle cinque mia madre era come al solito sull'autobus che scorrazzava in centro, e mio padre a casa a riflettere sulle tasse e sulle questioni immobiliari.

Io invece ero a casa mia a Asti e, dopo aver "lavato i piatti" con pentolate d'acqua scaldata sul fornello, mi preparavo a "fare la doccia" con lo stesso sistema. Per sicurezza ho versato nel catino sul fondo della doccia l'acqua delle pentole, poi mi sono tutta bene insaponata. Poi però era un casino sciacquarsi. Così ho chiamato aiuto: volevo che l'Uomo mi portasse una brocca dalla cucina per versarmi l'acqua addosso.

E vorrei che sapeste questo, di me. Io non sono una donna ad alto mantenimento, per certe cose. Negli ultimi undici anni ho dormito per terra, mi sono cambiata tutta, mutande incluse, nel cesso di un treno, ho vissuto in case dove non c'era ancora il gas, non c'era il forno, non c'era il frigo, non c'era la lavatrice, etc. Ho portato avanti e indietro pacchi, scatoloni e valigie come una bestia, lavato roba nei catini e steso sui termosifoni, spostato elettrodomestici, un paio di volte dai buddhisti mi sono lavata in un bagno con dentro un piccione. Vivo. Seduto in alto, su uno spigolo del muro sopra la doccia, a fare "trrrruuu trrrruuuu", o come cazzo fanno i piccioni vivi. Sono scesa in cantine buie piene di ragni albini. Sospetto di avere uno scorpione che vive dietro uno scaffale Ikea nel mio corridoietto a Genova.
Cioè, se non fosse che ho paura degli aerei e delle intossicazioni alimentari, potrei partire domani con Médécins Sans Frontières.

Ma cazzo, oggi, quando l'Uomo si è presentato in bagno con la parte sotto dello spremiagrumi e io l'ho usata per tirar su l'acqua dal catino e sciacquarmi, mi veniva da piangere.