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venerdì 8 maggio 2020

Prima di noi















Quattro generazioni che attraversano un secolo di storia italiana: dalla prima guerra mondiale ai nostri giorni. Di solito nutro una certa diffidenza per i libri lunghi (come anche i film) e questa è un'opera colossale che tuttavia si legge tutta d'un fiato nonostante le quasi novecento pagine. 
Giorgio Fontana (autore che non conoscevo, classe 1981) ci regala un grande romanzo che poi è la storia di milioni di famiglie italiane; lo fa con personaggi credibili alle prese con la Grande Storia; come lo siamo tutti in fondo e come recita De Gregori ne La Storia siamo noi. Una cicatrice che resta impressa sulla pelle. Si inizia con la disfatta di Caporetto e la fuga di un soldato disertore nelle campagne friulane, per poi proseguire con l'avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, la ricostruzione, le lotte operaie, le contestazioni giovanili, il terrorismo, fino alla globalizzazione e alle fragilità dei giovani del nuovo millennio. Ho rivisto in parallelo la storia dei miei nonni: quello paterno tornato traumatizzato dalla Grecia con i piedi in cancrena e quello materno, falegname analfabeta, inventore di filastrocche romagnole (zirudell) per sfottere i potenti. Poi mio padre, la sua breve militanza in potere operaio e la fede a tratti ottusa di quelli della sua generazione nel sol dell'avvenire; fino alla frattura generazionale di fine anni settanta e l'incapacità di familiari e parenti di capire ogni mia scelta. Infine le problematiche complesse delle giovani generazioni che ho modo di toccare con mano grazie al lavoro che svolgo. Un libro ambizioso sì, ma anche molto coraggioso con riferimenti alla grande letteratura. Progressivamente ci si affeziona ai personaggi e infine ci si innamora di questa saga familiare nella quale mi sono immerso con una passione come non accadeva da qualche anno.
Per la potenza del racconto e per il suo ampio respiro vedrei bene un adattamento cinematografico o ancor meglio seriale.

sabato 9 novembre 2019

Il VARCO

Le storie esistono ovunque, basta andarle cercare. Poi bisogna poi saperle raccontare, ma pochi ne sono veramente capaci. E' quello che sono riusciti a fare in maniera formidabile Federico Ferrone e Michele Manzolini, già autori di Il treno va a Mosca, con questo lungometraggio realizzato con materiale d'archivio e presentato a Venezia nel sezione Sconfini. Per completare l'opera i due registi si sono affidati alla voce di Emidio Clementi dei Massimo Volume e alla penna di Wu Ming 2. Due anni di ricerca in vari archivi hanno portato alla scoperta di materiali eccezionali girati privatamente da due soldati italiani durante la campagna russa della seconda guerra mondiale. Documenti incredibilmente preziosi che si sono salvati grazie al ritorno dei due militari da una licenza prima di un disastro che si può definire il cuore di tenebra italiano.


Dai registi:“La ricerca che abbiamo fatto ci ha portato a scoprire vari fondi archivistici realizzati dai soldati in Russia. Molti sono noti, come quelli dell’Istituto Luce, altri completamente inediti, come quelli delle famiglie Franzini e Chierici. Il punto forte è stato usare questo materiale per rompere con il documentario e inventare una storia verosimile, legata alle coordinate storiche. Usare un personaggio nuovo, di finzione, con particolari precisi (ha un passato sporco che lo perseguita dalla sua esperienza in Africa, ha legami famigliari con la Russia) ci ha dato una libertà. Creare questo personaggio pone delle questioni narrative e morali importanti, non tanto quando le immagini raccontano una storia collettiva ma quando si affronta la sua parte intima. Abbiamo utilizzato l’archivio personale di una persona reale per raccontare la vita privata nel nostro protagonista.

Nell'estate del 1941, la Germania nazista invade l’Unione Sovietica e poco dopo l’Italia manda i suoi primi soldati sul fronte ucraino. I giovani volti sorridenti affacciati ai finestrini del treno sono totalmente ignari dell'inferno che li attende. Si attraversa l'Austria, l'Ungheria e la Romania fino ad arrivare in territorio sovietico, in un'Ucraina spettrale e devastata dai bombardamenti, dove incontrano i primi prigionieri russi. L'esercito di Stalin sembra vicino alla resa... ma i conti si salderanno più avanti con l'arrivo del Generale Inverno. Quei volti segnati, quei militari che marciano in mezzo alle macerie e al fango aprono uno squarcio nella Storia e rimandano ai film di guerra più prestigiosi della storia del cinema come Orizzonti di Gloria. Ho vagato con la mente ai pochi ricordi della storia di mio nonno, che ho conosciuto solo da bambino, tornato traumatizzato dall'Albania con i piedi amputati per la cancrena e finito al Manicomio di S. Maria della Scaletta di Imola.
Nel complesso un fantastico lavoro di montaggio, musica e sceneggiatura. Un film ibrido; un esperimento ben riuscito attraverso un tipo di narrazione che impatta con forza anche con l'attualità, soprattutto quando gli autori realizzano un parallelo utilizzando riprese dei giorni nostri, essendosi recati negli stessi luoghi dell'Ucraina solcati dall'esercito italiano nel 1941. 
Dopo la proiezione c'è stato l'incontro con l'autore della colonna sonora (Simonluca Laitempergher) e con uno dei registi (Minzolini) particolarmente legato alle nostre zone, perché il suo primo film è nato proprio grazie al materiale girato dal padre ex-partigiano di una nostra amica, recatosi a Mosca negli anni '50. In sala abbiamo portato la sua gloriosa telecamera in Super 8: la prima che probabilmente ha filmato senza i filtri e in diretta l'inganno del comunismo di Stalin.




mercoledì 24 aprile 2019

Ericailcane e Bastardilla: resistenza e liberazione in un murale

In questi giorni abbiamo seguito in diretta la realizzazione di un murale ad opera della coppia di street artists formata da Bastardilla ed Ericailcane. Un progetto che ha coinvolto le scuole tramite laboratori e Cuma Project, un'associazione che raccoglie fondi per quelle popolazioni indigene le cui storie di resistenza non trovano spazio nei media principali. 

E' stato emozionante vedere il lavoro prendere forma, soprattutto nell'ultima giornata quando sono emerse le simbologie legate ai nostri luoghi, alla loro memoria e alle radici di questa parte della Romagna. Lungo questo fiume il fronte si fermò per tutto un inverno e tra il dicembre 1944 e l'aprile del 1945 vi fu uno degli scontri più cruenti della seconda guerra mondiale con 330 civili morti: a nord dell'argine i tedeschi, dall'altra parte gli alleati. I partigiani un po' ovunque: infatti tante strade, anche la mia, portano i loro nomi. Qui la resistenza e la liberazione sono ancora valori vivi e contemporanei, specie in un momento come quello attuale in cui la crisi economica sta spingendo chi detiene il potere a rispolverare ideologie autoritarie, razziste e neofasciste. Il murale, oltre a dare luce ad un grigio ponte di cemento, rappresenta un urlo di gioia per la libertà ritrovata ed un messaggio da parte chi non dimentica.
Muri puliti, popolo muto. Buon 25 aprile!

"Bastardilla è quello che c'è nella strada ... le sue immagini, nient'altro". Così parla di sè la street artist trentaduenne di Bogotà (Colombia), nota a livello internazionale. Le sue fonti di ispirazione principal sono la percezione e la condizione femminile nel mondo. Le piace raccontare, attraverso le sue opere, la forza delle donne. Spiega che le sue rappresentazioni di donne sono spesso degli autoritratti, tanto dal punto di vista fisico quanto dal punto di vista concettuale. Le piace l'idea di poter restare anonima, in un'epoca incentrata sull'autopromozione della propria immagine. Quello che le interessa è dipingere nelle strade, per poter condividere il suo lavoro con il mondo. Considera la pittura un modo per avvicinarsi alle persone.

Work in progress
 


















































Ultimi ritocchi ai lupi partigiani




















lunedì 25 giugno 2018

Uccidi Paul Breitner: quella maglia color arancione utopia

I primi istanti della finale della Coppa del mondo del 1974.
In campo Germania Ovest e Olanda. Dal calcio d'inizio i giocatori in maglia arancione toccano la palla quattordici volte di seguito con quattordici giocatori in continuo movimento e in perenne interscambio di posizioni tra loro, fino a quando il quindicesimo giocatore che poi indossa il numero quattordici e risponde al nome solenne di Johan Cruijff, al termine di un'improvvisa progressione individuale entra in area ed è atterrato dal difensore tedesco Uli Hoeneß. L'arbitro fischia rigore. É passato meno di un minuto. La Germania Ovest non ha ancora toccato la palla. É il momento più alto e sublime del "calcio totale".


“Uccidi Paul Breitner” di Luca Pisapia (Alegre, pag. 285)


In tanti credono di saper raccontare di calcio, ma è una dote che in pochi hanno: in questo libro Luca Pisapia lo fa in una maniera affascinante, evitando l'onanismo del pur bravo Federico Buffa e la spocchia dei tecnici pallonari e filosofi che salgono in cattedra. Partendo da Argentina 1978: i mondiali della colpa (quando i desaparecidos venivano torturati e assassinati nei bunker di regime) e della marmellata peruviana, fino alla più recente edizione in Brasile grondante corruzione, una narrazione che mette in luce i grandi eretici e i visionari del pallone senza tralasciare i contesti socio-politici. Da sempre, fin dall'inizio del XX secolo, le dittature, la politica ed i potentati economici hanno trovato nello sport e nel calcio in particolare uno dei loro principali strumenti di propaganda. L'altra faccia della medaglia, quella più moderna, è quella dove il calcio è potere, declinato nella corruzione fondamento delle democrazie capitaliste. É l'evoluzione di un apparato ideologico utile a produrre consensi e che nella declinazione berlusconiana raggiungerà una delle sue massime espressioni, per poi essere a sua volta superato da una globalizzazione sempre più vorace che sta portando i prossimi mondiali in Qatar.
Pagina dopo pagina, fiction e realtà storica scorrono su binari paralleli per poi intrecciarsi in modo avvincente. Una controstoria a tratti struggente, che scava nel profondo ed emoziona chi come me da ragazzino aveva pianto di rabbia nel vedere l'Olanda scippata del titolo che avrebbe meritato esattamente 40 anni fa in una finale nella quale l'arbitro italiano Gonella permise di tutto all'Argentina del dittatore Videla. Dieci anni dopo la nostra folle squadra amatoriale avrebbe avuto come divisa quella stessa maglia color arancione utopia.

martedì 20 giugno 2017

The Handmaid's Tale - Il racconto dell'ancella

Quali brutture è in grado di produrre l'umanità quando il fanatismo ideologico o religioso dilagano e prendono il sopravvento? L'abbiamo visto fin troppo bene in Europa con i nazionalismi del XX secolo, lo vediamo e lo stiamo subendo oggi a livello internazionale e forse, purtroppo, potremmo vederlo ancora in futuro.
Ecco perché The Handmaid's Tale (Il racconto dell'ancella), la serie tratta dal romanzo della scrittrice canadese Margaret Atwood, tempo fa l'avrei vista con occhi diversi. Oggi fa impressione; una storia scritta trent'anni fa e riadattata per i nostri tempi, che racconta l'avvento negli Stati Uniti di una teocrazia di fanatici cristiani i cui teologi fanno applicare in modo distorto alcuni precetti biblici tratti dalla Genesi. Razzismo e misoginia hanno infettato la società con una perdita progressiva delle libertà personali, erose impercettibilmente giorno dopo giorno fino alla sospensione della Costituzione. Il Canada rappresenta l'unica via di fuga verso la salvezza dove gli americani dissidenti possono godere dello status di rifugiati.
Come ha detto in un'intervista la scrittrice «nulla che il genere umano non abbia già commesso, da qualche parte nel mondo e in qualche periodo della storia» In un modello distopico che ricorda in diversi aspetti quello orwelliano, ritroviamo infatti un repertorio di orrori che purtroppo abbiamo già conosciuto nella nostra Storia: le deportazioni nei campi di lavoro, la repressione delle minoranze, lo Stato oppressivo dei paesi dell'Est di sovietica memoria, la capillarità della rete dei delatori, qui denominati occhi, la statalizzazione del corpo delle pochissime donne fertili: le ancelle, obbligate al servizio presso le famiglie appartenenti all'elite governativa con l'unico scopo di procreare per loro. Una sorta di congrega di giovani donne, sottomesse e costrette a vestirsi con tonache rosse. 

Il racconto dell'ancella inizia subito con la fuga e la cattura di June, separata dalla figlia e dal marito per poi essere destinata, dopo un periodo di rieducazione, al servizio presso una coppia sterile. Dalla sua narrazione con l'innesto di numerosi flashback vengono ricostruiti i dieci anni di storia che hanno portato alla deriva della società: guerra civile, inquinamento, malattie, fino al rischio dell'estinzione. Nella stesura originale del romanzo si apprende la sua storia grazie al ritrovamento, due secoli dopo, delle cassette con le sue registrazioni trascritte dagli storici che stanno studiando quel periodo storico ormai lontano. Elisabeth Moss (la detective di Top of the Lake) è la protagonista con un'interpretazione straordinaria per la sua capacità di esprimere la ribellione soprattutto nei piccoli gesti. Un impatto visivo devastante con una cura dei dettagli che fa la differenza e una verosimiglianza al mondo reale che mette veramente angoscia; allo stesso tempo affascina in modo ipnotico e ti travolge.
Altro protagonista è Joseph Fiennes nel ruolo del comandante che in un'intervista ha detto: La domanda non è se la serie sia sfacciatamente politica: certo che lo è, quello che conta è che non si riveli una profezia. Prodotto da Hulu, ma ancora inedito in Italia. E adesso magari passiamo a qualcosa di più spensierato in sintonia con l'estate che sta esplodendo.











LEGENDA VOTI

@ una cagata pazzesca
@½ pessimo
@@ trascurabile
@@½ passabile
@@@ buono
@@@½ da vedere
@@@@ da non perdere
@@@@½ cult
@@@@@ capolavoro

mercoledì 4 gennaio 2017

Quarant'anni fa un titolo profetico: Disoccupate le strade dai sogni

















Dopo il successo di Ho visto anche degli zingari felici e lo sdoganamento verso un pubblico più ampio, nel 1977 Claudio Lolli se ne uscì con album cupo e spigoloso, figlio della repressione delle rivolte che ebbero l'epicentro nella grassa e dotta Bologna del Pci di Zangheri. Ribellione che segnò anche la fine delle illusioni all'alba del 13 marzo, quando una colonna di carri armati sfilò nelle strade del centro. Trent'anni dopo, in un'intervista, l'ex sindaco ammise: di quei giovani non è che avessimo capito un granché. Io che a Bologna c'ero (anche se all'epoca ero solo uno sbarbatello che ci andava di nascosto dai genitori) non posso che confermare. Un vizietto che ancora oggi la sinistra italiana - se così vogliamo chiamare il PD - non ha ancora perso. 

Ed il potere
nella sua immensa intelligenza
nella sua complessità.
Non mi ha mai commosso
con la sua solitudine
non l'ho mai salutato come tale.
Però ho raccolto la sfida,
con molta eleganza e molta sicurezza,
da quando ho chiamato prigione la sua felicità.


Incubo numero zero
Disoccupate le strade dai sogni,
per contenerli in un modo migliore,
possiamo fornirvi fotocopie d'assegno,
un portamonete, un falso diploma, una ventiquattrore...




Di Bologna, dopo 40 anni, che dire... Forse le sue strade non fanno più sognare i giovani, ma io la amo ancora: da Piazza Maggiore ai suoi 40 chilometri di portici; i pochi anni trascorsi lì, sono una parte fondamentale di quello che sono diventato. 
Purtroppo ormai per immaginare un futuro, se non più a cambiare la società, tanti ragazzi (anche non più ragazzi) prendono la via dell'estero: in fuga dall'incubo dei voucher, dai mediocri politici di turno e da un paese dove la ricchezza delle famiglie over 65 è sette volte superiore rispetto a quelle under 30. La prima generazione del dopo-guerra che ha visto arretrare, quasi di colpo, i propri diritti e privilegi. 
Allora mi viene in mente una scritta sul muro. Forse è una storia già vista, chissà... o forse riuscire a fuggire è già una piccola rivolta.


martedì 9 febbraio 2016

Il primo social network prima che i social network venissero immaginati


Il 9 febbraio 1976 con l'inno americano storpiato da Jimi Hendrix iniziarono a Bologna le trasmissioni di Radio Alice, la radio che diede una spallata al mondo della comunicazione. Un'avventura durata poco più di un anno e conclusa con i carri armati in città e la drammatica chiusura in diretta con i carabinieri a fare irruzione durante le trasmissioni.
L'idea di rete bidirezionale e di comunicazione orizzontale; l'utilizzo per la prima volta al mondo del telefono in diretta senza filtri; la libertà di comunicare aperta a tutti, sono partite da qui. Come ha raccontato Bifo, un esperimento frutto «di poeti, artisti pazzoidi e di hacker antelitteram, sperimentatori tecnici». Durante le rivolte del '77 a Bologna la radio fungeva da catalizzatore, un server che smistava informazioni e controcultura quando l'etere era ancora un territorio vergine, fino a quel momento monopolio esclusivo della RAI. Bisognava esserci per capire l'entusiasmo che si respirava.
Oggi molte radio ricorderanno quella prima trasmissione: lo speciale in contemporanea su Radio Città Fujiko e Radio Città del Capo di Bologna, sarà ritrasmesso anche da Controradio Firenze, Radio Popolare Verona e Radio Flash di Torino. Ricordi anche su Radio Capital e Radio 2.

Strano il 1976. In Italia i gruppi stranieri non venivano più a suonare. Un anno di passaggio che ha sancito il tramonto definitivo dell'utopia hippie e di un certo modo di stare insieme (basti pensare al naufragio disastroso del Festival del Parco Lambro) preannunciando l'imminente rivoluzione, non solo musicale ma anche estetica, portata dal punk e dalla new wave. Bastava procurarsi un trasmettitore e nel giro di poco tempo l'idea sovversiva di collegare i fili del telefono all'antenna dilagò in tutta la penisola moltiplicando in pochi mesi le radio libere.
L'anno dopo tenevo già un programma settimanale di musica e letteratura senza dover rendere conto a nessuno. I primi ascoltatori furono i miei compagni di scuola. Era Radio Graal, la radio più anarchica di tutta la bassa romagna in cui ti potevi permettere di mettere su senza problemi un brano dei Gong anche se teneva tutta la facciata B del vinile, oppure leggere poesie di Rimbaud e Majakowskji.

Nessuno può immaginare il pathos che regnò quella sera che, come sempre in diretta, alzammo la cornetta del telefono per rispondere ad una telefonata in arrivo e, invece della voce di un ascoltatore, sentimmo uno struggente assolo di sax. 
Valerio Minnella, uno dei fondatori (dal blog Wuming).

Un buon film che ripercorre quel periodo è Lavorare con lentezza di Guido Chiesa del 2004. Si anche vedere qui dall'internet archive no profit in streaming o in download.

lunedì 30 novembre 2015

Peaky Blinders 2° stagione



Come ho già segnalato, la serie inglese Peaky Blinders (1° stagione su Netflix) ha una colonna sonora strepitosa. Volutamente anacronistica (vista l'ambientazione negli anni successivi la prima guerra mondiale a Birmingham) ma incredibilmente efficace. Abbiamo appena finito la seconda serie sottotitolata e ci sentiamo come in astinenza.
Nella seconda stagione, ai vari Tom Waits, Nick Cave, White Stripes, si sono aggiunti PJ Harvey e Arctic Monkeys. Per me nel suo genere è un capolavoro. Tanto di cappello a Steven Knight, regista e sceneggiatore di Birmingham che nel contesto di una serie crime, è riuscito anche a raccontare un periodo storico complesso che ha visto la nascita dell'IRA, la diffusione del comunismo e dei movimenti operai, la crisi dell'industria inglese e la conseguente disoccupazione di massa. Sono anni di crisi in cui la delinquenza prolifera con i furti, il contrabbando di armi, alcolici, tabacco e soprattutto con le scommesse clandestine, il ramo dove si è specializzata la famiglia Shelby: una gang di fratelli e parenti metà gyspy e metà irlandesi. Il più sveglio di tutti, il fratello di mezzo Thomas, tenterà la scalata al crimine prima fra le gang di Birmingham per poi spostarsi a Londra sfidando la mafia  e gli ebrei che si sono spartiti le attività illegali della città. Si fanno chiamare Peaky Blinders per via delle lame nascoste nel risvolto della coppola per sfregiare gli avversari. Gang effettivamente esistita e attiva Birmingham in quel periodo.
I veri Peaky Blinders in una foto d'epoca



















Nel cast il gangster dagli occhi di ghiaccio interpretato da Cillian Murphy, opposto al feroce poliziotto interpretato da Sam Neill.

Voto IMDB:









Voto teiera:



sabato 25 aprile 2015

Resistenza e Liberazione


Pistoia, dicembre '44 - Gruppo di partigiani/e accoglie le truppe SudAfricane



È meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature. (Sandro Pertini)

martedì 23 dicembre 2014

Pride per evitare i cinepanettoni



Sono passati trent'anni da quando nel 1984 il pugno duro della Thatcher si abbatté sui minatori del Galles con la chiusura programmata di venti siti estrattivi di carbone; un provvedimento che equivaleva alla perdita di 20 mila posti di lavoro. Iniziò uno sciopero a oltranza che diede vita al più grande scontro di classe nell'Inghilterra del dopoguerra. Una lotta durissima durata più di un anno e costata due morti, quasi 2000 feriti, migliaia di arresti e licenziamenti per rappresaglia. La sconfitta di quelle lotte portò poi al liberismo sfrenato che generò sì ricchezza, ma anche grande disparità sociale. 
Una parte della storia è raccontata in Pride da un'angolazione particolare partendo da un episodio realmente accaduto, quello che vide due minoranze solidarizzare in maniera imprevedibile: i minatori del Galles insieme al movimento LGSM (Lesbians & Gays Support Miners) che per supportare le lotte dei lavoratori gallesi promosse una raccolta di fondi culminata con il concerto del 10 dicembre 1984 all'Electric Ballroom di Camden. (Sting ed Helton John declinarono l'invito che invece fu accettato da Jimmy Somerville dei Bronski Beat).

Il regista Matthew Warchus confeziona un film coinvolgente, raccontato con il classico stile inglese dove i momenti di drammatici e quelli divertenti si alternano con ritmo. Trattandosi di una commedia gli si perdonano i passaggi più ruffiani e superficiali, anche perché la storia è in grado di restituire in maniera intatta il mood di quegli anni grazie ad una strepitosa colonna sonora e a scene esilaranti come questa. Tra i coming out dei figli della buona borghesia inglese e lo spettro incombente dell'Aids, un film corale che descrive con leggerezza il modo in cui si possono spezzare le barriere del pregiudizio. Giovani e anziani, gay ed etero, radicali e proletari uniti per una battaglia che coniugava il diritto al lavoro con i diritti civili.
Incredibile a dirsi, i rudi minatori gallesi nel 1985 si unirono alla testa del corteo del Gay Pride a Londra. In seguito le Unions inglesi accettarono per la prima volta di includere nel loro statuto i diritti dei gay proprio su pressione dei minatori.
Distribuzione fuori dai circuiti maggiori per uno dei pochi film usciti a Natale che merita di essere visto in mezzo alla solita invasione di cine-panettoni.

Voto


  

lunedì 15 dicembre 2014

Il sale della terra

Vent'anni fa Wim Wenders acquistò in una galleria due fotografie che lo avevano colpito senza sapere chi fosse l'autore. In particolare il ritratto di una donna tuareg cieca scattato in Mali nel 1985. Da qui nacque la sua passione per il lavoro e le opere di Sebastião Salgado.

Wenders è un regista che ho amato tantissimo fino ai primi anni '90, ma che da un certo punto in poi ho smarrito per strada. Non so spiegare il perché, tuttavia sono contento di averlo ritrovato in questo splendido documentario sulle tracce di Salgado, fotografo brasiliano che per decenni ha attraversato il nostro pianeta documentando la condizione umana per poi dedicarsi nell'ultima fase della sua vita alla potenza e alla poesia della natura nel progetto Genesi. Immagini primordiali, di una bellezza che toglie il fiato:
In Genesi vedrete dunque fotografato ciò che noi tutti insieme dobbiamo, e sottolineo dobbiamo, proteggere. Quella parte cioè che resta estremamente viva - forse un 45% - ed è ancora come al tempo della Genesi. 
Quello di Salgado è un percorso monumentale durato quarant'anni e iniziato con Other Americas, il primo viaggio in America Latina intrapreso per descrivere la vita delle comunità indios e contadine più sconosciute, e giunto a compimento con la creazione di Instituto Terra. Quasi un'utopia nata da un'idea della moglie e divenuta realtà nello stato di Minas Gerais, dove l'abbattimento della fore­sta pluviale atlantica aveva portato alla desertificazione di una vasta zona, che comprendeva anche la fattoria della fami­glia Sal­gado. Due milioni di alberi piantati che in soli dodici anni hanno ricreato l'ambiente naturale originale e dato vita ad un centro di educazione ambientale per gli studenti, nonché a un parco nazionale.





Tornando al film, durissima al limite dell'insostenibile, è la parte in cui lo stesso Salgado racconta e mostra il suo lavoro di testimonianza dai luoghi dell'orrore: il primo viaggio in Africa insieme a Medici Senza Frontiere durante la carestia nel Sahel; poi anni dopo, il geno­ci­dio in Rwanda, la guerra nella ex Jugoslavia e infine il Congo nel 1997: esperienze devastanti, faccia a faccia con gli abissi della follia umana che lo fecero ammalare di una profonda depressione.
C'è chi ha criticato Wenders e Salgado stesso di un approccio alla Bono Vox ai problemi del mondo. A me sembrano critiche superficiali o per partito preso; penso che il regista tedesco abbia trovato la chiave giusta per raccontare l'arte di un uomo limpido e intellettualmente onesto, adottando tre punti di vista: il suo, fatto di rispetto e ammirazione; quello del figlio Juliano Ribeiro (co-regista) che ha accompagnato il padre nei suoi ultimi viaggi; infine quello soggettivo del grande fotografo attraverso la storia della sua vita narrata in prima persona. Tutt'al più celebrativo, ma trovo che non ci sia nulla di sbagliato nell'omaggiare un uomo che con immagini di rara potenza è stato in grado immortalare come pochi altri la condizione umana negli eventi della Storia contemporanea. Per me una forte esperienza emotiva e anche una testimonianza che mi ha lasciato un segno profondo. Trailer

“Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e filtri giusti. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea.” Tiziano Terzani
Brasile 1986 - Sierra Pelada, 50.000 cercatori d'oro

lunedì 23 giugno 2014

I miei anni ottanta: 1983 playlist

Nasce lo swatch, icona degli anni '80; esce Zelig, il capolavoro in cui Woody Allen "disegna una società stupida e banale che prima idolatra Zelig, poi lo dimentica, poi lo mercifica e quindi lo bistratta". (filmscoop). Trionfa il trasformismo, inizia l'era di Craxi e la new wave è ai titoli di coda.



domenica 27 aprile 2014

Cura Robespierre: da Q a L'Armata dei Sonnambuli

In contemporanea all'uscita de L'armata dei sonnambuli, una sorpresa da parte della sezione musicale dei Wu Ming: è in distribuzione dal 18 aprile un album intitolato Bioscop che raccoglie in versi e musica le mini biografie o racconti biografici di alcuni personaggi maschili, contemporanei e non, fra cui: Vittorio Arrigoni, Juan Manuel Fangio, Socrates, Peter Norman, Bradley Manning, Hồ Chí Minh. Seguirà una seconda parte al femminile. Al di là dell'aspetto musicale, il disco ha il pregio di riportare alla luce storie poco conosciute come ad esempio quella dell'australiano Peter Norman, medaglia d'argento nei 200 alle olimpiadi di Messico '68, boicottato per tutta la vita dal suo paese per aver solidarizzato con Tommie Smith e John Carlos. Com'è noto i due atleti americani sul podio misero in scena la più eclatante protesta nella storia dei giochi olimpici, con il guanto nero e il pugno chiuso durante l'esecuzione dell'inno.
Tornando al campo letterario, prosegue il viaggio affascinante nella Storia del collettivo bolognese, giunto ormai al giro di boa dei vent'anni. C'è un filo prezioso di ricerca, passione e attualità che lega questi libri attraverso i quali gli autori riescono sempre a parlare al nostro presente attraverso la formula del romanzo storico. Li ho letti tutti e il mio preferito resta sempre Q, il primogenito e il punto di partenza della loro bibliografia. Questa volta ne L'armata dei sonnambuli la macchina del tempo di Wu Ming ci porta alla madre di tutte le storie, nonché della modernità: la Francia della rivoluzione e più precisamente del 1794, periodo immediatamente successivo al Regime del Terrore del Comitato di Salute Pubblica guidato da Robespierre. E' l'ora della cura e della lettura.

L’armata dei sonnambuli sono le folle dei commuters della subway londinese all’ora di punta, sono le folle che si accalcano all’entrata del supermercato il giorno in cui c’è uno sconto, sono i milioni di oppressi che vanno a votare per il loro oppressore, sono l’immenso pubblico della televisione multiforme e uniforme.
Grazie all’azione ipnotica di un cospiratore reazionario si forma l’armata dei sonnambuli: un esercito di schiavi che si identificano con il loro padrone e ne eseguono ciecamente i disegni perché la loro coscienza e la loro sensibilità sono state ipnotizzate, anestetizzate. Da questo punto di vista il romanzo racconta(anche) il divenire automa dell’umanità moderna.
Franco Berardi "Bifo"



martedì 22 aprile 2014

Liberiamo la musica e l'Italia dagli italiani

Mentre sono in fila al distributore arriva un furgone con due tizi vestiti da lavoro che si fermano a pochi centimetri dal paraurti della mia auto. Va beh, un'occhiata storta e finita lì. Scendono, e il più vecchio (comunque un po' più giovane di me) per ingannare l'attesa inizia a canticchiare, in modo ben udibile e con aria compiaciuta, una canzone inneggiante il duce. A quel punto il sottoscritto non può esimersi dal commentare a voce alta:- "Bella canzoncina di merda". Ne nasce un parapiglia (fortunatamente solo verbale) sull'orgoglio di essere italiani, su come ci siamo ridotti e sul nonno tornato a piedi dalla Germania. E quindi? Se è per questo, il mio di nonno ha avuto i piedi amputati per assideramento in Grecia dove era andato a combattere proprio per Mussolini.
Ancora oggi, dopo 70 anni, c'è ancora gente che vive tristemente di queste mitologie. Pace all'anima loro.


Il giorno di Pasqua Klaus-Peter Diehl, flautista e musicista tedesco che ha suonato in svariate orchestre d'Europa, si presenta in frac e papillon nella piazza principale di Ravenna per allietare la giornata con brani di musica classica. Ben presto viene bloccato da due zelanti vigili urbani che gli notificano un verbale da 50 euro per la mancanza di permessi: è il regolamento comunale sui buskers. Un norma che obbliga a presentare preventivamente una Scia (Segnalazione certificata inizio attività) dove l'artista deve dichiarare le proprie generalità, il possesso dei requisiti morali, il tipo di spettacolo previsto, il luogo e gli orari dello stesso. Il commento dell'artista di fronte all'idiozia della burocrazia: Ho sempre suonato ovunque liberamente. E poi questa non è la città candidata a capitale europea della cultura? Eccolo qui in un live con Sinead O'Connor.

lunedì 31 marzo 2014

Video '80: Everyday Is Like Sunday

Quando penso agli anni ottanta le prime cose che mi vengono in mente sono la musica fantastica (checché ne dicano i soliti detrattori) e la mia meno entusiasmante giacca con le spalline imbottite... E poi Chernobyl, l'Aids, Frigidaire, Quelli della notte alla tv, Mennea e Sara Simeoni a Mosca, l'urlo di Tardelli, Pertini con la pipa, la nascita dei videoclip. Ovviamente il botto finale della caduta del muro di Berlino in diretta alla tv, ma anche una mezza generazione falcidiata dal riflusso e dall'eroina che aveva invaso la penisola.

Per finire, splendide canzoni come questa.



venerdì 6 settembre 2013

La teiera volante a New York: 4 - Chelsea Hotel

Fa una certa tristezza vedere i dodici piani del Chelsea Hotel in ristrutturazione per ricavarne appartamenti di lusso. Ci hanno concesso di entrare appena nell'ingresso per dare una sbirciata veloce e poi leggere le targhe all'esterno, fra cui quelle dedicate a Leonard Cohen e Dylan Thomas. E così anche l'hotel dai mattoni rossi costruito nel 1883 e trasformato dal 1905 in albergo per clienti a lungo termine, finirà il suo corso.
Più che un albergo “Il Chelsea” passava per essere “La Casa” dove la libertà dello spirito, la tolleranza delle diversità, facevano il palo con l’arte e la creatività. Insomma, un rifugio ideale per tutti gli artisti, talentuosi e non. (M. Pipitone).
Arthur Miller, Mark Twain, Edgar Lee Masters Jack Kerouac, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Tom Wolfe, Andy Warhol, Dylan Thomas, Edith Piaf, Janis Joplin, Leonard Cohen, Bob Dylan, Joni Mitchel, Lou Reed, Andy Warhol, Charles Bukowski, Allen Ginsberg, Patti Smith,  Robert Mapplethorpe,  Basquiat...
Difficile citarli tutti: musicisti, artisti, scrittori e poeti che hanno lasciato un segno nella formazione di più di generazioni. Resterà nella storia.

martedì 3 settembre 2013

La teiera volante a New York: 2 - Incontro ad Harlem

Il primo giorno visitiamo Harlem. All'ingresso di una chiesa un anziano signore di colore si avvicina zoppicando col suo bastone; ci saluta e chiede da dove veniamo. Sorride e dice che lui sì, c'è stato in Italia però tanti anni fa. Io, ingenuamente, chiedo se per lavoro o in vacanza e lui risponde scandendo in italiano una sola parola: g-u-e-r-r-a. La stessa in cui ha combattuto anche mio nonno, gli racconto, perdendo entrambi i piedi per assideramento. Gli occhi diventano lucidi mentre recita a memoria i luoghi in cui è stato: Francavilla, Taranto, Napoli... fino al giugno del 1945. Di sicuro era giovanissimo, perché secondo me non può arrivare a novant'anni. Gli spiego che in Italia il 25 aprile si festeggia ancora la liberazione grazie al loro decisivo intervento e che dalle mie parti, nella bassa romagna, il fronte stagnò per parecchi mesi con i tedeschi e gli alleati che si combattevano tra le due sponde del fiume riducendo in macerie i nostri paesi. Prima di salutare per avviarsi alla messa, ci dice il suo nome anche stavolta in italiano: Luigi (Louis immagino) e chiede i nostri due per poi cercare di pronunciarli in maniera corretta. Stringo la sua grande mano e come lui mi commuovo un po'.

lunedì 4 marzo 2013

Duecento dischi fondamentali: 1989, 1990 - Disintegration

Disintegrazione: mai il titolo di un album, uscito sei mesi prima del crollo del muro di Berlino, si è rivelato più profetico. Alla fine degli anni ottanta avevamo sperato e immaginato un mondo migliore senza i blocchi contrapposti. In Italia riprese lentamente ad aumentare il tasso di natalità, anche se dopo pochi mesi io e la copilota col pancione, ci ritrovammo a guardare con inquietudine la prima guerra globalizzata alla tv, seguita a pochi mesi di distanza da un'altra disintegrazione: quella che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia. Nonostante ciò, ricordo questo nuovo decennio che vado a inaugurare in musica come il più sereno della mia vita. La paternità cambia le persone e il tempo trascorso con i figli che crescono è un'esperienza meravigliosa.

114) The Cure - Disintegration
Lullaby
115) Public Enemy - Fear of a black planet
Fight the power (titoli di testa di Do the right thing di Spike Lee)



116) Depeche Mode - Violator
Enjoy the silence






117) The Charlatans - Some Friendly
The only I know






118) The The - Mind Bomb


mercoledì 6 febbraio 2013

Duecento dischi fondamentali: 1985 - 1986

Gli anni di Bottino Craxi e della Milano da bere, ma soprattutto di Reagan e Gorbaciov. Si comincia a parlare di Aids. Per la prima volta nella mia vita comincio a rientrare qualche sera prima di mezzanotte. Il motivo? Quelli della notte, programma cult di Renzo Arbore.
Nel febbraio del 1986 Berlusconi compra il Milan e due mesi dopo esplode la centrale nucleare di Chernobyl ... e vogliamo parlare della violenza visiva delle spalline imbottite e dei capelli cotonati? Anche no.

106) Eurythmics - Be yourself tonight
It's alright (Baby's coming back)






107) The Smiths - The queen is dead
Bigmouth strikes again






108) The The - Infected
Infected






109) David Sylvian - Gone to earth
Taking the veil






ITALIANI

110) CCCP - 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi - Del conseguimento della maggior età.
Curami (Live doc Rai 2)
Artista del popolo for president!



martedì 26 giugno 2012

Timira - Romanzo meticcio

Questa è una storia vera... comprese le parti che non lo sono. 
Timira - Romanzo meticcio è la storia di Isabella Marincola, italiana nata a Mogadiscio in Somalia nel 1925 dalla relazione illegittima di un maresciallo dell'esercito coloniale italiano con una donna somala, usanza molto diffusa a quei tempi. Ciò che non era comune era riconoscere i figli, dargli il proprio cognome e farli crescere in famiglia nella madrepatria fascista; è quello che accadde ad Isabella e al fratello maggiore Giorgio (che parteciperà come partigiano alla guerra di liberazione). Un romanzo biografico collettivo costruito con il contributo stesso di Isabella/Timira (deceduta a due anni dalla sua pubblicazione) del figlio Antar e di Wu Ming 2. Una struttura a mosaico: complessa, lucida e commovente che illumina alcuni passaggi cruciali di 70 anni di storia italiana attraverso la testimonianza di una profuga in patria, sempre in lotta contro i pregiudizi, divisa tra Italia e Somalia e infine costretta a fuggire da Mogadiscio durante la guerra civile del 1991, ultima cittadina italiana ad essere rimpatriata.
Come sempre i Wu Ming (in questo caso #2) fin dai tempi di Q riescono ad appassionarmi con il loro scavare nelle pieghe della storia e delle storie insabbiate che riescono a portare alla luce perché meritano di essere raccontate. In questo libro, che mi ha catturato per quasi un mese, oltre all'unicità del personaggio, è il metodo narrativo (composto da foto, materiali d'archivio, pagine di diario, lettere, narrazione in prima e terza persona) a fare la differenza. Qui si possono leggere e vedere diverse fonti ed immagini intorno al romanzo.
Isabella, mondina dalla pelle scura in Riso Amaro (wuming)
«Per lungo tempo, mi sono raccontata che mio padre è stato un gentiluomo, che ha fatto un gesto generoso, molto insolito per quei tempi. Darci il suo cognome, il nome dei nonni. Ma ora che ascolto mia madre, ora che lei può parlare, mi rendo conto che devo accettarlo: sono figlia di una violenza, e lo sarei anche se i miei genitori si fossero tanto amati, come in un bel fotoromanzo. L’amore ai tempi delle colonie è impastato di ferocia. Un pugnale affilato minaccia e uccide, anche se lo spalmi di miele»